15 luglio 2016

Linguistica da strapazzo (43): Maestro e ministro

I titoli dei giornali mirano sempre all'effetto: “Pagate i maestri come i ministri”. Quaranta anni fa, un titolista del Corriere della sera pensò bene di attirare così l'attenzione del pubblico sopra uno scritto di Natalia Ginzburg. Lo ricorda meritevolmente Doppiozero, che ripubblica il testo per la nota circostanza anniversaria di questi giorni. Non ne muta il titolo. Evidentemente, esso resta d'effetto. Vi si allude al denaro e il tema, con altri che sarebbe corrivo elencare, non manca mai di eccitare. 
L'articolo della scrittrice è naturalmente più sfaccettato. Fa le lodi ideali della professione di maestro elementare (erano altri tempi, per la faccenda del genere). D'altra parte e in chiaroscuro, fa anche la descrizione del misero stato materiale e morale di tale professione nella società italiana dell'epoca. “Soprattutto dovrebbe essere, tale professione, insignita di una dignità simile a quella che si prodiga alle professioni più alte, più responsabili, più delicate: essi dovrebbero essere, nella scala sociale, pari ai ministri”: ecco il passaggio che ispirò l'ignoto titolista. Ne venne fuori, con quel titolo, il pretesto per una illustrazione di come, nel mutamento linguistico, il destino delle parole sia bizzarro e impredicibile. Sapere se l'ideatore ne fosse consapevole è impossibile ed è inutile chiedersi se, come ispiratrice, lo fosse Natalia Ginzburg. Nelle teste degli esseri umani, anche dei più acuti, la lingua ha strade che, per essere percorse, non domandano consapevolezza. 
Le parole maestro e ministro hanno molto in comune e il loro accostamento fa scintille, per chi le sa vedere. La loro forma, anzitutto. La prima si è formata così come oggi la si sente a partire dal latino magistru(m). È passata di bocca in bocca, in tempi ormai remoti e per tanto tempo: è una parola di trafila popolare. Ne è conseguito l'esito di una qualche usura, nella sua forma. La seconda non è una parola di trafila popolare; nell'espressione poi divenuta italiana, è stata ripescata dal latino ministru(m). Ciò è accaduto per le vie di una lingua più di livello; di conseguenza, con meno accidenti. 
Quanto invece alle funzioni e, di conseguenza, al significato? Qui viene appunto il bello. Le due basi latine erano infatti costruite secondo il medesimo modello, all'epoca trasparente. Per dirla con approssimativa semplicità, come si vede meglio in magister e in minister, le medesime parole al caso nominativo, tale modello comportava l'aggiunta di un suffisso comparativo -ter  agli avverbi magis e minus. Non è necessario a questo punto invocare grande dimestichezza con la lingua di Cesare e Cicerone: lo si sa, il primo valeva 'più' e il secondo 'meno'. Insomma, tra i due e per opposizione reciproca, magistru(m) era er Più, ministru(m) era er Meno: si badi bene, correlativamente. 
Ministru(m) era infatti la parola che si usava per dire 'servitore'. Lo testimonia ancora oggi la lingua speciale della Chiesa: se qualcuno vi si dichiara ministro del Signore, lo fa per dire d'esserne un servitore, non un ministro come ormai la parola si intende tra i laici. Tanto meno un ministro con portafoglio: così almeno dovrebbe essere, in linea di principio. E, sempre nella lingua della Chiesa, qui presa a testimone di una conservazione, maestro, anzi Maestro ha un valore che sarebbe ridondante ricordare. Un valore del genere vige ancora negli usi nobili della parola maestro: quelli cui sempre Doppiozero sta dedicando da qualche settimana e per altri versi molta attenzione (e anche lì, bisogna un giorno o l'altro che ci si torni, dalla prospettiva linguistica).
Fuori delle lingue speciali e degli usi di maestro che si son detti nobili, le due parole hanno invece avuto la storia che hanno avuto. E, per dirla meno equivocamente con espressioni combinatorie (le parole, da sole, sono sempre poca cosa: anzi, nulla), tra fare il maestro e fare il ministro c'era ai tempi dell'articolo e c'è ancora la differenza che tutti si conosce. 
Contro tale differenza, anche di trattamento economico, Natalia Ginzburg lanciava argomenti di una razionalità tanto lucida quanto, a ben vedere, radicalmente disincantata, se non fosse per l'ossessivo ricorrervi dei noi (del resto, nessuno è perfetto). Nella situazione in cui venivano espressi, erano argomenti provocatori e paradossali, certo. Resi ancora più paradossali però dalla storia di maestro e di ministro, di cui, come si diceva, è inutile chiedersi se la scrittrice fosse al corrente.
Quella storia e, complessivamente, la storia della lingua mostrano come i rapporti tra le parole e le cose siano sovente e bellamente soggetti a bizzarri capovolgimenti. Anche lo scritto di Natalia Ginzburg e il titolo che gli diede il Corriere e ribadisce Doppiozero lo confermano: con il tempo, er Più (maestro) è passato a designare professionalmente un poveraccio che si guadagna la vita badando a torme di indisponenti mocciosi e può solo lamentevolmente sognare di avere in società la considerazione e le prebende destinate (e si dica se non è ironia) a un er Meno (ministro) qualsiasi, cioè a uno che, con la scusa di servire, si trova tra coloro che il ruolo autorizza a fingere di contare qualcosa.
Sono circostanze linguistiche, ritiene Apollonio, di cui non è male acquisire, quando si dà l'occasione, almeno un briciolo di consapevolezza.


