17 febbraio 2014

Cronache dal demo di Colono (23): Aurora

Aurora pare sia, da qualche anno, uno dei nomi che i genitori italiani scelgono più di frequente per le bimbe. E la preferenza tende a crescere. Per strada, capita infatti di sentirlo risuonare spesso. Molto più spesso di dieci, trenta, cinquanta anni fa.
Faceva Aurora, per fantasia dei genitori e non per tradizione familiare, una nonna dell'alter ego di Apollonio: la più vicina e vera. Morta, come fosse domani, nel 1968: non seppe mai così del poi celebre Maggio. Nata nel 1886, quando venir chiamata e chiamarsi Aurora voleva dire qualcosa. Il Ballo Excelsior è di cinque anni prima.
Chissà cosa vuol dire oggi, per battaglioni di bimbette, portare questo nome. Certo, non la stessa cosa che significava per una bimba che, con poche altre, cominciava a portarlo quasi centotrenta anni fa. 
I nomi propri hanno una forma, peraltro molto resistente, ma non hanno un significato: così dicono i logici e hanno ragione. Eppure, restando formalmente identici, cambiano in funzione di qualcosa che, certo, non è un significato ma non è funzionalmente un vuoto, non è sistematicamente un'assenza.

15 febbraio 2014

Sanremo 2013

"L'essenziale", "La canzone mononota" e "Se si potesse non morire" furono le canzoni classificate ai primi tre posti nell'edizione del Festival dell'anno scorso. L'insieme aveva prodotto su Apollonio qualche impressione che s'era ripromesso di sottoporre ai suoi cinque lettori, una volta divenuta la faccenda intempestiva (come, con poche eccezioni, è costume del suo diario). Difficile lo sia più di adesso. Ancora un paio di giorni e, da intempestiva, diventerà perenta. In fretta, allora, e con la promessa che, per l'anno corrente, non ci sarà una replica.
"L'essenziale" vinse e con ragione. Era trasparente la sua semplice adesione a un comune sentimento del momento, la contrizione morale (conseguente alla materiale) e l'orientamento verso la "sostenibilità": "Mentre il mondo cade a pezzi | io compongo nuovi spazi | e desideri che | appartengono anche a te... Mi allontano dagli eccessi | e dalle cattive abitudini | tornerò all'origine | torno a te che sei per me | l'essenziale". 
Nelle evidenti difficoltà, buoni propositi di mortificazione, con l'augurio che servissero, e speranze, come appunto capita ai disperati. La speranza, soprattutto, non solo che un essenziale rimanesse (e che fosse perciò determinato e determinabile, per via della nominalizzazione di un aggettivo) ma che almeno tale essenziale fosse salvaguardato, per il disperato pentito e che giurava d'essere ben disposto a farsi "sostenibile".
Che tuttavia, visti l'epoca e lo spirito, si trattasse piuttosto di impotenti velleità, di sogni malati di spiriti sì bottegai ma, al tempo stesso, irragionevolmente piegati verso un morboso ritorno ad attitudini infantili, l'ammettevano apertamente, per contrasto, la terza classificata e la sua cascata di congiuntivi desiderativi della più patente e disarmante irrealtà: "Se potessi mantenere più promesse | e in cambio avere la certezza | che le rose fioriranno senza spine | cambierebbero le cose... E poi t'immagini se invece | si potesse non morire | e se le stelle si vedessero col sole | se si potesse nascere ogni mese | per risentire la dolcezza di una madre e un padre | dormire al buio senza più paure | mentre di fuori inizia il temporale". 
Per gli Italiani qualsiasi, allora, temporale e mondo che cade a pezzi. I meno raffinati, testa sotto il cuscino, come i bambini; i più (inutilmente) avvertiti, augurio di sopravvivere almeno con l'essenziale. 
A Sanremo, come del resto in Italia, ci sono poi però, distinti dai qualsiasi, i chierici e i poeti, insomma gli intellettuali. Per principio, gli intellettuali sono intelligenti: differentemente, che intellettuali sarebbero? Circolano a Sanremo, ma circolano da qualche anno con ironia, anzi con un'ironica ironia. Ma forse non basta ancora, come definizione: con un'ironia ironica dell'ironia. Insomma, con quella che agli intellettuali parrà ciò che vogliono ma che si può semplicemente definire condiscendenza.
Gli intellettuali presenti l'anno scorso a Sanremo non partorirono una canzone, magari impegnata, come si diceva un tempo. Coerenti con il loro ruolo nella società italiana (e quindi anche nella sanremese), partorirono una meta-canzone: "Condurre un'esistenza di sforzi | tallonando la chimera di una melodia composita | gremita di arzigogoli rarissimi | che poi alla fine scopri | che ti mancava quella nota sola | bellissima | che sciocco non aver pensato prima | alla canzone mononota | una canzone poco nota | che si fa con una nota | e quella nota è questa | È la canzone mononota | puoi cambiare il ritmo | puoi cambiare la velocità | puoi cambiare l'atmosfera | puoi cambiare gli accordi | la puoi fare maggiore minore eccedente diminuita | puoi cambiare il cantante | puoi cambiare l'argomento | puoi cantarla da solo | puoi cantarla tutti insieme con il coro | puoi farla fare all'orchestra | mentre ti prendi una pausetta". 
Per un intellettuale a Sanremo, difficile - lo si deve ammettere - essere più ironico e più intelligente di così: conseguente trionfo tra i giurati di qualità ("- Figaro! - Son qua"). A riscatto dei disperati della sostenibilità e del politicamente corretto e degli infantili e volgari bottegai, seconda piazza. Ed è vero: puoi cambiare tutto. Non cambia mai però, nel Bel paese, "la canzone mononota" di cui si fecero nel 2013 testimoni e prova, al tempo stesso, i condiscendenti intellettuali di Sanremo, con quella che, vista da questo scorcio del 2014, pare del resto anche una (facile) profezia.



