26 settembre 2011

"Il nostro maggiore filologo"...

...non importa proprio chi sia.  Un feticcio. Come dice l'immagine, un'anonima figurina rossa che, come stereotipa rappresentazione di giubilo, sta più in alto di altre anonime figurine grigie.
Importa però, come dato linguistico, che, un paio di giorni fa, qualcuno venisse così definito nella pagina d'un medium destinato al consumo culturale. 
Del superlativo relativo, si è già detto. Non accade mai che a un giornalista capiti di incontrare un filologo qualsiasi. Non si vuol dire uno che se la sfanga come può, che è diventato professore, come si diceva un dì, ope legis, ma anche solo uno che, onestamente, fa il suo lavoro, senza infamia e senza lode. Un filologo di mezza classifica che gioca, pardon!, insegna in un'università provinciale e ha scritto libri che stanno a prendere polvere in qualche biblioteca minore. Un filologo non da zona retrocessione ma neppure da scudetto o da Champions League. Giammai. Sempre il primo. Sempre il maggiore.
Si è detto, in qualche maniera e tra le righe, anche del pronome personale che soggiace all'aggettivo possessivo. S'immagini però ancora una piccola interlocuzione ideale con chi ha concepito quel "nostro" e l'ha poi scritto.

Scusi, ha detto "nostro"? "Noi" chi? "Nostro" nel senso inclusivo 'di voi, che leggete, e di noi, cioè dell'io che scrive'? E, mi perdoni, chi l'ha autorizzato a emettere un giudizio del genere a nome di chi legge? Non sta per caso volgarmente approfittando del suo momentaneo possesso della parola per arrogarsi il diritto di parlare anche a nome di chi la legge? E le pare opportuno, oltre che educato? O intende invece "nostro" nel senso non-inclusivo di 'noi, cioè dell'io che scrive, ma non chi legge'? E, mi perdoni di nuovo, suppone che, a chi legge, un "nostro" del genere importi? Non c'è una certa improntitudine nel suo modo di condursi per iscritto? Se il "nostro" è il suo, perché non se lo tiene per sé, come decenza vorrebbe? Perché, incontinente, me lo schizza addosso?

Insomma, "il nostro maggiore filologo" è a suo modo un bel concentrato espressivo dell'andazzo intellettuale, il cui emblema è la graduatoria, anzi, come si dice adesso, il ranking. Il ranking "de noantri". "Noantri", si badi bene, è infatti il valore globale del momento: "We...". Ma di ciò, eventualmente, un'altra volta.
Se questo post esiste, del resto, non è per ribadire cose già dette o per lamentare piccoli e ineluttabili malanni. È invece per testimoniare come la lingua sia sempre meravigliosa e come capiti che anche le quattro stupide parole in intestazione possano parlare al cuore di chi le legge, se sa leggerle, dicendo cose diverse da quelle che forse intendeva dire la povera anima che le ha scritte.
Basta giocare un po' con le parti del discorso e quindi con la sintassi del gruppo nominale. "Maggiore" può essere un nome, come "tenente" o "capitano". E "filologo", a quel punto, può fungere da apposizione del nome "maggiore". "Il nostro maggiore filologo" cambia completamente di fisionomia e, deponendo i modi imbonitori e stucchevoli, diventa espressione seria e onesta, da prendere come una pacifica constatazione di fatto. Non di un feticcio (come, a ben vedere, sono sempre "i nostri maggiori qualsiasicosa") ma di un fatto. Di quale fatto?
Durante la Grande guerra, nell'esercito austriaco, Leo Spitzer, giovane talento della romanistica di lingua tedesca, comandava uno dei gruppi incaricati di sottoporre a censura le lettere che ai prigionieri italiani, internati nei campi, era consentito di inviare a casa, per dare notizie di sé e per richiedere, come soccorso, piccoli beni di conforto: guerre orribili, come tutte le guerre, eppure, anche qui, guerre d'altri tempi.
Dall'esperienza, Spitzer trasse materiali e conoscenze che, negli anni del dopoguerra, gli permisero di scrivere libri di linguistica italiana importanti e tremendi. Libri che combinano mirabilmente dottrina e ironia e che gli avrebbero assicurato fama imperitura, presso chi ama l'espressione umana e, in particolare, l'espressione umana quando si veste delle forme italiane. Di forme italiane di qualsiasi genere.
Apollonio ricorda male forse, ma, come ufficiale a capo di uno dei gruppi di censura, Spitzer doveva coprire il grado di maggiore. Eccolo dunque apparire l'amabile fantasma del "maggiore filologo" o (perché proprio non importa) del "capitano filologo" o del "tenente filologo" cui Apollonio, con timida deferenza, potrebbe volere dire che è il suo. O "il nostro", ma naturalmente solo dopo aver chiesto il permesso ai suoi cinque lettori.

