23 agosto 2020

I cabasisi di Salvo Montalbano

Come ogni officina, anche quella dell'alter ego di Apollonio ha un banco di prova. Riccardino, l'estremo prodotto della penna di Andrea Camilleri (estremo, al momento), sta lì, con altra roba, in attesa di un'occasione che forse non verrà mai. Apollonio lo sfila dalla pila e comincia a scorrerlo. In fondo a pagina 12, "I cabasisi a Montalbano gli principiarono a firriari tanto vorticosamenti che si scantò di decollari da un momento all'autro". Legge e non riesce ad andare oltre. Gli si mette di traverso non un pensiero definito, ma una sorta di immagine fantasmatica. Nella figura, riconosce un Luigi Pirandello ideale nei tratti e dall'attitudine severa. 
I due lettori di questo diario lo sanno: chi lo detta è un tipo strambo e strambe e cervellotiche sono spesso le sue associazioni di idee. Stavolta, però, l'appena riferita epifania interiore non si può dire sia effetto di tale bizzarria spirituale. L'uscita dell'ultimo episodio della serie del commissario Montalbano è stata annunciata a più riprese durante l'anno che è trascorso dal giorno della morte del suo creatore e, negli ultimi mesi, cioè alla vigilia di un'estate di ombrelloni domestici e di letture da spiaggia caserecce, è stata accompagnata da un'intensa campagna promozionale. Di tale campagna, Luigi Pirandello è stato proposto come testimonial virtuale e il suo nome vi è stato evocato senza risparmio, non solo per le arcinote ragioni di congruenza geografica. "Autore", "personaggio" e altri connessi luoghi comuni ne hanno in effetti annobilito oltremodo gli accenti.
Che dunque alla lettura di "I cabasisi a Montalbano gli principiarono a firriari tanto vorticosamenti che si scantò di decollari da un momento all'autro" lo spirito di un Apollonio qualsivoglia possa popolarsi fantasmaticamente dell'ombra di un severo Luigi Pirandello e che tale ombra gli imponga di non procedere oltre "ci può stare" (come oggi pare si debba dire per riferirsi a ciò che è prevedibile). Ma non è tutto.
Sbigottito, Apollonio ha appena finito di rileggere "I cabasisi a Montalbano gli principiarono a firriari tanto vorticosamenti che si scantò di decollari da un momento all'autro" che, sempre nella sua visione interiore, un'altra figura emerge lentamente alle spalle di Pirandello: lo spettro di Leonardo Sciascia. Anche lui gli intima l'alt. 
Di nuovo, albergare fantasie incongrue è certo difetto, se non colpa di Apollonio, ma chi non ammetterebbe in tal caso l'esistenza di attenuanti? Tra le mani ha un libro dalla copertina blu di Prussia, copertina che fa da inconfondibile marchio di una collana, "La memoria" e, con tale collana, di una casa editrice, per una metonimia giustificatissima dai dati di vendita. E non fu Leonardo Sciascia ad animare nascita, infanzia e prima giovinezza di quella casa editrice e a volervi specificamente quella collana? Non fu Sciascia a battezzare la collana con un nome tanto impegnativo? Non c'è o non potrebbe esserci ancora oggi l'ombra di Sciascia nascosta sotto il risvolto di copertina di ogni libro che la fa crescere di numero? 
E poi Racalmuto e, oggi, Porto Empedocle, ambedue a due passi da Agrigento, anzi, dalla Girgenti, appunto, di Pirandello. Calliope getta un passo e ne tocca una delle tre, sciogliendovi cera della sua tavoletta, a beneficio dei locali aedi, pronti a rimodellarla. Saranno contigue di conseguenza Vigata e Regalpetra, fatte della medesima cera. Apollonio le ha sempre viste non tanto lontanissime, quanto incommensurabili, ma sarà lui lettore tardo e privo di penetrazione, incapace di intendere che per un Racine, per uno Stendhal, c'è un Rabelais.
Fatto sta che lo spettro di Sciascia, risentito, come Sciascia fu peraltro in vita, s'unisce a quello severo di Pirandello e i due non si muovono. Trattengono ancora Apollonio sopra quella frase. Gli ingiungono di compitarla: "I ca-ba-si-si a Mon-tal-ba-no gli prin-ci-pia-ro-no a fir-ria-ri tan-to vor-ti-co-sa-men-ti che si scan-tò di de-col-la-ri da un mo-men-to al-l'au-tro".
Da lì, da un esercizio tanto improbabile e gratuito, d'improvviso, non un'illuminazione, ma l'oscura finestra di un dubbio.
Nella fine figura del turbinoso girare dei coglioni di Salvo Montalbano, nel correlato e aereo tropo del suo conseguente timore di sollevarsi finalmente in volo ci sarà, bene o male, bello o no, il quid artistico e letterario dell'opera di un Andrea Camilleri mai troppo rimpianto? È questo che, ostacolandogli pervicacemente il cammino con il loro corruccio, le due vane larve, i due sdegnosi lemuri vogliono che Apollonio intenda? 

