26 novembre 2014

Trucioli di critica linguistica (15): Scuola e consumi culturali di massa

Nei consumi culturali del Moderno putrefatto, come in ogni altro genere di consumo di massa, un ruolo di grande rilievo, per ragioni economiche, hanno i nomi di marca. 
Un brand è infatti un valore da mettere a frutto. Firenze o Venezia sono brands, come lo sono Leonardo da Vinci, Ferrari e Pavarotti. E sono osservazioni così ovvie che Apollonio quasi si vergogna di ricordarlo ai suoi cinque pazienti lettori.
Un'estensione della logica economica del brand e una novità sono tuttavia sotto gli occhi di tutti, in questi giorni. 
C'era il canone letterario: opere e autori riconosciuti canonicamente come rilevanti, per la società in cui il canone s'era elaborato. 
Tra gli effetti del canone, non irrilevante, anche per la perpetuazione del canone, una correlata pratica didattica. È così per ogni istituzione educativa: comunque determinato, segue un canone. Di conseguenza, autori di cui sapere qualcosa, opere da leggere, per brani, e da "studiare". 
Per generazioni, milioni di persone, scolarizzate, si sono così trovate esposte a flussi di informazioni che, trattenute o meno in modo efficace e sistematico, si sono sedimentate e si sedimentano in nomi propri, con tutto il bagaglio di luoghi comuni che ogni nome proprio, di necessità, porta con sé. 
"Nomi propri, luoghi comuni", per ricordare la trouvaille, peraltro facile, che l'alter ego di Apollonio ha spacciato nel titolo di un suo articoletto, sul tema linguistico della natura cosiddetta propria dei nomi.
La logica economica ha giustamente visto in questo stato culturale un'opportunità, peraltro da sfruttare a costo zero. Nessuna fatica a imporre brands, con il correlato discorso e il correlato costo di produzione e di diffusione di tale discorso. Brands già belli e pronti, costruiti gratuitamente per giunta da un'istituzione pubblica, l'istruzione di massa, nata ingenua, come idea, agli albori del Moderno e messa a punto, come valore in sé, come marchio di una civiltà, dal Moderno maturo.
L'istituzione scolastica sopravvive d'altra parte ingenua nella modernità putrefatta, anche nella coscienza della maggioranza dei suoi praticanti. Per paradosso, costoro - l'alter ego di Apollonio ne è un modesto campione - si credono ingenuamente la parte più avvertita e consapevole della società.
Sottoposta a criteri eteronomi, spacciati come ineludibili e quindi, nella sostanza, totalitari, la scuola funge oggi invece da ingranaggio, non sempre fluido, di processi che la trascendono e la sollecitano, rudemente, a rendersi utile. A cosa? A processi economici, appunto. 
Un modo per rendere utile la scuola, che essa lo voglia o no, a un qualche ordine economico lo si è allora trovato. Certo, un modo marginale, ma cosa si vuol trarre di meglio da un arnese tanto mal concepito per i tempi che corrono e così fuori delle loro logiche? Tra docenti e discenti, tiene impegnate per ore persone a milioni, ogni giorno. Quanto basta per farne un interessante bacino di consumatori. 
Così, già da qualche tempo, il nome Dante, per esempio, è diventato apertamente un brand, sul quale un importante gruppo editoriale italiano ha investito, col ragionevole progetto di averne un legittimo ritorno economico. Ritorno economico benedetto, peraltro, perché circondato, a differenza di quelli ricavati in altre aree del mercato, dall'aura purificatrice delle operazioni moralmente indiscutibili: fatte per il bene e per l'edificazione morale e materiale dell'umanità (o di una sua porzione variamente determinata). 
Nella serie dei "grandi" filosofi, "grandi" scienziati, "grandi" non-importa-cosa, che popolano i sogni d'una candida umanità, un brand di veloce consumo si sta oggi provando a fare allora di Giacomo Leopardi: una sorta di momentaneo Chanel N° 5. Poche gocce bastano infatti per sognare e per trovarsi, nudi e inermi, già nel mondo della favola. 
Di Leopardi, del resto, in giro non se ne sa troppo ma se ne sa abbastanza, si direbbe, proprio il giusto, per rinfocolarci intorno la favola che ogni brand, anche effimero, deve appunto portare con sé. 
Il Cielo guardi Apollonio e i suoi cinque lettori dal menarne scandalo (che fortuna, però, ha avuto il feroce Sebastiano Timpanaro a congedarsi per tempo). 
Con tutto ciò che possiede, con l'intero bagaglio della sua cultura - ivi compresa l'antropologica - ogni epoca fa lo specchio di se stessa. E il Leopardi di Tommaseo o di Croce dice di Tommaseo o di Croce esattamente come dice di la Repubblica il Leopardi di la Repubblica
Indignarsi, in proposito, è sintomo di pochezza di spirito. O del perseguimento di concorrenti e complementari interessi.
Osservare, invece, si deve, per provare a capire. A capire anche i dettagli espressivi che sostanziano i fenomeni culturali, nella loro natura sistematica. 
Al brand Giacomo Leopardi il titolo di un recente film - di cui qualche giorno fa ha fatto menzione Apollonio, in un discorso diverso e ancora meno serio del presente - ha fornito l'opportuna tag-line: Giacomo Leopardi. Il giovane favoloso
Ed è di gran spasso osservare allora come, mediatrice una prestigiosa istituzione culturale, con un'ovvia onda di ritorno, l'espressione del brand, con il mutamento di valore sociale e culturale che ne consegue, capita colpisca adesso la scuola:


La scuola: quel modesto e inconsapevole laboratorio d'ingenuità donde, innocente, ciò che sarebbe diventato l'attuale monstrum è sortito. Non come brand, naturalmente, tanto aggressivo quanto effimero. Col passo incerto, piuttosto, e l'andatura circospetta di chi s'illude di durare nel tempo e con ginocchia che, per tale ragione, facevano certamente "giacomo giacomo".

20 novembre 2014

Linguistica candida (21): Dati





Quanti equivoci scongiurati e quanti imbrogli sventati, se li si chiamasse presi invece di chiamarli dati.

17 novembre 2014

Linguistica da strapazzo (34): Riflessioni sull'età. Riflessiva

È sera. Con un bicchiere in mano, Apollonio sta, come deve, in un crocchio di persone, eufemisticamente, mature che chiacchierano (c'è bisogno di dirlo?) dei tempi andati.
"Ho la tua età", dice, sollecitato a esprimersi in proposito, uno dei conversatori. "Se hai la mia età" - commenta il destinatario - "Lucio Battisti non ti può essere indifferente...".
In ispirito, Apollonio è già volato via. In fuga. Via da "Voglio Anna..." e da "Dieci ragazze per me...", che pure parlano ancora al suo cuore. Ha cominciato a compitare, nel suo foro interiore, un paradigma quotidiano e, al tempo stesso, strano: quello degli aggettivi detti possessivi in combinazione con età.
È la sua pena, la pena del linguista da strapazzo: capita, d'improvviso, cominci a fare giochi di segmentazione e sostituzione con ciò che sente o gli passa per la testa.
Ognuno ha la sua, di età, ci mancherebbe, pensa. Come ognuno ha i suoi acciacchi. Può avere tuttavia anche l'età di un altro o di un'altra. Ho la tua, la sua età vale allora 'ho la stessa età che hai tu, che ha lui o lei'. E fin qui, nulla di strano: storia che sentiva ripetere, a proposito di casi simili, declinati in parecchie lingue, più di sette lustri or sono, affacciato a una finestra della torre centrale di Jussieu, col Panthéon come protagonista del panorama.
Non appena aggettivo e soggetto condividono però, nel costrutto, la persona grammaticale, ecco succedere il cortocircuito. Ne viene fuori un divertente effetto. Non ci aveva mai prima prestato attenzione, sebbene si può star certi che l'espressione gli sia entrata nelle orecchie, nel corso della sua vita, un numero difficilmente calcolabile di volte, e comparsa sulle labbra, negli ultimi anni, di tanto in tanto: Ho la mia età...
E non per dire un'ovvietà alla Max Catalano (tra i suoi cinque lettori, ci sarà qualcuno che sa a cosa si riferisce Apollonio: gli altri si rivolgano a Wikipedia). Per dire, invece, più o meno, 'ho un'età (ormai) avanzata, sono vecchio (o quasi)': Se continui con questo passo, scordati che io ti tenga dietro: ho la mia età
Tra sé e sé e tra il serio e il faceto (del resto, è linguistica da strapazzo), Apollonio decide allora di chiamare il fenomeno 'età riflessiva'. Gli piace il gioco di parole: quando l'età che si ha è dichiarata come propria, è un''età riflessiva'. Bello, no?
Naturalmente, 'età riflessiva' non riguarda solo la prima persona. Non di persona per sé si tratta ma della relazione sintattica in cui entra la persona, appunto. Casi di "età riflessiva" sono disponibili per tutte le persone.