13 febbraio 2014

Sommessi commenti sul Moderno (10)

Bella trovata far circolare con velocità fiumi di danaro, di modo che, in tanti, ci si è creduti ricchi vedendosene rapidamente passare per le mani qualche fiotto. 
Ancora più bella quella di fare impetuosamente circolare fiumi di parole, di modo che, in altrettanti (e, a ben vedere, i medesimi), ci si crede intelligenti spendendo le tante che ci si trova nelle orecchie.
Lampante è adesso che la prima è stata un imbroglio: ammettersi poveri è doloroso ma, ineluttabilmente, si deve e quindi si può. 
La seconda, più ideologica, nasconde ancora, ma sempre peggio, la sua natura truffaldina. Del resto, a nessuno tocca incontrovertibilmente di riconoscersi stupido, tanto meno tocca a un'epoca intera, che, per assolversi, ha fatto e fa ancora equo lusso di critici e cantori. E di critici tanto sciocchi (qui, queste stesse espressioni lo dimostrano) quanto sciocchi sono stati da sempre i suoi cantori.  

11 febbraio 2014

"Passano i cavalli di Wallenstein..."

À suivreaveva concluso il temerario Apollonio quasi cinque anni fa. Tiene fede alla promessa o dà corso alla minaccia (in ogni caso, riflessiva): decidano i suoi cinque lettori. Il passo viene stavolta dal capitolo trentesimo.
"Alcuni, novellisti di professione, raccoglievan diligentemente tutte le voci, abburattavan tutte le relazioni, e ne davano poi il fiore agli altri. Si disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fosse peggio la fanteria o la cavalleria; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di condottieri; d'alcuni si raccontavan l'imprese passate, si specificavano le stazioni e le marce: quel giorno, quel tal reggimento si spandeva ne' tali paesi, domani anderebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva il diavolo e peggio. Sopra tutto si cercava d'aver informazione, e si teneva il conto de' reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perché quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente del paese. Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandenburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l'ultimo. Lo squadrone volante de' veneziani finì d'allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero".
Imperfetto, presente, passato semplice (o remoto).
L'imperfetto, il tempo (o forse il modo) narrativo per eccellenza, fa da sfondo: "raccoglievan... abburattavan... ne davano... Si disputava... si ripetevano... si raccontavan... si specificavano... si spandeva... faceva... si cercava... si teneva... passavan... si potevano considerar...". Forme lunghe: nessuna con meno di tre sillabe. Tutte orientate a creare un'atmosfera di vaghezza e di indeterminatezza, si osservi.  Come va osservata l'insistenza, quanto alla diatesi, dell'impersonale. In tale vaghezza, l'imperfetto, col suo carattere aspettuale durativo, prepara insomma con lentezza il luminoso primo piano del presente, rigorosamente personale. 
Questo appare all'improvviso ma in modo che, lo si intuisce subito, sarà iterato. Lo si intuisce per via del cambiamento di ritmo: dopo essere stata lunga, l'arcata della proposizione si fa breve: verbo e soggetto. La ripetizione sta alla base della grammatica della poesia, notò Roman Jakobson, e siamo appunto nel nocciolo poetico del passo. Il presente appare inoltre in combinazione con nomi propri: picco di determinazione, certo, ma proiettato verso la favola, verso il mito. Capita allora di stare proprio lì, nei pressi del ponte di Lecco. Capita di vedere defluire i reggimenti: tra la polvere sollevata dai cavalli, dai fanti, capita magari di intravedere Merode, Colloredo, di intravedere Torquato Conti, "il diavolo". Se, di loro, basta solo il nome, una ragione ci sarà e chi fin lì non lo conosce, quel nome, lo impari.
