30 dicembre 2014

Trucioli di critica linguistica (16): Brigadieri e caporali

"Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l'avviamento dell'impianto termico, dichiara d'essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l'asportazione di uno dei detti articoli nell'intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell'avvenuta effrazione dell'esercizio soprastante". 
È Italo Calvino con indosso, per divertente parodia, la divisa stilistica d'un brigadiere. Mette su carta in tal modo ciò che lo stesso Calvino, vestito da uomo comune, ha appena raccontato così al Calvino brigadiere che lo interroga: "Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata". Or sono cinquanta anni, l'invenzione narrativa del contrasto servì allo scrittore per aprire ad effetto un contributo giornalistico dal titolo "L'antilingua".
Il tempo è passato e non invano. Da questa distanza, è possibile osservare come il pezzo del Calvino brigadiere abbia più valore, si direbbe, civile, del piatto racconto del Calvino che s'atteggia a uomo comune. E, contestualmente, le chiose che lo scrittore fece seguire al contrasto esemplificativo suonano in modo diverso.
Può non piacere, la prosa brigadieresca. La si può persino odiare. Tacciarla di "antilingua inesistente" svela però un'attitudine intellettuale infantile, tipica del Moderno: negare l'esistenza di ciò che non piace o risulta odioso. E negarla non tanto in atto (come si potrebbe, se ciò che non piace lo si può mettere addirittura in parodia?), quanto, per paradosso, in potenza. Meglio, in progetto: come esito di un programma di annichilimento. Un programma volto al miglioramento del mondo, certo. Ma quale programma di annichilimento di qualcosa - negli ultimi secoli - non si è detto, da parte di chi lo proponeva, orientato alle migliori sorti di classi, nazioni, umanità e altre umane, troppo umane astrattezze?
Come a tutto il resto che fa varia l'espressione (anche sotto questi rispetti, magari non commendevoli), all'esistenza delle prose brigadieresche è invece forse il caso di rassegnarsi. Come è il caso di rassegnarsi all'esistenza delle ministeriali. E persino delle professorali, delle intellettuali e delle giornalistiche. Tutte, le si può punzecchiare, quando si gonfiano (e capita spesso). Si deve sorriderne ogni volta che si può. E vale la pena di provare a scansarsi dai loro effetti quando - capita anche questo - hanno l'aria d'essere proprio nefasti. Se non ce la si fa, pazienza. 
Pretendere che un brigadiere, nell'esercizio delle sue funzioni, s'esprima come piace a uno scrittore, a un professore di filologia o, peggio, al loro ideale di persona comune è invece bamboleggiare. Ed è spiritualmente da caporale pensare che ci sia qualcuno in diritto di intimargli di farlo, per decisione d'autorità.

27 dicembre 2014

Cronache dal demo di Colono (28): Declino e caduta della cucina italiana

Le condizioni correlative e le circostanze concomitanti del collasso dell'Impero romano furono numerose, come è noto. Una ebbe natura sociologico-militare: un esercito di mercenari difficilmente assolve il compito morale (peraltro, nel caso di un esercito, di moralità sovente più che dubbia) cui sarebbe chiamato; fa altro, se l'occasione si dà e un'occasione si dà sempre.
Il balzo parrà ardito ai cinque lettori di Apollonio ma una situazione comparabile egli intravede oggi per la cucina italiana (se così si può chiamare quella composita congerie di cucine locali che occupa, come le varietà linguistiche, l'area dell'Italia come ultra-nazione: ci si guardi bene dal dirle cucine regionali, al massimo diocesane e quindi, eventualmente, provinciali: ma di ciò un'altra volta).
Come legione, un esercito compatto di composte massaie, ai diversi livelli di pertinenza sociale e quindi di possibilità alimentari, animava gastronomicamente un impero di varietà innumerevoli, costruito in secoli di storia. Non lo faceva per soldi né per la fama. Per la fame, piuttosto, di consanguinei e affini. Uno scopo di lampante praticità, beneficamente sommerso, come capita alle cose umane che valgono, da un'etica e da un'estetica: da un bene e da un buono, superlativi, quando l'occasione lo domandava e lo rendeva possibile.
L'esercito popolare della cucina italiana è in via di dissolvimento (se non si è già dissolto): non è qui il caso di dire come e perché. Scarseggiano peraltro le risorse con cui la cucina si fa: le decisive, che sono le qualitative, ovviamente, e non le quantitative. Le seconde non sono mai state abbondanti come oggi - si vedrà per quanto ancora.
Della cura della cucina italiana sono stati così socialmente incaricati dei prezzolati professionisti: in una parola, dei mercenari. Una pletora di mercenari, tra i quali solo a pochissimi, naturalmente, la grazia concede di potere dire di esercitare nobilmente il mestiere dei tegami, come a pochissimi capitani di ventura spettava d'incarnare il nobile mestiere delle armi. Il resto è, come deve essere, masnada, cui interessano il soldo e il saccheggio: legittimamente.
Per altre condizioni correlative e circostanze concomitanti, declino e caduta della cucina italiana sembrano così ineluttabili. E Apollonio teme che annunciati e prossimi fasti lo sanciranno. La storia è crudele. La sua ironia palese.   

24 dicembre 2014

Bolle d'alea (19): Grossman

"Il bene non risiede nella natura, non sta neppure nella predicazione dei missionari e dei profeti, non sta negli insegnamenti dei grandi sociologi e dei capi popolo, non nell'etica dei filosofi... Sono gli uomini comuni che portano nei loro cuori l'amore per quanto vive, naturalmente e spontaneamente umano e hanno cura della vita, si rallegrano del caldo del focolare dopo una faticosa giornata di lavoro, non accendono falò e roghi sulle piazze.
Ed ecco, a fianco del minaccioso, grande bene, esiste una bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito, della gioventù che ha pietà della vecchiaia, è la bontà del contadino che nasconde nel fienile il vecchio ebreo. È la bontà dei guardiani che mettendo in pericolo la loro stessa libertà, consegnano le lettere dei prigionieri, non ai propri compagni di fede, ma alle madri e alle mogli. Questa bontà privata di un singolo individuo nei confronti del suo simile è senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori del bene religioso o sociale".
È Vasilij Grossman (tradotto da Cristina Bongiorno), nel cuore del suo Vita e destino: un cuore insensato, come la bontà di cui parla, e oltremodo ottimista. Ma come diversamente, considerata la temperie?