Hai la tua età: poco carino da dire a chiunque e da evitare rigorosamente rivolgendosi a una signora; Avete la vostra età: condizioni d'uso poco diverse dalle sopra indicate, e solo per lo stemperamento del plurale; Abbiamo la nostra età: d'uso solidale, si tratti di quarta persona autentica, si tratti di uno di quei casi in cui il 'noi' è posticcio e sta per quel 'tu' effettivo, che pone automaticamente il destinatario sopra un gradino più basso del locutore: Caro il mio nonnino, abbiamo la nostra età. Pensa sia il caso di sgattaiolare così dopo cena per rincorrere ancora le gonnelle? 
Alla terza persona - che non a caso il buon Benveniste diceva essere una non-persona - le cose si fanno ovviamente più complicate. O, meglio, soltanto ambigue. Ambigue in astratto, come è (quasi) sempre il caso con la lingua: nella concretezza dei discorsi, delle ambiguità, di norma, nessuno si accorge.
E allora, con Ha la sua età, Hanno la loro età tutto dipende dalla relazione tra il soggetto e l'aggettivo: insomma dipende da chi sta dietro quel sua e quel loro. Se si tratta di terza persona diversa della terza persona che fa da soggetto (secondo il modello che vige, per es., in La pettina), si sta parlando di un'età qualsiasi, giovane o meno poco importa, condivisa dalle due diverse terze persone. Se invece la terza persona in ballo è un'unica terza persona (secondo il modello che vige, per es. in Si pettina), riappare appunto 'età riflessiva'. E con 'età riflessiva' c'è poco da fare, anche fosse solo per ischerzo, si tratta di un'età matura: Ha la sua età, poverino: è rimasto a Jakobson. Cosa vuoi ne capisca, di scienze cognitive... 
Prendere consapevolezza di 'età riflessiva' risveglia nella coscienza di Apollonio altri modi ellittici (e a loro modo idiomatici) per evocare, nei discorsi, l'età matura. Modi che stanno anche loro nella regione dei (pietosi o pelosi) eufemismi. Del resto, da sempre, l'età, quando cresce, diventa tema "sensibile", come s'usa dire adesso.
Ecco allora il banale Ho, hai, ha, abbiamo, avete, hanno una certa età: certo, certa, orientati da litote, sono infatti d'uso largo, anche fuori del caso qui in discussione: Ho un certo appetito. 
Ecco il meno banale, perché ancora più secco e perentorio Ho, hai, ha, abbiamo, avete, hanno un'età. Pronto, come tutte le espressioni simili, per gli usi (auto)ironici, Non mi potete chiedere adesso di gettare alle ortiche il Programma minimalista. Santo Cielo!  M'ero abituato. E ormai ho un'età.
Tutti, pensa Apollonio, sorseggiando il suo vino, hanno un'età: la differenza consiste allora nel fatto che solo di alcuni, e a partire da una certa età, lo si dice. Non se ne dice l'età; basta dire semplicemente Ha un'età, per farlo secco o farla secca: Ha un'età ma va ancora in giro conciato come sai. 
Lungi, allora, dall'essere ciò che sembra, l'articolo indeterminativo di Ha un'età. Incommutabile con altro che passi per determinatore. Circostanza che rende chiaro il fatto che avere un'età (c'è bisogno di dirlo?) non è come avere una macchina, un(')amante, una casa, un conto in banca e così via. 
Del resto - il bicchiere è quasi vuoto e Apollonio filosofeggia - avere un'età, avere la propria età forse corrisponde ad avviarsi a vivere l'esperienza contraddittoria di chi prova quanto sia importante avere, con un'età, tutto il resto, intuendo che importante, se mai lo è veramente stato, forse non lo è più.
"Mi sono informato, c'è un treno che parte alle sette e quaranta...".

