22 febbraio 2012

La resa del filologo

Già ricordato in questo blog, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo di Viktor Klemperer è un libro uscito nell'immediato Dopoguerra in Germania, la cui traduzione è stata di recente riproposta in Italia sull'onda di un apparente e montante interesse del ceto intellettuale nazionale per gli usi degenerati della lingua nella comunicazione politica e, in generale, pubblica. 
In esso, l'autore (che fu un importante filologo romanzo, allievo di una scuola accademica della massima rilevanza culturale) presenta con lucida acribia e con maltrattenuta passione le molte sconcezze dell'espressione tedesca avvelenata dal nazismo. Egli le aveva raccolte con cura maniacale e in condizioni difficilissime, durante gli anni terribili in cui, perché ebreo, era prima stato privato della facoltà di insegnare e di studiare, quindi quasi della possibilità di vivere (dovendo la sua sopravvivenza anzitutto alla dedizione di una moglie 'ariana' che, eroicamente, non si piegò mai alle orrende condizioni cui anche lei si trovava a essere sottoposta per la mai rinnegata relazione coniugale, infine a un rocambolesco intrecciarsi di eventi tutti singolarmente esiziali ma, nell'insieme, chissà come, salvifici).
Nel libro non si può dire manchino le note della tragedia, ma il suo capitolo più tragico, a parere di Apollonio, è il ventitreesimo, sta al centro dell'opera e s''intitola "Quando due fanno la stessa cosa...". Esso rende conto della consapevolezza dell'autore di una circostanza che gli era stato possibile verificare quando, libero da minacce, era potuto tornare al suo lavoro e alle sue cure disciplinari. Molte delle espressioni, delle parole e delle locuzioni che gli erano parse e aveva mostrato appunto essere invereconde sconcezze su labbra o sotto penne naziste o influenzate dal nazismo ritornavano sotto i suoi occhi, nella comunicazione pubblica, nella propaganda e anche nella lingua di tutti i giorni della Russia sovietica e della Germania che le faceva da satellite, dove peraltro Klemperer era ritornato alla sua vita accademica di sempre.
In quel capitolo, Klemperer depone le armi della critica della sua disciplina che la violenza nazista non era mai riuscita a fargli abbassare. In quel capitolo, egli tradisce la sua vocazione e la sua scienza, con una macchia che non può non estendersi a tutto il suo libro: "Non c'è dubbio che il bolscevismo, per quanto riguarda la tecnica, vada a scuola dagli americani e che stia compiendo una appassionata opera di tecnicizzazione del proprio paese, di cui devono esserci fortissime tracce nel linguaggio. Ma per quale motivo compie quest'opera? Per garantire agli abitanti un'esistenza più degna dell'uomo, migliorando le condizioni materiali grazie all'alleggerimento della pressione e della fatica del lavoro. Quindi la recente comparsa di molti termini tecnici nella sua lingua significa esattamente l'opposto di quel che significa nella Germania hitleriana: essa indica il mezzo con cui si combatte la battaglia per la liberazione dell'intelletto mentre in Germania la devo riconnettere necessariamente alla sua schiavizzazione. Quando due fanno la stessa cosa... Banalissima saggezza. Ma nel mio taccuino del filologo voglio sottolineare la versione che interessa la mia professione: quando due si servono della medesima forma di espressione non è detto che siano mossi dalla medesima intenzione. Proprio oggi voglio sottolineare questo con la massima forza ed evidenza, perché ora abbiamo un disperato bisogno di conoscere il vero spirito dei popoli da cui siamo stati tenuti lontani tanto a lungo, sui quali ci hanno raccontato tante menzogne. E su nessun altro popolo siamo stati ingannati quanto su quello russo... Niente ci avvicina di più all'anima di un popolo quanto la lingua... Però: 'gleichschalten' e 'ingegnere dell'anima' sono entrambe espressioni tecniche, ma la metafora tedesca conduce alla schiavitù, quella russa indica la libertà".
"No, professor Klemperer", se ancora gli si potesse dire, Apollonio gli direbbe. Il filologo, come fatti della sua disciplina, ha solo le parole. Le intenzioni, come ogni scienziato, lascia che le valutino i preti, se ne sono capaci, ammesso che l'unico che può conoscerle, cioè Dio, voglia concedere loro di leggerle nel labirinto dell'animo umano. 
Se non vuole tradirsi, se non vuole distruggere la sua disciplina e la sua superiore osservanza, il filologo, professor Klemperer, ha da tenersi all'espressione e alle sue parole. Se esse sono sconce, che a dirle siano stati, in ordine cronologico sparso, americani, nazisti o bolscevichi, con le loro intenzioni eventualmente diverse, poco importa: sconce e ributtanti rimangono.
Lo sono, del resto, le loro repliche odierne, tutte rivestite, nel Newspeak, da millantate aspirazioni e da promesse di miglioramento e di nuove libertà, che nessun filologo, nessun linguista si impegna purtroppo a smascherare, inchiodando con le armi della sua scienza chi le usa e le sue presunte intenzioni alla lampante fattualità delle sue vergognose espressioni.

3 commenti:

  1. Tutt'altro che benemerito - ché irrimediabilmente falotico, per fosforica assenza di ingegno e di una pur minima forma di urbanitas -, conscio che le parole (che, per loro intima natura, non spiegano ma infedelmente descrivono) chiudono ben presto la loro corsa, mi permetto di irrompere, uncinando la speranza - temerariamente giammai temperata da precedente - di poter con la presente testimoniare (per rispetto del certo, insomma, e del vero) quanto per un disattrezzato leggiucchiatore - nemmeno munito di schemi empirici volti non dirò a far combaciare frantumi di vari universi ma a porre una qualche soluzione fittizia (s'anche insomma troppo umanamente temporanea) - diuturna occasione di fastidio imbattersi nel ciarpame condito da (para)epifonemi che non concorre ad altro che all'ennesima placcatura delle intollerabili (ché intenzionali) pur tuttavia tollerande, se non tollerate, deficienze.
    Di qui, grazie, Apollonio: ché "s'anche Momo può tener banco al mercato...".

    Emi

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  2. "la sua disciplina e la sua superiore osservanza" ... "una macchia che non può non estendersi a tutto il suo libro". S'avverte in questo frustolo ancor più che altrove quella che è una costante d'Apollonio, qui aroma d'intensità da foresta di Dicotiledoni, nei cartacei del suo alter ego una soffusa fragranza di sfondo. La definisco, per il piacere di correggermi poi, affermazione della necessità per la conoscenza di rango scientifico d'un rigore etico acuminato quanto la chiarezza, anzi la messa a fuoco del metodo. Straordinario effetto di verità, dai mille luccichii nella tradizione che ha ad emblema nel Moderno "la legge morale dentro di me", ma assai più risalente, di stigma pitagorico. Eppure ad un certo punto la forza d'apprensione della bellezza non soddisfa ed una pacata comprensione - esplicitazione? - rimane nell'arco dei desideri che magari aspirano a farsi programmi.

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