9 luglio 2016

Lilli e la Prussia vagabonda


“Nella vita e nel lavoro ci vuole disciplina. Io vengo dall’impero austroungarico e ho avuto un’educazione un po’ prussiana”: così, secondo la pagina Facebook che celebra l'evento, pare abbia detto in qualche occasione la celebre ed illustre premiata. Ed è un lampante esempio del modo con cui capita che, nell'espressione, la figura divori la lettera.
La Prussia, con l'Austria-Ungheria, non ha naturalmente nulla da spartire, dal punto di vista geografico; poco, da quello storico-culturale. Tra i due stati, per ragioni di egemonia, si giunse persino a una guerra, ora è un secolo e mezzo. Vinta dalla Prussia, ci sono storici che ritengono che essa, voluta dal tremendo Otto von Bismarck, sia alla radice di molti dei terribili guai in cui il conseguente spirito tedesco - e, in verità, prussiano - gettò l'Europa nel secolo seguente (con complice stupidità di altre nazioni, naturalmente).
In quella guerra, come si sa, si ficcarono anche gli Italiani, appena fattisi uniti, contro l'Austria-Ungheria e con la Prussia. La chiamarono Terza guerra d'indipendenza e, al netto del solito Garibaldi, ci guadagnarono, al carro dei Prussiani, le prime brutte figure della loro storia bellica unitaria. 
Ne ebbero anche lutti incomprensibili, gli Italiani. Come quello di cui narra un Giovanni siciliano nei Malavoglia. Ci si pensi un momento, Luca d'a Trizza, un ragazzo dalla cui sopravvivenza dipendeva il destino della Casa del nespolo, che ci stava a fare a Lissa? Ce l'aveva mandato la leva obbligatoria, che il Regno d'Italia aveva imposto ai suoi cittadini, non tutti peraltro felici di esserlo, seguendo un modello anche prussiano: nel senso proprio 'di Prussia'. Che porti male, prussiano, al Bel Paese? 
Ma prussiano, è chiaro, non val più 'di Prussia', come il celebre blu. Vale 'rigido', 'severo': donde l'attenuazione di "un po'", che non guasta mai. Né, mentre segnala la simpatica evenienza linguistica, sfiora Apollonio il pensiero che alla rigorosa giornalista che si rivendica asburgica manchino gli opportuni riferimenti e che quindi, Dio non voglia!, come un'italiana qualsiasi, le capiti di esprimersi per approssimazioni.
Non potendo fare altro, la buonanima di Giovanni, il certaldese, di certo sorride. Da italiano vero.

5 luglio 2016

Linguistica candida (37): De textu




I testi tacciono. Parlassero, sotto sacro giuramento direbbero che detestano la linguistica del testo.