Da qualche tempo – delle ragioni di questa contingenza cronologica magari si dirà un’altra volta – capita spesso, anzi sempre più spesso di sentir parlare o leggere del merito, con l’articolo determinativo.
Non c’è discorso o scritto di chi si presenta pensoso delle sorti italiane (sia esso uomo politico, imprenditore, editorialista, accademico e così via) che non riservi al merito il posto d’onore che si dà alle parole-chiave, ai concetti che contano, alle idee da cui oggi non si può prescindere e meno, si dice, lo si potrà domani.
Ci si faccia caso. Le espressioni pubbliche delle menzionate categorie (tutta classe dirigente e intellettuali: destra o sinistra non fa differenza) hanno sempre l’impronta del dovere e quella, correlata, del futuro. Ammoniscono. Profetizzano. Lusingano e minacciano.
E la minaccia ad ogni generico concittadino presuntivamente non-meritevole, come la lusinga a ogni ancor più generico presuntivamente meritevole è la seguente. In società – dalla scuola all’amministrazione, dalla politica all’azienda – tutto andrebbe fatto in funzione del merito. E presto del resto lo sarà. Chi merita o meglio chi ha il merito andrà premiato, pagato di più, lodato, promosso, gratificato, messo in grado di operare, di dirigere, di comandare. C’è niente del resto di più ovvio nel mondo?
Chi merita merita insomma il paradiso, o almeno quel surrogato di paradiso che è in grado di fornire l’approvazione sociale umana che va sotto il nome di successo. E dal successo di chi merita, il bene del merito si riverbererà di necessità sul bene di tutti. L’impianto, come si vede, è quello dell’utopia: l’utopia del merito.
Parlare del merito, con l’articolo determinativo, del resto, dà lustro e merito a chi ne parla e, assodato che sono i meritevoli a parlare del merito, darsi il merito di parlarne è appunto già premiarsi, lodarsi, promuoversi, gratificarsi etc.
Anche l’utopia del merito (l’“andrà meglio domani” che essa contiene) è però un’utopia. Ed esperienza moderna insegna che le utopie assicurano da subito qualche vantaggio a chi se ne propone come realizzatore. Diverso è il caso di coloro che le subiscono. All’eventuale incasso dei vantaggi, costoro sono invitati a passare sempre dopo avere dato, e con larghezza. Se non possiedono altro, col credito all’utopia avranno almeno rinunciato alla propria libertà di pensare (che non è ricchezza da poco).
S’aggiunga che, quando d’improvviso una parola che è un nome comune prende stabilmente l’articolo determinativo e comincia a ricorrere su troppe labbra, ragionevolezza critica vuole che se ne cominci a diffidare. Non solo perché la ragionevolezza critica non santifica niente e nessuno: e non si farà un’eccezione col merito. Ma anche perché una parola che ricorre su troppe labbra è sospetta e chiama di necessità una domanda. E se si trattasse di uno degli infiniti travestimenti dell’ineluttabile stupidità umana? D’una stupidità furbastra però, e declinata nei soliti modi delle classi dirigenti italiane.
Il merito, naturale oggetto di valutazione, è infatti quanto di più opinabile e qualsiasi discorso ne tratti incorpora la necessaria premessa dell’espressione di un punto di vista relativo. A coloro che oggi (prima cioè della supposta nascita dell’erigenda città del merito) sono premiati, pagati di più, lodati, promossi, gratificati etc. non fa e non ha mai fatto difetto un merito. Il merito è in fondo sempre un merito ed è certo un merito (e forse la sua migliore realizzazione ideale) il merito di capire come acquisire privilegi in una data situazione. Il merito migliore è insomma l’adeguatezza a luoghi e tempi: quanto di più variabile.
Che ci creda o no, che ci sia o ci faccia, chi oggi parla del merito con articolo determinativo in termini di nuova utopia (e gode del privilegio di farlo) pretende invece di stare sull’assoluto, almeno quanto ad un altro aspetto cruciale della questione: il proprio indiscutibile titolo a presentarsi come araldo del merito, quindi a perpetuare il proprio privilegio. Il suo modello è insomma, come sempre, il prete.
