16 gennaio 2013

Allievo

Chissà se Apollonio terrà fede alla promessa strappatagli tempo fa dall'emozione di sapere morto (e d'improvviso) Francesco Orlando. Promise, con l'amara ironia dettatagli dalla luttuosa circostanza, che sarebbe tornato a scriverne. Non perché - come coloro che hanno contribuito a un recente volume di testimonianze e ricordi dell'illustre studioso palermitano - lo avesse frequentato intensamente. Forse proprio per la ragione opposta.
Non è questa ad ogni modo la circostanza. E vedranno i cinque lettori che, alla fine, sarà più lesto, in proposito, il suo alter ego a tirare fuori uno dei suoi soliti scrittarelli con pretesa di saggio.
Qui del resto solo una noticina a margine del menzionato e peraltro benemerito volume che porta quasi ottanta firme (e molte molto illustri) e che nella premessa del giovanissimo curatore, di studi pisani, tiene a informare il lettore che tra i molti titoli di merito di Orlando c'era quello d'essere stato "allievo di Tomasi di Lampedusa, Pizzorusso e Auerbach".
Erich Auerbach muore, in una cittadina statunitense, nel 1957: due anni prima del momento in cui Orlando, dalla natia Palermo, sbarca a Pisa, per intraprendere i suoi studi letterari. Certo, negli anni a venire, Orlando sarebbe divenuto un accanito lettore e un grande estimatore dell'opera di Auerbach. Se ciò bastasse però a dir qualcuno allievo di Auerbach, grande sarebbe il numero di coloro cui, per lode o biasimo, si potrebbe attribuire tale titolo e infinito quello di coloro che potrebbero esser detti allievi, poniamo, di Platone.
Più solida parrebbe la ragione per cui di Orlando si può dire sia stato allievo del francesista Arnaldo Pizzorusso. È indubbio: ci sono di mezzo delle tesi universitarie. Nel suo breve testo commemorativo presente nel volume, Pizzorusso si limita tuttavia a definire Orlando (e proprio tra virgolette) uno "studente d'eccezione". Certo, per elegante discrezione. Ma forse anche perché allievo, come maestro, nell'accademia è, nell'uso predicativo, parola impegnativa, non solo per chi ne è soggetto ma anche per chi ne è complemento.
Resta il caso di Tomasi di Lampedusa e, come sempre quando si tratta del principe siciliano, si entra nel mito. Come la citazione del resto dimostra, allievo è parola che aveva e ha ancora gran corso a Pisa, città accademica per eccellenza, in Italia, e anche per questa ragione luogo eletto da Orlando, in fuga non solo materiale da Palermo, a sua patria ideale. Allievo fu parola certo largamente adottata, come professore d'università, dallo studioso, cui negli scritti capitò (se così si vuol dire) di riferirsi al suo anziano e defunto amico come a un "maestro". 
Chissà però se allievo e maestro sono parole appropriate per dire dell'asimmetrica relazione tra il maturo principe e il ragazzo di belle speranze nella Palermo del Dopoguerra. Chissà se, pur restando nella medesima lingua ma passando attraverso il gergo accademico e i suoi impliciti, non si tratti di traduzioni che praticano senza darlo a vedere il tradimento. Chissà se bastano a dire che per un sofisticato gioco di società, certo per rappresentarsi e forse anche per incoercibile bisogno di esprimersi il primo esibiva davanti al secondo gli esiti, altrimenti solo interiori, della furia di un lettore di mero diletto. E della generosa cattiveria di tale esibizione. Dei trucchi, delle trappole, delle ingenuità reciproche e delle reciproche furbizie. "Bisogna sempre lasciare gli altri nei loro errori", pare fosse il succo dell'attitudine didattica di Lampedusa, come riferì senza celare la sua inquietudine proprio Francesco Orlando. Il topo, anche quando gli sia sopravvissuto, si dirà allora allievo del gatto?
"Suvvia!" - stanno pensando i cinque lettori - "È una delle solite stupide pedanterie. E a qual pro? Cosa vuole questo sciocco organista di Donnafugata? Il concetto è chiaro. Le cose stanno come stanno, perché andarono come andarono: e Francesco Orlando si disse e fu allievo di Lampedusa".
Sarà. Ma trovare le parole giuste per dire le cose è importante tanto quanto trovarle per camuffare o per nascondere le cose. E forse anche per l'aria non troppo solida delle altre due attribuzioni, quell'allievo pare ad Apollonio l'ennesima, minuscola palata di terra destinata a seppellire il cadavere di una peraltro già più volte seppellita verità e di cui, feroce, il Gattopardo, non Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si badi bene, ma il Gattopardo sta certo sardonicamente sorridendo.

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