17 agosto 2020

Del dato

L'immagine che illustra questo frustolo circola da un po' nelle reti sociali: è un meme. Apollonio non sa dire chi l'abbia concepita né chi l'abbia realizzata. A ondate, la vede diffusa o, come usa dire adesso, condivisa da gente che, non solo in quelle sedi, si presenta al mondo come dedita alle scienze, meglio, alla Scienza.
Diffusa e condivisa con una buona intenzione: criticare le attitudini qualificate, secondo le varie terminologie, come cospirazioniste, complottiste, dietrologiche che nel discorso pubblico dell'Evo moderno non sono mai mancate (ce ne sono state di tragicamente celebri) e che oggi spesseggiano, amplificate appunto dalle reti sociali e dai fenomeni culturali connessi.
C'è da chiedersi tuttavia se, pur per uno scopo che si vuole nobile, sia il caso di propalare e di ribadire con tale immagine la sesquipedale sciocchezza che ἐν ἀρχῇ ci siano i dati: veri e propri feticci dell'attuale temperie culturale. 
Come sa chiunque pratichi con qualche consapevolezza una scienza (e per tale ragione è difficile si presenti come chierico di alcunché, tanto meno della Scienza), non c'è infatti dato che non sia un costrutto complesso, che non sia, in altre parole, il punto di arrivo di un meditato percorso di conoscenza e, se si vuole, di complessiva saggezza.
Di "dato", insomma, non c'è nulla per gli esseri umani e tutto, proprio tutto deve essere faticosamente, oltre che precariamente, preso e compreso; tutto va sempre discutibilmente conquistato.
Credere che, fuori del lavorio umano che lo produce, della pena che costa, delle complesse implicazioni teoretiche ed etiche, dei contenuti culturali che porta con sé, miracolosamente il dato ci sia non è in sostanza diverso dal prestare fede a una qualsivoglia scalcagnata teoria cospirazionista. Dietro la pretesa di serietà, potrebbe essere persino più pericoloso. 
Una persona ragionevole (non si vuol dire semplicemente una persona di scienza) dovrebbe in ogni caso guardarsi bene dal diffondere, anche solo per allusione, tuttavia in modo in ogni caso volgare, una balla di tali dimensioni. Ed è un peccato che alle fanfaluche delle dietrologie si finisca così per contrapporre, come modello, una sorta di credo.

14 agosto 2020

Bolle d'alea (29): Flaubert


"Un temps viendra où l'on ne cherchera plus le bonheur - ce qui ne sera pas un progrès, mais l'humanité sera plus tranquille" scrive Gustave Flaubert domenica 18 dicembre 1859 a Mademoiselle Leroyer de Chantepie. Evidentemente, quel tempo non è ancora venuto e in quel futuro risiede una delle illusioni nutrite anche da chi, come lo scrittore francese, trovò nella precisa espressione della disillusione la sua eroica grandezza.
Dubitando che in realtà non si tratti proprio di progresso, più tranquillità e meno ricerca della felicità paiono tuttavia ad Apollonio due disposizioni d'animo augurabili oggi e il modesto indice temporale di tale augurio ha qui valore proprio e, come sineddoche, figurato.

10 agosto 2020

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (26): Assoluto, relativo, pertinente

Lo sguardo critico, lo sguardo di chi discerne è sempre nuovo. La novità lo fa giudicare insolente da coloro che credono nell'assoluto e ingenuo da coloro per cui tutto è relativo. 
Lo sguardo critico non è invece né insolente né ingenuo, anche perché è l'unico cui è chiara l'elegante esigenza di un metodo. 
Con metodo, esso va a caccia di ciò che è pertinente, al di là di ciò che molti credono assoluto e di ciò che altrettanti si contentano di dire relativo. Individuando ciò che è pertinente, prova in altre parole a determinare cosa c'è di diverso dove nulla pare esserlo e cosa di eguale dove nulla pare esserlo. 
Alla ricerca della pertinenza pone ostacoli non solo teoretici, ma anche etici tanto chi crede all'assoluto, quanto chi si arrende al relativo. E tra i primi risultati procurati dallo sguardo critico metodologicamente orientato c'è la scoperta della pertinente relazione che, dietro differenze fenomeniche, rende reciprocamente solidali chierici dell'assoluto e araldi del relativo.

