6 luglio 2011

Il "gattopardo" che non c'è

"Nelle parole del principe, gattopardo appare in accezione positiva e non in quella che poi si è prontamente fissata nel vocabolario comune: 'chi si adatta a novità politiche e sociali per mantenere i propri anteriori privilegi'. Non era questo il senso cui pensavano l'autore e il protagonista del romanzo".
Si legge così in un articolo dal titolo Gattopardo non gattopardesco, a firma di una personalità della cultura italiana che non potrebbe essere più nota e autorevole, nel panorama degli studi filologici e linguistici. L'articolo è comparso in un importante supplemento culturale lo scorso 26 giugno, con uno scopo soprattutto servile: presentare l'ormai consueta iniziativa di abbinamento settimanale di un libro con un quotidiano. Una circostanza proprio occasionale e cui certo nessuno chiede severità di accostamento o novità ermeneutiche. Correttezza di informazione sì, però. Tanto più che il tema è delicato e, malgrado lo strepitoso successo o forse anche per esso, è ancora scabroso evidentemente per la cultura italiana il libro con cui si inaugura l'iniziativa: Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Della scabrosità dà già testimonianza il titolo dell'articolo, ragionevolmente redazionale, che, si direbbe, "mette le mani avanti". Intorno al libro e su di esso sono cresciuti infatti, sin dal suo apparire, molti luoghi comuni e, anche nel ristretto dibattito critico tra specialisti, molte idee prevenute hanno da cinque decenni imperversato. Ne dà testimonianza ancora maggiore una sintesi dell'articolo che, nella versione a stampa, compare al centro della seconda colonna, in grassetto: "Nelle intenzioni di Tomasi la parola che dava il titolo al romanzo aveva un'accezione positiva. Solo più avanti divenne sinonimo di trasformismo". Dell'articolo, tale sintesi riprende appunto le parole che si sono menzionate in apertura. Dice che sono le topiche e come tali qui le si tratterà.
Nella loro aspirazione a parere equilibrate o riequilibratrici, esse si pretendono rispettose del testo e, al tempo stesso, in evidente sintesi dialettica, del luogo comune: "Non fu dunque senza buone ragioni la scelta collettiva…": collettiva? Non sarà per caso il solito fantasma dell'egemonia? Sotto il segno della correttezza politica che (anche a scapito della ricerca della verità) pare debba oggi ispirare ogni parola che si pronuncia, esse sembrano infine contenersi in un'affermazione anodina e, quanto al contenuto, presentata come indiscutibile.
Invece non è così. Lo rivela un dettaglio tanto minuscolo quanto significativo. Come un sintomo che ovviamente sfugge al controllo di chi lo manifesta, come la febbre, esso dice d'una continuità. Dice che l'effetto irritativo del Gattopardo sugli intellettuali italiani persiste ancora dopo più di cinquanta anni e che esso è ragionevolmente ineliminabile, per via di una profondissima incompatibilità. Dice ancora che passano pure gli anni, ma, anche rispetto al Gattopardo e alla sua interpretazione, nell'Italia moderna (che è nata sotto tale segno) è sempre pronta l'epifania di un "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". Sono le parole di cui l'opera in questione è divenuta fortunatissima vittima. E sono quelle immancabilmente ricordate nella testatina della pagina in cui l'articolo compare. Rassicurante ammiccamento al lettore cui la pubblicazione si rivolge, ritenuto, per principio, già ideologicamente orientato quanto al Gattopardo? O, ancora più sottilmente, lapsus rivelatore di ciò che veramente vale la pagina?
Per la determinazione del dettaglio che qui si vuole discutere, si torni allora alla citazione di apertura: "Nelle parole del principe, gattopardo appare in accezione positiva e non in quella che poi si è prontamente fissata nel vocabolario comune... Non era questo il senso cui pensavano l'autore e il protagonista del romanzo". Queste espressioni, lo si è detto, riassumono e rappresentano l'intero articolo. Ciò che lasciano intendere del Gattopardo è tuttavia inesatto.
Nel romanzo di Lampedusa non si dà mai un valore positivo a gattopardo. Non gli se ne dà, a dire il vero, neppure uno negativo. E ciò per una ragione semplicissima. Nel Gattopardo, la parola gattopardo non c'è. Agli increduli, basterà l'invito a un obiettivo e personale controllo.
Nel Gattopardo, dove gattopardo non ricorre mai, ricorrono invece Gattopardo, una ventina di volte, inclusa la ricorrenza del titolo, e un paio di volte il suo plurale, Gattopardi. Sempre con iniziale maiuscola: qualcosa ciò vorrà pur dire.
Se qualcuno legge allora tale Gattopardo come se esso fosse gattopardo saranno pure fatti suoi, sarà ovviamente libero di farlo, ma sarà lecito osservare che la sua lettura lascia almeno un po' a desiderare. Non è proprio una procedura commendevole, in nessun ambito delle attività umane, l'introduzione in un documento, per qualsiasi ragione o scopo, di qualcosa che il documento non contiene e che finisce per nascondere ciò che esso contiene.
Che cosa valga Gattopardo nel romanzo Il Gattopardo è poi questione spinosissima. Antonomasia? Allegoria? Talvolta l'una, talvolta l'altra, ragionevolmente, e sempre intinte nella vena amara di una sardonica ironia: la vera vena che dilaga nel cuore profondo del Gattopardo. Certo, non una banale metafora.
Comunque sia, son quasi quaranta anni che Apollonio, da quel tonto che egli è, torna sui passi del romanzo e sulla sua struttura complessiva e, a proposito di Gattopardo, non smette di farsi domande. Non vuole certo tediare i pochi lettori del blog, però, con le sue speculazioni. Se vogliono, possono provare a scoprire da se medesimi i valori di Gattopardo, dimenticando i luoghi comuni e mettendosi a leggere il romanzo con accanimento e attenzione.