16 novembre 2014

Linguistica candida (20): Significato e semantica






Il significato è faccenda troppo seria e spassosa perché la si lasci in cura a chi dice di occuparsene perché fa semantica.

15 novembre 2014

"Le Rondinelle" e "i Felsinei"



In radio, stasera, la partita tra il Bologna e il Brescia. Mai una volta, se Apollonio non s'è distratto, il delizioso appellativo figurato "le Rondinelle" per la seconda squadra, mai una volta "i Felsinei", gustosamente dotto, per la prima. In radio, bei tempi andati di Enrico Ameri.

Trucioli di critica linguistica (14): "la buona SCUOLA"...

è un brand, una sorta di nome proprio. Come nome di marca non è fatto male ed è anche corrivo al punto giusto. 
Un nome di marca aspira sempre a essere corrivo: deve esserlo, a qualsiasi livello esso si ponga. La sua corrività è un valore correlativo: può trovarsi molto in alto, ma a qualsiasi altezza si trovi, un brand ha da essere corrivo. Un brand non corrivo è infatti un brand fallito.
La corrività di la buona SCUOLA non è, ovviamente, triviale né ecumenica: dalla sua portata, qualcuno è tenuto fuori, tanto in basso, quanto in alto. È insomma una corrività media, come appunto deve essere, si direbbe, per destinazione sociale e per indirizzo politico. Ma Apollonio, di politica, non s'intende e quindi si asterrà dall'aggiungere altro. 
Se non la nota, antropologica più che politica, che - come tutte le corrività medie - quella di la buona SCUOLA è a tendenza omologatrice. Si tratta della variante, nella Modernità putrefatta, di ciò che, nella Modernità tardo-matura, poteva essere qualificato come tendenza totalitaria. Ma niente paura, per carità: molti pericoli hanno smesso d'essere incombenti sulle società occidentali, da allora. La ragione è che essi si sono semplicemente realizzati e, come si è potuto constatare, fin che dura, ci si vive anche comodi. Quindi vale la pena di accogliere tutto con un sorriso. 
Nel Belpaese, poi, con un sorriso ancora più aperto: si sa infatti che l'attitudine nazionale più qualificante è la capacità di stare sempre in equilibrio sul filo che fa da discriminante non all'alternativa tragica tra l'essere e l'apparire, ma a quella comica tra l'"esserci" e il "farci".
Tenendo presente quindi questo preciso carattere nazionale, che invita appunto all'allegria, nel marchio la buona SCUOLA si osservi come suona bene, per iterazione, il doppio uo, ovviamente tonico. E si noti come esso si combina in chiasmo con il doppio la che apre e chiude l'espressione. 
Cinque sillabe: l'atona centrale na, preceduta e seguita, rispettivamente, dalle sillabe toniche buo e scuo, a loro volta, l'una preceduta, l'altra seguita da un la. Tutte aperte: la-buo-na-scuo-la
Le tre dispari (dispari in numero dispari) con una a come apice sillabico; le due pari (pari in numero pari) con dittongo e vocale media posteriore aperta come apice sillabico. 
Non una i né una e: avrebbero stonato e la buona SCUOLA, come si vede, tende a tollerare poco ciò che non rientra nel suo facile equilibrio e non è a tono. Per ragioni che - è ovvio dirlo - sono anzitutto estetiche (cioè della qualità della relazione tra significato e significante), la buona SCUOLA è perciò molto distante da "la bella scola": quella alla quale, con gran faccia tosta, Dante favoleggia gli fu consentito d'accodarsi, "sesto tra cotanto senno".