[Sono giusto passate due settimane che, dopo "il nostro maggiore filologo", capita di incontrare  sulle medesime pagine anche "il nostro maggiore poeta". "Oh Captain! My Captain! Our fearful trip...".] 

25 settembre 2011

Bollettino ortografico (1): "leggittimato"

"Chi è più leggittimato a raccontarci la verità del cinema?"

Il Sole 24 Ore Domenica - 25 settembre 2011, n. 262, p. 27, come sottotitolo redazionale di un pezzo dal titolo "Fenomenologia del critico",  qualificato come "Elzeviro" (cioè "articolo di fondo della pagina letteraria di un giornale, generalmente di argomento culturale, di critica, di saggistica, o anche con prose d’arte...").  Argomento per un bel dibattito, sul medesimo giornale: un elzeviro con un sottotitolo del genere va considerato un segno dell'ineluttabile declino italiano? O, con un po' più di impegno e  ritardando il pensionamento di qualche correttore di bozze, ce la si può ancora fare, considerate le risorse italiane di grande nazione industriale?

[Una nuova rubrica? Chi lo sa. Piuttosto l'ipotesi d'un modesto periodico omaggio a una perduta figura professionale (o a una vocazione) che già i tempi presenti ci dicono quanto fosse importante come depositaria dell'autentico valore di un'intera civiltà dello scrivere: il correttore di bozze. Apollonio ha da raccontare, in proposito, una piccola vicenda occorsa al suo alter ego secolare. L'ha già narrata? Forse sì. Se è così, lo perdonino i più fedeli dei suoi cinque lettori. È vecchio e un po' svanito. Ma se di ripetizione si tratta, sarà di giovamento. In breve, la storia è questa. Per simpatica offerta di un premuroso sodale, capitò che, anni fa, appunto l'alter ego di Apollonio pubblicasse un libro con una casa editrice, piccola ma allora volenterosamente rampante, che (lo scoprì quando il volume era già nelle librerie) come misura di risparmio non prevedeva una revisione professionale delle bozze di stampa. La precauzione finanziaria non impedì naturalmente alla casa editrice di fallire lo stesso in meno di un decennio, lasciando dietro di sé quella sottile bava di minuscole nefandezze che con poca spesa avrebbe potuto, esse sì, risparmiare all'umanità. Tra le quali, appunto la seguente. Nel file destinato alla stampa, quel testone dell'autore aveva improvvidamente depositato, insieme con molti altri, il mostro ortografico "un'intento normativo". Con Apollonio, egli ammette senza pudore che cose del genere non gli capitano di rado: i suoi manoscritti sono pieni di oltraggi alla buona educazione. Ma tra gli spropositi ortografici, il genere appena menzionato è il suo, involontariamente, preferito. L'evenienza del caso si presentava poi gustosissima, con quell'attributo "normativo" a sottolineare la castroneria, come sarcastico sberleffo. Ebbene, del fatto si accorse quando, esattamente a pagina 19 del libro stampato,  il mostro, se lo ritrovò intatto davanti, sua fedele immagine allo specchio che l'intervento salvifico di nessun correttore di bozze aveva, con un rapido ed elegante tocco di penna, mascherato. E dunque se de te fabula..., sapere chi veramente giochi qui e altrove da seconda persona resta questione aperta].

23 settembre 2011

La soglia dell'insuperabile

Si viene a sapere, e lo si viene a sapere dubitativamente (come si deve tra persone serie), che ci sarebbe qualcosa (se di qualcosa si tratta: pare di sì) che, a stare alle rilevazioni di cui si è capaci, viaggerebbe più veloce della luce. 
Ottima occasione per sbattere la scienza (anzi la Scienza) in prima pagina: "Superata la velocità della luce". 
Nella costruzione participiale di una formulazione del genere prospera rigogliosa la compiuta perfettività d'un passivo e di conseguenza, implicito, un soggetto. Il neutrino, certo. Ma nel non-detto chi non ode riecheggiare, parassitico, il trionfalismo dei presunti successi umani, quello esemplificato appunto un dì da "Superata la velocità del suono"? Dietro il neutrino, dalla massa incerta, l'uomo, insomma. Anzi, l'Uomo.
Umano, troppo umano: ecco la soglia dell'insuperabile.

