24 aprile 2020

Cronache dal demo di Colono (63): "Ravvedetevi"

Non la pacata e riflessiva osservazione di ciò che concretamente, incessantemente e ineluttabilmente muta (testimone, la medesima vita umana), ma il cambiamento in sé, come un feticcio cui si deve un culto mistico, è tratto specifico della forma di civiltà che pare oggi non risparmiare più nessun angolo del mondo, diffusasi come si è, nei secoli, prima per lenta, poi per rapidissima epidemia. 
I riti imposti da quel culto chiedono scenari continuamente cangianti e, lungi dal distrarre l'osservatore spassionato (cioè, etimologicamente, lo storico, se non per professione, per attitudine), il turbinio gli offre ottime condizioni per una prova, la cui messa in atto viene scambiata dai fedeli di quel culto per manifestazione di spirito retrivo, quando, semmai, è propriamente il contrario, dal momento che è un modo di verificare quanto di sostanziale e quanto di meramente fenomenico ci sia nel cambiamento.  
Non è nuova, ma vale la pena sia ribadita l'osservazione che, pur nel mutare degli scenari, non le persone, che sono effimeri tokens, ma i personaggi, che sono durevoli types, con le loro attitudini e i loro modi (umani) di condursi, sono caratterizzati da tratti che si ripetono. Ed è suggestivo pensare, passando dalla diacronia all'etologia, che gli atti scenici che ne conseguono siano determinati in modo decisivo da una sorta di coazione a ripetere, tragica talvolta, talaltra comica, sempre, vista la sua evidenza, impudicamente esibita. 
Un caso esemplare, nella presente temperie, è recato dalla diffusissima attitudine alla predica profetica. La scena pubblica e, in modo debordante, il palcoscenico intellettuale conta oggi mille e mille predicatori e predicatrici, che sgomitano alla ricerca di ascolto. 
Nella ressa, s'alzano le loro voci che ingiungono a chi le ode ravvedimento e cambiamento (di stile) di vita, che dichiarano l'esigenza universale di mondarsi e, mondandosi, di mondare il mondo, che invitano a muoversi verso nuove terresante in un comunitario pellegrinaggio, meglio se non proprio inerme, come pellegrinaggio, visto che, sulla strada, non è detto si manchi di incrociare qualche infedele. 
Non c'è àmbito della società globale che al momento sia immune da prediche profetiche e ammonitrici e nello spettacolo, ripetitivo e quindi fondamentalmente noioso, bisogna che si ammetta che, forniti da qualche guitto, ci sono qui e là sprazzi esilaranti.

