4 marzo 2011

Lingua loro (16-1): Ancora metafora

"Roccapendente sembra la tenuta di qualche nobile toscano ancora in auge..." "E invece no. O meglio anche sì, ma nella mia testa è metafora dell'università italiana" (Marco Malvaldi, intervistato dal Corriere Fiorentino, il 30 gennaio 2011).
"Ancora una volta Napoli diventa, nel modo più colorito, la metafora dell'Italia" (Corrado Augias, in risposta a un lettore di Repubblica sul tema dei rifiuti napoletani, il 23 dicembre 2010).
Qualche giorno dopo, sullo stesso quotidiano, come puntuale contrappunto, in una vignetta di Bucchi, silhouettes di un bambino e di un adulto, che lo tiene per mano. Il bimbo: "Ma i rifiuti sono un problema?". L'adulto, ineccepibilmente stavolta: "No, una metafora" (l'immagine di questo post dice, del resto, che la battuta era frattanto venuta in mente ad altri).
La questione riguarda anche il francese. Lo lascia intendere il passaggio che segue, da un libro di Amélie Nothomb, comparso nel 1992: "Les gens ne savent rien des métaphores. C'est un mot qui se vend bien, parce qu'il a fière allure. 'Métaphore' : le dernier des illettrés sent que ça vient du grec. Un chic fou, ces étymologies bidons - bidons, vraiment: quand on connaît l'effroyable polysémie de la préposition meta et les neutralités factotum du verbe phero, on devrait, pour être de bonne foi, conclure que le mot 'métaphore' signifie absolument n'importe quoi. D'ailleurs, à entendre l'usage qui en est fait, on arrive à des conclusions identiques" (Hygiène de l'assassin).
È anzi ragionevole supporre, in proposito, che all'italiano il malanno sia giunto proprio dal francese. La circostanza spiegherebbe bene la trouvaille dello scrittore siciliano e l'enfasi entusiasta che a essa destinò la Padovani. Pronunciando il suo fatidico "la Sicilia è metafora del mondo" alla presenza di una giornalista francese, Sciascia si sarà per ciò stesso sognato parigino più di quanto non facesse di solito.
Insomma, l'attuale largo uso di metafora sembra la spia, il dettaglio rivelatore o (come direbbero i suoi amatori) la "metafora" di quella stupidità adeguata al mondo tipica della gente che si suppone (ed è sovente supposta) intelligente. La stupidità che Robert Musil definiva appunto un vero e proprio morbo della cultura.

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