Per passare a una nota sintattica (e, per tale via, semantica: ma di semantica Apollonio capisce ancora meno che di politica; integrino di conseguenza, come vogliono, i suoi cinque lettori), sono ragioni convergenti, se non proprio le stesse ragioni, a determinare la posizione dell'attributo. Con buona preposto al nome, la buona SCUOLA non equivale a la SCUOLA buona. L'attributo posposto sarebbe uno sconcio intollerabile per il brand. Esso se ne troverebbe completamente sfigurato, soprattutto nella capacità di fare l'occhiolino alla fascia alta del suo target. Quel ceto mandarino, o aspirante tale, che di sé pretende d'essere per principio "di buona scuola" e al quale che la scuola sia buona, nei vari valori che qui può prendere il predicato, importa infine poco o niente. 
Tra la buona SCUOLA e la SCUOLA buona c'è insomma l'invalicabile fossato che divide, in certe circostanze, l'attributo anteposto da quello posposto e, correlativamente nel caso specifico, il privilegio dall'assenza di privilegio.
Né va meglio, per venire dalla sintagmatica alla paradigmatica, con l'esito di un'eventuale commutazione dell'articolo: una buona SCUOLA sarebbe altra e misera cosa, messa a confronto con la buona SCUOLA. La prima lascerebbe infatti pensare a un'implicita molteplicità e quindi a una possibilità di scelta tra buone scuole possibili: se non una, l'altra o l'altra ancora. 
Ciò è proprio quanto specificamente confligge con lo spirito del brand. In esso, l'articolo determinativo definisce come unica la buona SCUOLA, come unico è d'altra parte, per principio, il referente designato da un nome proprio. Non c'è scelta, insomma: pare del resto che, da qualche tempo, scelta non ce ne sia in molti altri àmbiti della vita associata. È l'esito grottesco e paradossale cui sono giunte, putrefatte, le cosiddette società libere, che si sono trovate a potere essere libere solo in un modo e quell'unico modo, per giunta, eteronomamente determinato.
Come è ormai regola nell'universo della comunicazione pubblica, al marchio la buona SCUOLA s'accompagna una tag-lineAdidas? Impossible is nothing. Renault? Drive the change. Nutella? Che mondo sarebbe senza Nutella? La tag-line di la buona Scuola suona Facciamo crescere il paese. Vi compare la quarta persona grammaticale: l'invito è comunitario ma la comunità invitata ha da stare tutta, come si è visto e come dichiara apertamente la grafica, sotto il tetto dell'unicità definita e definitoria di la buona SCUOLA. Guai a uscirne.
E qui Apollonio si ferma. Finirebbe infatti per pestare i piedi al suo alter ego. Poveraccio, questi si troverà a dire quel poco che può e sa di quarta persona grammaticale, in un quarto d'ora graziosamente concessogli dagli organizzatori di un convegnone che ha per tema la lingua della politica. A Napoli, tra meno di una settimana. E lo farà, lo sconsiderato, senza capire neanche lui un'acca di politica. Che la caritatevole Euglotta lo protegga.