Qui, per farla breve e per comodità, ci si può pure accordare, se vogliono, sopra un'interpretazione minimalista. Si può dire cioè che Gattopardo vale semplicemente da designazione figurata del maggiore personaggio romanzesco: Fabrizio Corbera principe di Salina. Apollonio tiene a precisarlo: non è così, nel romanzo. O almeno non è compiutamente così. Ma qui, appunto, non importa di queste sottigliezze. Anche se le cose stessero semplicemente come si sta prospettando, anche se Gattopardo valesse per figura Fabrizio Salina, leggere Gattopardo come gattopardo resterebbe molto discutibile. Perché? Un esempio comparativo lo chiarirà.
Da un secolo e mezzo, in un italiano di livello, con perpetua, nome comune, ci si riferisce a quella donna di servizio, di norma un'attempata zitella, cui un sacerdote affida (ormai, forse, bisognerebbe dire "affidava") la cura della sua vita pratica e privata, per meglio dedicarsi all'amministrazione della pubblica e spirituale. Si tratta di un caso di antonomasia, uno dei più noti nell'italiano moderno. Se perpetua come nome è passato a significare ciò che significa, la ragione sta nel fatto che Alessandro Manzoni battezzò col nome proprio di Perpetua il personaggio minore del suo romanzo che si prendeva cura di Don Abbondio e della sua canonica: "serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione". La ragione dell'antonomasia sta in questo fatto testuale, inoppugnabilmente. Ciò non significa però minimamente che Alessandro Manzoni e il suo romanzo portino la responsabilità della nascita del perpetua nome comune antonomastico. Non significa neppure che il nome comune antonomastico conti qualcosa, tanto negativamente quanto positivamente, per chi volesse eventualmente intendere cosa ci stia a fare nel romanzo il nome proprio Perpetua, portato dal personaggio.
È del resto ovvio che, nei Promessi sposi, perpetua come nome comune non ricorre mai (vi ricorre invece come normale aggettivo). È ovvio che, per parlare appunto dell'attempata zitella con cui Don Abbondio condivideva le sue ambasce quotidiane, Manzoni non si serva mai di espressioni come era una perpetua o la perpetua di Don Abbondio. Nei processi linguistici come in ogni dove, l'effetto non può precedere la causa e lo scrittore milanese, con la sua invenzione onomastica, ha dato l'innesco al processo antonomastico ma questo si è sviluppato fuori della sua opera, che non ne è minimamente toccata. Manzoni, lo si diceva, non è certo stato il primo utente dell'antonomasia germogliata dalla sua parola, tanto meno ne è stato il propagatore o l'avversario. Perpetua, nel romanzo di Manzoni, è sempre nome proprio e, come nome proprio, ricorre appunto sempre con l'iniziale maiuscola. Insomma, Perpetua nei Promessi sposi non vuol minimamente dire perpetua e, ammesso che Perpetua valga qualcosa di particolare nell'opera manzoniana, si sarà tutti d'accordo sul fatto che sarebbe delirante adoperare, anche solo per contrapporlo, il valore del nome comune perpetua per capire il Perpetua dei Promessi sposi. Nessuno, c'è del resto da scommettere, ha mai pensato o scritto che Manzoni abbia non si dice licenziato ma anche solo per un momento concepito una riga della sua opera in cui un perpetua antonomastico con iniziale minuscola potesse opportunamente ricorrere.
Come mai allora fior di critici e di filologi da cinquanta anni e ancora oggi pretendono non solo di leggere gattopardo dove c'è scritto Gattopardo ma anche e, ancora più velenosamente, di interpretare Gattopardo come se esso fosse gattopardo o avesse qualcosa da spartire con gattopardo? Come mai si ostinano a mescolare i discorsi sull'antonomasia di cui abusano intellettuali (e) politicanti col doveroso discorso sul dato testuale, anche solo per fare sembiante di provare a distinguerli, dopo averli loro medesimi ingarbugliati e resi irriconoscibili? L'antonomasia gattopardo è nata come processo secondario, fuori del testo, dopo l'uscita e il gran successo del romanzo di Lampedusa, peraltro morto prima della pubblicazione della sua opera. Essa è già il frutto di una lettura: giusta o sbagliata, non è il caso di chiederselo qui, ma di una lettura e di un'interpretazione in ogni caso opinabili.
Parlare di gattopardo (e di gattopardi) a proposito del romanzo di Lampedusa è dunque molto discutibile, perché, esattamente come non ci sono nei Promessi sposi né il significato né il significante del nome comune perpetua, il significato e il significante del nome comune gattopardo nel Gattopardo non ci sono. E non perché non ci se li voglia trovare ma perché semplicemente e definitivamente essi non possono esserci, né adoperati negativamente né adoperati positivamente. Ci sono invece quelli di Gattopardo e giacciono ancora lì misteriosi ed arcani, infischiandosene di luoghi comuni e di letture "intellettuali", prevenute e ideologiche.
Lo si è detto sul principio. Si sta qui discutendo di un'inezia, presente in uno scritto comparso per la più occasionale delle circostanze e nella meno formale delle sedi. Ma forse proprio per il carattere tanto casuale e peregrino, per una volta la questione di fondo del Gattopardo e della sua "fortuna" si stagliano con la più chiara nettezza. Lasciare intendere, sotto qualsiasi forma, che la parola gattopardo si trovi nel Gattopardo è ancora una volta e sempre un modo di occultare il vero. E di accreditare il falso. È insomma, come scriveva presago Lampedusa, "una nuova palata di terra venuta a cadere sul tumulo della verità".