4 agosto 2020

Per chi si scrive? Una risposta, poco nota, di Leonardo Sciascia (e una, ben nota, di Italo Calvino)

"Lo scaffale ipotetico" è un piccolo saggio del 1967 di Italo Calvino. A sollecitarne la composizione era stata un'inchiesta "aperta da Gian Carlo Ferretti sul tema: Per chi si scrive un romanzo? Per chi si scrive una poesia?" e ospitata dal settimanale Rinascita, il periodico politico-culturale fondato nel 1944 da Palmiro Togliatti (difficile immaginare, per una pubblicazione, un nome più aderente al programma di conciliazione delle diverse anime della cultura nazionale perseguito dal suo fondatore; Rinascita finì nella pressa della storia quarantacinque anni dopo la sua fondazione e vi fu definitivamente stritolato nel 1991). 
Dal tema dell'inchiesta che gli aveva sollecitato un intervento, Calvino prese d'altra parte a prestito un nuovo titolo per il suo scritto, quando nel 1980 lo ripubblicò. E così il saggio comparve come "Per chi si scrive? (Lo scaffale ipotetico)" nella raccolta Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società. In tale sede Apollonio (o il suo alter ego) lo lesse or sono appunto quattro decenni e da quel momento si fece cosciente e convinto di un'idea che vi è prospettata: "se si presuppone un lettore meno colto dello scrittore e si assume verso di lui un'attitudine pedagogica, divulgativa, rassicuratrice, non si fa che confermare il dislivello [culturale tra colti e incolti]; ogni tentativo d'edulcorare la situazione con palliativi (una letteratura «popolare») è un passo indietro, non un passo avanti. La letteratura non è la scuola; la letteratura deve presupporre un pubblico più colto, più colto di quanto non sia lo scrittore [il corsivo è di Calvino]; che questo pubblico esista o no non importa. Lo scrittore parla a un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa di più di quel che lui sa, per parlare a qualcuno che ne sa di più ancora".
Non mancherà occasione ad Apollonio (o forse, e meglio, al suo alter ego) di tornare su tale idea, dicendo come essa sia pertinente per comprendere e collocare opportunamente non solo recenti fenomeni letterari come il caso Camilleri, ma anche, al di là della letteratura e dei suoi aspetti squisitamente bellettristici, a intendere la natura ideologicamente regressiva, se non apertamente reazionaria di una grande quantità dell'attuale diffusione a stampa o in rete di testi d'impianto, si dice, saggistico e con pretese di divulgazione.
Sugli stessi temi, suona anche oggi pertinentissima la risposta che Leonardo Sciascia diede per altri versi alla medesima inchiesta. Essa comparve proprio nel fascicolo di Rinascita (anno XXIV, n. 46, novembre 1967) in cui Calvino aveva proposta la sua. Molto più breve e molto meno ideologicamente sofisticato di quello di Calvino, lo scritto di Sciascia è anche molto meno noto e ha un titolo, "Tra impegno e disimpegno", che oggi sa di tappo e forse non gli rende giustizia. Sciascia non lo ripropose nelle sue raccolte saggistiche ed è assente dalle successive edizioni delle sue opere. Per quanto Apollonio ne sappia, non è quindi mai stato ripubblicato. Gli pare quindi di rendere un servizio ai suoi due lettori, riproponendolo qui nella sua interezza.
Sciascia scrisse così: "Ho cominciato a scrivere in tempi di impegno; continuo a scrivere in tempi di disimpegno. Non ho tenuto conto dell'impegno (com'era inteso); e non tengo conto del disimpegno (com'è inteso). O dell'impegno del disimpegno, del disimpegno dell'impegno del disimpegno, e così via.
Guardando alla società italiana nel suo insieme (e dico società in senso del tutto approssimativo) e a quello che in questa società accade da venti anni, da cento, da quattrocento, mi sentivo inutile ai tempi dell'impegno e mi sento inutile in questi tempi di disimpegno. Non ho mai scritto, dunque, pensando a una società pronta ad accogliere i miei libri o a respingerli; e tanto meno pensando a una classe pronta ad accoglierli e a un'altra pronta a respingerli. D'altra parte, non ho mai scritto per me stesso: quello che scrivo è importante per me soltanto per il fatto che lo comunico agli altri; cioè per il fatto che quello che vengo a conoscere o a riconoscere scrivendo appunto lo conosco o lo riconosco nel circuito della comunicazione.
Ma chi sono questi altri coi quali comunico (o mi illudo di comunicare, poiché un margine pirandelliano c'è sempre in tutto quello che faccio, in tutto quello cui credo)?
È difficile rispondere indicando categorie, tipi, ambienti. Posso solo dire: sono persone che conosco.
Non il lettore-consumatore, dunque, ma il lettore-interlocutore. Un lettore individualizzato al massimo, direi, e col quale sono riuscito a stabilire un rapporto, molto somigliante all'amicizia, sulla base del senso comune (non dico buon senso per le implicazioni qualunquistiche che ha da noi l'espressione) [i corsivi sono di Sciascia].
E avendo raggiunto un numero piuttosto ingente di lettori-amici (cosa piuttosto difficile in un paese come il nostro), potrei anche essere soddisfatto e sicuro. E invece non sono né soddisfatto né sicuro. Questa vasta cerchia di lettori altro non è che l'allargamento della rosa manzoniana dei venticinque. E perciò come don Abbondio resto a dire: ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro; appunto perché quel che ci vuole quasi non si vede più e a tentare di mutare la situazione, il rapporto, si scivola nel peggio.
A perdere il lettore della qualità dei venticinque del Manzoni, altro non si trova che il lettore consumatore, cioè il lettore invisibile. Qui, dico, oggi. E ne vale la pena?"
Ci si intenda, c'è sempre stato da qualche secolo chi ha pensato di sì, volgarmente convinto del fatto che lettrici e lettori ideali siano ebeti e insipienti. In altre parole, c'è sempre stato chi, spacciandosi per popolare con lampante falsa coscienza, ha pensato valesse la pena, scrivendo, di ordire i facili imbrogli dell'imbonitore. 
Qualcosa è però cambiato, dai tempi di Calvino e di Sciascia, tutto sommato recenti. Oggi pare non ci sia quasi più nessuno che, chiedendosi "per chi scrivo?", abbia pensieri simili ai loro. Che non ci sia quasi nessuno disposto a sottoscrivere in piena coscienza la perentoria e moralmente temeraria dichiarazione che Leonardo Sciascia, spavaldo davanti alla morte, affidò a Georges Bernanos, nell'epigrafe del suo estremo (e tragico) A futura memoria (se la memoria avrà un futuro): "Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli". 