Tematizzare il merito, perché pensosi del futuro della scuola, della nazione, del mondo, è porsi fuori della mischia – in fondo volgare – di chi del merito non è investito per elezione o per eredità e deve, poverino, eventualmente dimostrare di possederlo.
Il tanto parlare che oggi si fa in Italia del merito è allora una guisa del solito costume intellettuale della classe dirigente: porre se stessa al riparo dalle tempeste della vita, costituendosi come ceto mandarino di chierici, cui s’accede perché prima chiamati, quindi eletti. E nessuno dirà che sapere fare ciò non sia un merito.
Orbene, quando è singolare e conduce a gesti singolari, vocazione (e pretesa di elezione) è follia individuale: ridicola, magari, e raramente pericolosa per gli altri. Quando però è plurale e collettiva e riguarda un ceto (o un partito o una chiesa o un popolo), una vocazione (con la pretesa d’elezione) fa ridere pochissimo, perché è il modo più sofisticato e perverso di realizzare una tra le attitudini umane peggiori: il conformismo.
Un ceto che riconosce per se medesimo un merito elettivo è peraltro intrinsecamente destinato ad essere conformista. Va ancora peggio se merito e privilegio non riguardano la sfera materiale ma la sfera morale, del pensiero e della conoscenza.
Si sbaglia infatti a credere che il conformismo colpisca le minoranze cosiddette intelligenti meno delle masse di comuni mortali. E non è vero, per stare alla scuola e alla formazione, che gli studenti qualunque di una qualunque università “di massa” siano destinati a essere mediamente più conformisti e meno creativi di coloro che frequentano una scuola di eccellenza, di quelle tradizionali come di quelle che oggi nascono in Italia come funghi (sia detto a margine: eccellenza, eminenza sono parole che in Italia hanno fascino eterno!).
Al contrario, il conformismo è uno dei tratti distintivi dell’habitat naturale delle cosiddette minoranze intelligenti come ceti mandarini. E il già menzionato proliferare di iniziative didattiche di presunta eccellenza, in Italia e nel mondo, a scapito del perseguimento in buone condizioni di una leva culturale generale produce già in proposito gli attesi effetti negativi. Senza il salutare effetto prodotto dal caso di una continua nuova ricombinazione ideale, il conformismo cresce e non basta l’eventuale efficacia sociale a fare della stupidità coltivata in tali serre-laboratorio una forma d’intelligenza.
Si aggiunga che gli esiti del conformismo investito di una (vera o falsa) missione di redenzione (non si dimentichi quanto si diceva su dovere, futuro e articolo determinativo) sono di norma i più biechi e, talvolta, anche i più dolenti per la massa degli altri: nel caso qui in discussione per la povera umanità di (presunti) non meritevoli da piegare alla logica del merito, con articolo determinativo.
Insomma, non sarà l’utopia del merito a far vivere meglio l’umanità, tanto meno l’Italia. Per muoversi in tale direzione (ammesso che ne valga la pena), la condizione fondamentale è infatti che si abbia coscienza vera e profonda che non del merito si tratta ma, come sempre, di molti meriti diversi e delle loro relazioni sistematiche, armoniche o conflittuali che esse siano.
Conclusione, modesta. Ci si vuole mantenere vigili e critici? Si pensa che l’obiettivo da perseguire in classe e tra i banchi sia la formazione di ciascuno come un libero essere umano, non come un utile idiota né come una replica conformista di un’imperante stupidità (fosse anche la stupidità di maggior contingente successo)? Si prenda allora coscienza del fatto che meritano pochissimo d’essere ascoltati i discorsi di chi parla del merito con articolo determinativo come nuova regola per la vita sociale di tutti. Ragionevolmente, è un (in)consapevole imbroglione. Il merito di cui parla è quello che attribuisce a se medesimo. Si sta solo lodando e, con tali lodi, mira a perpetuare le condizioni che consentono il suo immeritato privilegio.