23 aprile 2020

Dare i numeri senza averli

Sulla lingua, persiste una depressione ciclonica. Chetatasi la procella delle pubbliche fustigazioni grammaticali, adesso piovono glosse a catinelle. La stagione le incoraggia, quasi le richiede e non c'è chi, professionista o dilettante della penna, dimessi i panni di Aristarco, non abbia rapidamente preso quelli di uno Spitzer. Resa acuta in tal modo la propria matita, si è messo o messa a chiarire il trasparente uso di metafore cristalline, a dipanare derivazioni lessicali rettilinee, a spiegare arcane antifone da asilo nido. Questo va del resto sul mercato delle idee e guai a non assecondare il mercato: "il mercato" è la prosopopea di una tirannia e non si sa il tiranno, ma certo i suoi pavidi e interessati lacchè mal sopportano che lo si contraddica o che ci sia qualcuno che, al suo cospetto, faccia spallucce e, sovversivo, gli giri le spalle.
È così che si è appreso, tra l'altro, che quanto sta accadendo, malgrado se ne parli come di una guerra, non è una guerra, anche se, in figura, potrebbe esserlo e forse ineluttabilmente lo è. È così che si è capito cosa veramente significa quello "stai buono e composto o viene l'orco e ti mangia" che non manca momento non rimbombi in celle i cui reclusi e le cui recluse tollerano qualsiasi cosa, ma non che qualcuno o qualcosa venga a ricordare loro l'unico vero e ineludibile obbligo contratto con l'atto neppure volontario, chissà se intenzionale, di venire al mondo. Insomma, tutta roba che, non ci fosse chi la porta alla luce, non si sa come farebbe la società locale e globale a essere consapevole di sé medesima in un momento tanto critico.
Se questo è lo stato in cui versa oggi la metalingua, i due lettori di Apollonio saranno clementi con lui. Al diluvio questo diario aggiunge infatti una lacrima: si tranquillizzino, effetto del ridere. Sarà la goccia che farà traboccare il vaso della loro pazienza? Forse. Ma il danno sarà limitato dal sottovaso del loro affetto per il vecchio Apollonio, che appartiene a un categoria a rischio, ma che, con le due raffazzonate nozioni apprese da autodidatta, è lui piuttosto un rischio, pur se modestissimo, per la categoria.
Tanti e tante, come si diceva, parlano incessantemente di parole. E da dove le parole vengono. E cosa significano. E come si usano. E come andrebbero usate. E che fini perseguono. E che conseguenze avranno o potrebbero avere. E così via. Come se, nel discorso a una dimensione che si è oggi impadronito della totalità dello spazio pubblico in maniera appunto e propriamente totalitaria, la cosa più importante fosse quanto si presenta sotto la forma di parole. Non è così, invece, a parere di Apollonio. A caratterizzare quel discorso, a qualificarlo in modo pertinente non sono le parole, qualunque esse siano, ma sono i numeri.
Qui, bisogna che i due lettori di Apollonio facciano attenzione, per non rimanere, almeno loro, vittime di un luogo comune inveterato. Non solo inveterato, ma tra quelli che, da qualche secolo, impediscono che delle cose morali, concretamente morali del mondo, si abbia una percezione ragionevole. Ci si sta riferendo al luogo comune che vuole in contrasto numeri, valorizzati positivamente come certi e affidabili, e parole, valorizzate negativamente come approssimative e inaffidabili.
Intendiamoci: giudizio di valore, ciascuno dà il suo e qui non si insiste un solo momento sulla questione. Libere opinioni. Ciò che il luogo comune nasconde o distorce non è però un'opinione, è un fatto. E nascondere o distorcere fatti è falsa coscienza o ideologia, dicevano due acuti osservatori che, ora è un secolo e mezzo, di come stesse già procedendo la società dell'Evo moderno s'erano fatta qualche penetrante idea, magari sbagliata. Ma, come ripeteva ad Apollonio in anni ormai lontani una persona a lui carissima, è meglio avere idee sbagliate che non avere idee del tutto.
Cosa cela allora la prospettiva che, nel discorso, vuole numeri e parole irriducibilmente diversi? Cela il fatto che nel discorso in genere e ancor più nel discorso pubblico, non c'è niente, non può esserci proprio niente che non sia parola, in ultima e fondamentale istanza. Insomma, non c'è nulla che non soggiaccia al sistema del discorso. Se numeri vi ricorrono, dunque, come ricorrono in effetti e in maniera ossessiva nell'odierno discorso pubblico, si tratta in modo lampante di parole vestite o, meglio, mascherate da numeri.
È questo un elementare dato di realtà, della realtà linguistica, dello stato dei fatti linguistici; realtà, stato dei fatti assoggettabile a osservazioni sperimentali e alla formulazione di ipotesi che provino a renderne conto allo stesso titolo di come si fa con ogni altra realtà, con ogni altro stato dei fatti, mutando ovviamente ciò che c'è da mutare quanto al metodo. Ogni seria prospettiva osservativa ne ha infatti uno suo proprio: insostituibile e talvolta frutto di pratiche faticose e secolari. Ce l'ha persino la linguistica, a proposito della quale Apollonio non si nasconde il dubbio possa sul serio essere qualificata, tra le discipline, come seria.
Ancora una volta, però, attenzione, pazienti Lettori. Dei numeri presenti nel discorso, non si sta qui dicendo che si può discutere in quanto numeri (cosa peraltro ovvia, dovunque i numeri sono eventualmente numeri e basta: sempre che un contesto siffatto esista). Si sta dicendo una cosa più specifica, linguisticamente. Si sta dicendo che se ne può discutere per ciò che sono nel discorso: cioè per il loro valore di forme superficiali di parole. Se ne può quindi discutere proprio in quanto parole che si presentano come numeri, con tutti i correlati effetti discorsivi. Un discorso con parole che compaiono come numeri soggiace infatti, come ogni altro discorso, ai modi costitutivi e di sviluppo del discorso e, nel discorso, i numeri possono mentire esattamente come possono farlo, dandosi il caso, le parole. Ma, di nuovo, è questa un'ovvietà di cui non si vuole fare qui la minima questione. Solo i gonzi (incoraggiati a essere tali da altri gonzi o da furbi imbroglioni) possono credere che chi, nel suo discorso, mette tante parole travestite da numeri sia perciò stesso esente dal sospetto d'essere un millantatore, un imbroglione, un mentecatto. La cruda e penetrante ingenuità della lingua possiede in proposito una locuzione rivelatrice: dare i numeri.
Interessante è in ogni caso osservare che, linguisticamente, una cosa è parlare per parole mascherate da numeri, una cosa diversa è parlare mescolando parole e parole vestite da numeri, una cosa ancora diversa è parlare solo per parole. In scelte siffatte, ci sono infatti valori diversi e bisogna evitare di cadere nella trappola del vieto e malandrino "I numeri parlano da sé": Apollonio sa di parecchi malfattori che non si servono di questa formula, ma non sa di nessuno che se ne serva che non sia un malfattore. Pericoloso, aggiungerebbe.
Nei discorsi, i numeri, come maschere delle parole, non hanno mai parlato da sé. Se dicono qualcosa, a chi li sa osservare criticamente, dicono al massimo che sono forme che celano parole e che le relative parole sarebbero magari in apparenza più vaghe, ma sarebbero almeno parole smascherate. O cui si potrebbe togliere più facilmente la maschera. La parole mascherate da numeri hanno infatti maschere corazzate. Avanzano con violenza, quando si tratta di contrasti, e non fanno prigionieri: le parole prive di maschere e inermi ne vengono di norma sterminate.
Se, giunti a questo punto, i due pazienti Lettori provano a figurarsi l'oceano di discorsi caratterizzati da numeri in cui da decenni si trovano immersi come destinatari; se si accorgono come tale oceano, nella presente temperie, sia divenuto ben più che tempestoso e, da dove dovrebbero giungere parole, arrivano loro addosso numeri a ondate gigantesche e contrapposte; se osservano che si tratta di numeri tanto irragionevoli e spaventosamente grandi o, quando di taglia accettabile, tanto assoluti e privi dello sfondo che li qualifichi, da risultare completamente incomprensibili, tranne che nella loro funzione di opachi involucri di parole; se insomma, a mente sgombra e per un momento, riflettono sullo stato presente della comunicazione e della soggiacente espressione, Apollonio è certo che non potranno non concordare con lui. Stare a fare chiacchiere sulle parole, sulle metafore e sulle etimologie, sulle inferenze e sugli impliciti e così via, pensando così di cogliervi chissà quale essenziale spirito del tempo è gingillarsi, se mai è stata cosa diversa. 
Oggi le sole parole che contano (ed è facile gioco di parole) sono i numeri. E il discorso pubblico della modernità putrefatta (pubblico e totalitario, c'è da precisare) non fa altro che dare i numeri. Li dà senza tregua, parossisticamente e a dosi sempre più massicce. Li dà in modo da instupidire, da stordire chiunque lo ascolti. Dà i numeri (ed è questo l'aspetto più comico della faccenda) senza avere i numeri per darli, cioè senza il fondamento di quel pensiero umano ragionevole fatto di parole libere che non c'è numero possa mascherare. O, forse, che non c'era numero potesse mascherare.