2 agosto 2020

Linguistica candida (53): "it's none of your business"

Nel rumoroso cortile della comunicazione pubblica nazionale è esplosa in questi giorni una furibonda baruffa. Pretesto, più che ragione, ne sono stati i modi con cui nello scritto italiano, in alcune circostanze, ci si potrebbe (c'è chi opina, ci si dovrebbe) esimere da quell'espressione di un genere grammaticale che la lingua di Dante impone a chi se ne serve.
Ad Apollonio è così tornato in mente un passo di Roman Jakobson. Lo si legge nel suo scritto più sapiriano, consacrato del resto a Franz Boas. Dalla scuola di Boas Edward Sapir era appunto uscito. Il passo contiene una delle più affilate e celebri sortite di Jakobson: "Thus the true difference between languages is not in what may or may not be expressed but in what must or must not be conveyed by the speakers". E sapiriana ne è la spiritosa illustrazione (oltre che frutto diretto e palese dell'Erlebnis del linguista russo trapiantato negli Stati Uniti): "If a Russian says: Ja napisal prijateliu 'I wrote a friend', the distinction between the definiteness and indefiniteness of reference ('the' vs. 'a') finds no expression, whereas the completion of the letter is expressed by the verbal aspect, and the sex of the friend by the masculine gender. Since in Russian these concepts are grammatical, they cannot be omitted in communication, whereas after the English utterance «I wrote a friend», interrogations whether the letter has been finished and whether it was addressed to a boy-friend or to a girl-friend, can be followed by the abrupt reply - «it's none of your business»".