Non c’è discorso o scritto di chi si presenta pensoso delle sorti italiane (sia esso uomo politico, imprenditore, editorialista, accademico e così via) che non riservi al merito il posto d’onore che si dà alle parole-chiave, ai concetti che contano, alle idee da cui oggi non si può prescindere e meno, si dice, lo si potrà domani.
Ci si faccia caso. Le espressioni pubbliche delle menzionate categorie (tutta classe dirigente e intellettuali: destra o sinistra non fa differenza) hanno sempre l’impronta del dovere e quella, correlata, del futuro. Ammoniscono. Profetizzano. Lusingano e minacciano.
E la minaccia ad ogni generico concittadino presuntivamente non-meritevole, come la lusinga a ogni ancor più generico presuntivamente meritevole è la seguente. In società – dalla scuola all’amministrazione, dalla politica all’azienda – tutto andrebbe fatto in funzione del merito. E presto del resto lo sarà. Chi merita o meglio chi ha il merito andrà premiato, pagato di più, lodato, promosso, gratificato, messo in grado di operare, di dirigere, di comandare. C’è niente del resto di più ovvio nel mondo?
Chi merita merita insomma il paradiso, o almeno quel surrogato di paradiso che è in grado di fornire l’approvazione sociale umana che va sotto il nome di successo. E dal successo di chi merita, il bene del merito si riverbererà di necessità sul bene di tutti. L’impianto, come si vede, è quello dell’utopia: l’utopia del merito.
Parlare del merito, con l’articolo determinativo, del resto, dà lustro e merito a chi ne parla e, assodato che sono i meritevoli a parlare del merito, darsi il merito di parlarne è appunto già premiarsi, lodarsi, promuoversi, gratificarsi etc.
Anche l’utopia del merito (l’“andrà meglio domani” che essa contiene) è però un’utopia. Ed esperienza moderna insegna che le utopie assicurano da subito qualche vantaggio a chi se ne propone come realizzatore. Diverso è il caso di coloro che le subiscono. All’eventuale incasso dei vantaggi, costoro sono invitati a passare sempre dopo avere dato, e con larghezza. Se non possiedono altro, col credito all’utopia avranno almeno rinunciato alla propria libertà di pensare (che non è ricchezza da poco).
S’aggiunga che, quando d’improvviso una parola che è un nome comune prende stabilmente l’articolo determinativo e comincia a ricorrere su troppe labbra, ragionevolezza critica vuole che se ne cominci a diffidare. Non solo perché la ragionevolezza critica non santifica niente e nessuno: e non si farà un’eccezione col merito. Ma anche perché una parola che ricorre su troppe labbra è sospetta e chiama di necessità una domanda. E se si trattasse di uno degli infiniti travestimenti dell’ineluttabile stupidità umana? D’una stupidità furbastra però, e declinata nei soliti modi delle classi dirigenti italiane.
Il merito, naturale oggetto di valutazione, è infatti quanto di più opinabile e qualsiasi discorso ne tratti incorpora la necessaria premessa dell’espressione di un punto di vista relativo. A coloro che oggi (prima cioè della supposta nascita dell’erigenda città del merito) sono premiati, pagati di più, lodati, promossi, gratificati etc. non fa e non ha mai fatto difetto un merito. Il merito è in fondo sempre un merito ed è certo un merito (e forse la sua migliore realizzazione ideale) il merito di capire come acquisire privilegi in una data situazione. Il merito migliore è insomma l’adeguatezza a luoghi e tempi: quanto di più variabile.
Che ci creda o no, che ci sia o ci faccia, chi oggi parla del merito con articolo determinativo in termini di nuova utopia (e gode del privilegio di farlo) pretende invece di stare sull’assoluto, almeno quanto ad un altro aspetto cruciale della questione: il proprio indiscutibile titolo a presentarsi come araldo del merito, quindi a perpetuare il proprio privilegio. Il suo modello è insomma, come sempre, il prete.