A frusto a frusto (89)



Una parte di te è in ostaggio. È una parte di te: troverà prima o poi il modo di liberarsi.

13 novembre 2014

Cronache dal demo di Colono (27): Il giovane favoloso

Uso accorto di mezzi tecnici e di ripresa, rigida e inclemente autodisciplina dell'interprete principale (costretto, per esigenze del ruolo, a muoversi sulle ginocchia, come se lo facesse sui piedi), scenografia e costumi da Oscar, gran lavoro di regia, senza giungere per questo a essere un capolavoro: è Moulin Rouge, un film di John Huston del 1952. Vi si narra di Henri de Toulouse-Lautrec e la pellicola, di produzione britannica, vanta anche un ruolo minuscolo e di riflesso nella storia della cultura letteraria italiana. 
Fu dopo aver visto Moulin Rouge in una sala cinematografica palermitana, appunto nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, che a un non meglio precisato professore d'università, impressionato dalla vicenda umana del protagonista e stupefatto dalla relativa narrazione per immagini, venne fatto di chiedere a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, incontrando il principe al caffè, se, "lui che sapeva tutto", poteva risolvere il dubbio che gli si era formato nello spirito: un pittore francese come quello che il film presentava era mai realmente esistito o non si trattava piuttosto di un personaggio di pura fantasia?
L'aneddoto meritò d'essere riferito anni dopo da un testimone, il giovane Francesco Orlando, per la sua inopinata e sardonica conclusione. Scrive appunto Orlando che, alla richiesta del professore, Lampedusa replicò imprevedibilmente che, incapace di rispondere su due piedi, avrebbe fatto opportune ricerche, a casa, nella sua fornita biblioteca, promettendo di sciogliere il dubbio del suo interlocutore il giorno seguente. Il giorno seguente lo sciolse, in effetti, ma in modo ancora più inatteso: il film, disse il principe al professore, aveva per protagonista un personaggio fantastico; d'un pittore francese con quel nome e con quei caratteri, fisici e morali, nei suoi libri non aveva infatti trovato traccia. E alla domanda di una spiegazione della sbalorditiva risposta fattagli dai suoi giovani amici presenti aveva in séguito e privatamente opposto la sua massima forse più ferocemente gattopardesca: "Bisogna sempre lasciare gli altri nei propri errori".
Qualche giorno fa, Apollonio è andato a vedere Il giovane favoloso, pellicola recente con cui il regista napoletano Mario Martone ha raccontato la vita di un tal Giacomo Leopardi, che nell'opera figura, "giovane favoloso", appunto, come scrittore e poeta italiano dell'Ottocento. 
Dalla sala, Apollonio è uscito divertito: molto spasso gli ha fornito, tra l'altro, la quasi costante espressione da "impunito" del bel ragazzo che vi fa da primattore, quale essa è peraltro testimoniata dall'immagine affiancata. Il film ostenta toni gravi e risentiti, ovviamente. Qui e lì, addirittura, pedanteggia: pare sia destinato, d'altra parte, alle scolaresche, che sono appunto condotte alle sue proiezioni da solerti docenti. Si capisce rapidamente tuttavia che, come parecchia altra produzione nazionale del momento, si tratta di roba messa su alla bell'e meglio, facendo economie non solo sui mezzi materiali (e ciò, naturalmente, è esente da biasimo) ma anche e soprattutto su quelli morali, un dì tradizionalmente larghi nella produzione cinematografica italiana. 
Conclusione: nello spirito di Apollonio, dietro il divertimento per lo spettacolo gioiosamente pedestre, è nato un dubbio. Questo tal ed implausibile Giacomo Leopardi, scrittore e poeta di Recanati, di cui narra il film di Martone, è realmente esistito o si tratta d'una figura che, come pare ammettere il titolo dell'opera, è solo di favolistica e forse non ben controllata fantasia? 
Apollonio non ha però a disposizione, nei caffè che frequenta, un principe che "sappia tutto" cui rivolgere richiesta d'opportuna illuminazione. L'indirizza così ai suoi cinque lettori, conoscendoli benevoli nei suoi confronti e clementi con le sue manchevolezze. Chissà che non ci sia tra loro un principe o una principessa che, senza saper tutto, ma sapendo certamente abbastanza, possano aiutarlo a sciogliere il dilemma.  

12 novembre 2014

Scherza coi santi... (4): Lesto Fante

Minuscola mostruosa creatura: non un ele-Fante. 
Doveva peraltro apparire. Si vivono infatti i fasti di un tree-on-Fante fast, diverso dalla rapidità auspicata da Italo Calvino per l'allora atteso nuovo millennio. 
Sortita editoriale in-Fante o for-Fante, ci si chiede. Importa saperlo? Non è un Oli-Fante, ma lapsus o no, parla: pleonastico I-ero-Fante (leggasi: ahi...). 
E del resto, i mutamenti, prima o poi, producono i loro emblemi, che sono come fichi maturi.
Insomma, sic! O Fante.

[Piccola chiosa del giorno dopo: del fatto cui allude il frustolo si trova qui notizia: dalla sua Citera, Apollonio l'ha ieri supposto noto ai suoi cinque lettori; si fosse sbagliato, ne chiede venia.]  

4 novembre 2014

A frusto a frusto (88)






Ci sono epoche, come forse è la presente, che chiedono a chi scrive una prova d'amore paradossale: dare quanto a esse la sparuta testimonianza che non tutti vi si sono bevuti il cervello.