18 aprile 2020

Linguistica candida (52): Irreparabilità del mutamento

Quando di un mutamento linguistico si comincia ad avere anche la più modesta sensazione, quando si comincia ad avvertirlo, ma senza averne ancora chiara consapevolezza, in realtà quel mutamento è già avvenuto e, ammesso a qualcuno dispiaccia, sarebbe bene fosse consapevole che esso è irreparabile e che indietro la lingua non torna.
Vale lo stesso, del resto, per ogni altro aspetto morale (e quindi sociale) della vita umana. Ne consegue che, se l'essere personalmente conservatori può ancora valere come segno di intelligenza, l'essere reazionari e l'esserlo politicamente (cioè in pubblico e in società) è solo una manifestazione di plateale e rabbiosa stupidità. Sempre e comunque. Ancor più fuori delle questioni linguistiche, dove la stupidità, com'è noto, ci mette poco a diventare crudelmente sanguinosa.

12 aprile 2020

Bolle d'alea (28): Eco

"Ci sono questioni di straordinario interesse generale sulle quali sembra ozioso fare indagini sul comportamento della stampa. Voglio dire che è abbastanza inutile fare ricerche per sapere quello che si sa già".
Apollonio trova tra suoi appunti della fine degli anni Settanta del secolo scorso queste parole di Umberto Eco, tratte non sa da dove. Ragionevolmente, da uno degli scritti effimeri e militanti che il filosofo alessandrino disseminava in quegli anni nelle sedi più varie.
Ampliando lo sguardo al di là della "stampa" propriamente detta, come è oggi ovvio e necessario si faccia, sono parole adattissime alla presente temperie, pare appunto ad Apollonio. In giro, c'è un mucchio di gente che, vantando dottrina metalinguistica, si affanna a fare sapere al colto pubblico e all'inclita guarnigione ciò che il colto e l'inclita appunto già sanno.

1 aprile 2020

A frusto a frusto (123)





Passabili, gli esseri umani, per la capacità di sorridere. Misteriosa, soccorre sempre i migliori e non li abbandonerà nemmeno nella valle di Giosafat.