Tematizzare il merito, perché pensosi del futuro della scuola, della nazione, del mondo, è porsi fuori della mischia – in fondo volgare – di chi del merito non è investito per elezione o per eredità e deve, poverino, eventualmente dimostrare di possederlo.
Il tanto parlare che oggi si fa in Italia del merito è allora una guisa del solito costume intellettuale della classe dirigente: porre se stessa al riparo dalle tempeste della vita, costituendosi come ceto mandarino di chierici, cui s’accede perché prima chiamati, quindi eletti. E nessuno dirà che sapere fare ciò non sia un merito.
Orbene, quando è singolare e conduce a gesti singolari, vocazione (e pretesa di elezione) è follia individuale: ridicola, magari, e raramente pericolosa per gli altri. Quando però è plurale e collettiva e riguarda un ceto (o un partito o una chiesa o un popolo), una vocazione (con la pretesa d’elezione) fa ridere pochissimo, perché è il modo più sofisticato e perverso di realizzare una tra le attitudini umane peggiori: il conformismo.
Un ceto che riconosce per se medesimo un merito elettivo è peraltro intrinsecamente destinato ad essere conformista. Va ancora peggio se merito e privilegio non riguardano la sfera materiale ma la sfera morale, del pensiero e della conoscenza.
Si sbaglia infatti a credere che il conformismo colpisca le minoranze cosiddette intelligenti meno delle masse di comuni mortali. E non è vero, per stare alla scuola e alla formazione, che gli studenti qualunque di una qualunque università “di massa” siano destinati a essere mediamente più conformisti e meno creativi di coloro che frequentano una scuola di eccellenza, di quelle tradizionali come di quelle che oggi nascono in Italia come funghi (sia detto a margine: eccellenza, eminenza sono parole che in Italia hanno fascino eterno!).
Al contrario, il conformismo è uno dei tratti distintivi dell’habitat naturale delle cosiddette minoranze intelligenti come ceti mandarini. E il già menzionato proliferare di iniziative didattiche di presunta eccellenza, in Italia e nel mondo, a scapito del perseguimento in buone condizioni di una leva culturale generale produce già in proposito gli attesi effetti negativi. Senza il salutare effetto prodotto dal caso di una continua nuova ricombinazione ideale, il conformismo cresce e non basta l’eventuale efficacia sociale a fare della stupidità coltivata in tali serre-laboratorio una forma d’intelligenza.
Si aggiunga che gli esiti del conformismo investito di una (vera o falsa) missione di redenzione (non si dimentichi quanto si diceva su dovere, futuro e articolo determinativo) sono di norma i più biechi e, talvolta, anche i più dolenti per la massa degli altri: nel caso qui in discussione per la povera umanità di (presunti) non meritevoli da piegare alla logica del merito, con articolo determinativo.
Insomma, non sarà l’utopia del merito a far vivere meglio l’umanità, tanto meno l’Italia. Per muoversi in tale direzione (ammesso che ne valga la pena), la condizione fondamentale è infatti che si abbia coscienza vera e profonda che non del merito si tratta ma, come sempre, di molti meriti diversi e delle loro relazioni sistematiche, armoniche o conflittuali che esse siano.
Conclusione, modesta. Ci si vuole mantenere vigili e critici? Si pensa che l’obiettivo da perseguire in classe e tra i banchi sia la formazione di ciascuno come un libero essere umano, non come un utile idiota né come una replica conformista di un’imperante stupidità (fosse anche la stupidità di maggior contingente successo)? Si prenda allora coscienza del fatto che meritano pochissimo d’essere ascoltati i discorsi di chi parla del merito con articolo determinativo come nuova regola per la vita sociale di tutti. Ragionevolmente, è un (in)consapevole imbroglione. Il merito di cui parla è quello che attribuisce a se medesimo. Si sta solo lodando e, con tali lodi, mira a perpetuare le condizioni che consentono il suo immeritato privilegio.
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