3 commenti:

  1. Sebbene, per citarla, egregio Apollonio, "nessuno abbia mai pensato o scritto che Manzoni abbia mai anche per un solo momento concepito una riga della sua opera in cui un 'perpetua' antonomastico con iniziale minuscola potesse opportunamente ricorrere", ciò tuttavia non significa necessariamente che

    1) per davvero a Manzoni questa possibilità non sia mai apparsa neppure per un attimo come eventualità non solo concepibile, ma persino auspicabile.

    2) Manzoni abbia scelto di trasformare questo aggettivo --- fino ad allora esclusivamente adoperato come tale -- in un nome, e addirittura in un nome proprio, proprio col segreto intento carbonaro di accreditare se stesso come poeta (nello stretto senso etimologico di "creatore") piuttosto che come romanziere, e dunque per ciò stesso attribuirsi (in certo senso di rapina) una licenza o libertà che altrimenti la correttezza politica del suo tempo (detta anche censura) gli avrebbe di sicuro negato.

    Che poi la carboneria sottesa a quel fosco intento truffaldino abbia in seguito verosimilmente generato una panoplia di copie deformi dell'originale, è faccenda che attiene alla meccanica terrestre e dovrebbe trovare in altra sede (geografica) più opportuna e politicamente corretta trattazione.

    Con sempre rinnovata stima,
    Sua Licia.

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  2. Citando Calvino, "di un autore contano le opere. Quando contano", scrive un gentile lettore, il cui commento Apollonio non pubblica direttamente, perché (per la fretta con cui è stato evidentemente composto) è un po' approssimativo ortograficamente. E aggiunge saggiamente: "Il resto sono chiacchiere". Proprio così. In primis quelle del già prolisso Apollonio, che dell'altro lungo commento lasciato dal medesimo lettore crede di poter cogliere il succo nell'invito rivolto a ciascuno a leggere qualsiasi libro senza pregiudizi per provare a farsi le proprie idee. Invito sul quale Apollonio ha già espresso il suo pieno accordo. La ratio del post sta tutta lì.

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  3. Stimo De Mauro e come linguista e come critico.

    Tuttavia nessuno è perfetto, qualche stecca la si può pure tenere in conto.

    Ci sono analisi critiche che pretendono di essere mera espressione del flatus voci del critico.

    Tuttavia si dà anche il caso di analisi critiche che si basano esclusivamente sul testo (testo in senso semiotico).

    Ecco: in quest'ultimo caso, l'analisi può illuminare il testo che prende in esame di una luce foss'anche
    trasversale, ardita, ma pur sempre lo illumina.

    Che ben vengano, allora, analisi siffatte.

    Ma non è certamente il caso di questa di De Mauro.

    Il quale avrà scritto senza fretta l'articolo ma ha avuto troppa fretta nel pensarlo, incespicando.

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