I soggetti incalzano il verbo. Con le sue forme, solo leggermente diverse, questo assicura infatti la continuità testuale: "passano... passano... passano.... passano... passa... passa... passa... passano... passa... passano...": in una fricativa enfatica iterata con tale insistenza, come non vedere una sfumatura fonosimbolica, in rapporto con lo scorrere dei reggimenti lungo il ponte? Manca ad arte qualche battuta: "...e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari...". L'assenza dà al lettore il gusto dell'integrazione virtuale e della partecipazione alla scansione del ritmo. Della novità si fanno carico invece i favolosi soggetti, con la loro variazione. Questa, come si sa, diletta, ma, sempre, per alternante contrasto con la continuità: insomma, per relazione e per differenza. 
Fino al momento in cui, "quando piacque al cielo", a mo' di sintesi, tutto si scioglie in una chiusa in quattro tempi, puntiformi e perentori: "passò... fu l'ultimo... finì... si trovò libero". Tutte personali, queste forme del passato remoto scoppiano l'una dopo l'altra in rapida sequenza in virtù dell'essere brevi e tronche. Sono i mortaretti finali: pum, pum, pum, pum. 
Si cambia scena, infatti, e parte di conseguenza una diversa orchestrazione dei tempi: "Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un temporale d'autunno, si vede dai palchi fronzuti d'un grand'albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s'erano riparati. Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene...".
E qui si potrebbe chiudere anche questo frustolo. In diminuendo, ancora qualche riga forse merita però l'"anderebbe" che occhieggia, nel primo segmento, tra gli imperfetti. Nota di variazione, d'una modalità che oggi, tra i linguisti, è d'uso indicare come "evidenziale" ed "epistemica". Dopo i congiuntivi della cosiddetta interrogazione indiretta, solo per un attimo, il condizionale dà infatti la parola proprio ai "novellisti di professione" (che li si possa definire ancora oggi così? Sarebbe divertente). 
I "novellisti di professione" raccolgono, abburattano, danno il fiore (la piccola catena metaforica ha la farina, al centro: del diavolo?) e, proferendo ciò che riferiscono, capita lo presentino come un sentito dire: quando compare il condizionale, la notizia è, insomma, la voce (o la voce la notizia? Delicata questione, dal far parola sulla quale Apollonio si astiene).
Beh! Scherzando coi santi, ad assicurare il piacere (si dirà infantile) di chi ama la lingua con animo semplice basta, come si vede, veramente pochissimo: à suivre.

7 febbraio 2014

A frusto a frusto (82)




Chi si esprime si apre agli sguardi e al suo per primo, riflessivamente. Se non vuol passare per ipocrita, dispone solo dell'ironia.

3 febbraio 2014

Linguistica candida (13): Cose infinite-2

Come ormai si sa anche fuori delle accademie e quasi a ogni angolo del mondo, Noam Chomsky dice da sessanta anni infinite le espressioni linguistiche esplicitamente enumerate dall'ipotetico automa grammaticale partorito dalla sua fantasia.
Indica poi in tale infinitezza il dato sperimentalmente cruciale per comprendere la natura umana, a suo parere realisticamente simulata da quell'automa.
Concepito, in origine, per diventare un concreto algoritmo, l'automa non è mai stato realizzato come tale, neppure episodicamente. Con ragione, già quaranta anni fa, sotto questo rispetto, Maurice Gross poteva quindi illustrare il fallimento della grammatica generativa, in un articolo pubblicato su Language.
Col passare del tempo, l'automa è però diventato un programma di ricerca, sempre più generico. Si è ridotto in tal modo a fungere da quadro di massima, se non da vero e proprio feticcio di uno stile argomentativo dogmatico e, anche per questa ragione, ogni giorno più adatto a presentazioni parodistiche e festivaliere della scienza linguistica (e non solo della linguistica), come è ormai facile verificare appunto quasi ad ogni angolo del mondo.
"Only two things are infinite, the universe and human stupidity, and I'm not sure about the former" è un motto attribuito, come si sa, ad Albert Einstein, ma ragionevolmente non suo. Di infinitezza vi si tratta però e, senza riguardo alla paternità, esso procura a chi vuole la sola prospettiva forse utile a intendere di cosa, con Noam Chomsky, è stata fin qui questione e di cosa, considerato il suo codazzo, lo sarà ancora per molti a venire.