22 settembre 2011

Scherza coi santi...(1): De vulgari eloquentia

"Per isfogar la mente" (se non proprio per ischerzo), si provi a utilizzare schemi procedurali di una linguistica che opera per relazioni e differenze ai fini d'una lettura ingenua e sommaria del De vulgari eloquentia, l'incompiuta operina dantesca che ha apertamente un tema linguistico. La sua struttura di base apparirà subito come composta da due rapporti oppositivi, organizzati in maniera gerarchica.
"Volgare" in opposizione a "grammatica", per adoperare i termini danteschi, è la prima articolazione contrastiva. Essa è al tempo stesso concettuale (i due termini sono idealmente definiti in modo diverso) e sperimentale (si verifica osservativamente che i due termini sono cose diverse). Sotto il primo termine dell'opposizione, si colloca poi un'opposizione ulteriore, di natura stavolta esclusivamente sperimentale. Per ciò che specificamente concerne il trattato e per farla breve, quanto a tale opposizione seconda, da un lato, c'è la marcatezza del termine costituito dalla lingua del "sì", che è appunto il fuoco della trattazione dantesca. Dall'altro, c'è la non-marcatezza del termine costituito cumulativamente dalle lingue d'"oc" e d'"oïl".
Ne segue che la lingua del "sì" è perfettamente delimitata dalla combinazione delle due opposizioni appena esposte. Questo fondamento spiega come mai essa sia vista, al tempo stesso, come oggetto tanto unitario quanto variabile, senza che fra i due aspetti vi sia conflitto. Dante si impegna a esemplificare concretamente le variabili espressioni degli "Ytali, qui sì dicunt". Sotto il segno di una doppia marcatezza, esse sono però variazioni in quanto appunto riconducibili a un'unità definita concettualmente e rilevata sperimentalmente.
L'"odorosa pantera" in cui si realizza l'anima ordinatrice e sistematica di tale varietà sta celata nelle selve intricate delle differenti espressioni, che sono mille e più di mille, a volerle elencare tutte. Dante non lo fa, limitandosi a una rappresentazione di massima della pertinenza culturale: gli interessa (dove si è manifestata) la langue e non la serie infinita delle evenienze della parole.
Per capire l'Italia linguistica e (a dire il vero) non solo la linguistica, e non solo quella di sette secoli fa ma ancora quella di oggi, serve allora veramente poco altro. Dante ne ha fornito quadro e chiave di lettura: für ewig. Una varietà dall'apparente disordine che, per via di un principio ordinatore plastico e processuale con cui interagisce di continuo, è in realtà altamente definita nella complessità dei suoi innumerevoli dettagli. Dante abbandonò la composizione del suo trattato linguistico e l'esposizione della sua ricognizione teorico-sperimentale quando decise di mettere in pratica la sua riflessione nella Commedia
Da lì egli si mosse per la costituzione di un'espressione nazionale: "illustre", "cardinale", "aulica" e "curiale". E in effetti da lì ci si è mossi, come Italiani, tutte le volte che una lingua di qualità, sulle labbra o sotto le penne più diverse, ha avuto modo di proporsi.
Il De vulgari eloquentia ha poco da spartire, di conseguenza, con la plurisecolare e arci-italiana questione della lingua. Ciò non vuol dire che l'opera dantesca non vi sia stata trascinata dentro, come pretesto. Come Antonio Gramsci scrisse con la candida precisione dettatagli dalla sua dichiarata faziosità, la questione della lingua è (stata) principalmente (se non esclusivamente) una contesa politica, in ambiti socio-culturali sovente asfittici. Nelle fasi di tale contesa, diverse fazioni o aspiranti fazioni di un ceto intellettuale collocato ai margini dell'esercizio del potere e sempre in condizione servile si sono disputate una parvenza di egemonia (linguistica). 
Sulla situazione linguistica dell'Italia, così bene definita e descritta nei suoi sommi capi da Dante, i campioni della questione della lingua (da Machiavelli a Pasolini) hanno avuto sempre molto poco da dire. E quel poco che hanno detto, lo hanno detto soprattutto in maniera indiretta. Riportata almeno in parte ai suoi termini linguistici autentici da Graziadio Ascoli, la questione della lingua è stata infatti essenzialmente testimonianza di un disagio nel rapporto tra i ceti intellettuali italiani e la loro nazione e dell'inclinazione di tali ceti a privilegiare, sul tema della lingua, un'attitudine normativa, rabbiosa e sovente, nei fatti, velleitaria e impotente.
Dante osservò il mondo e, con amara simpatia, la sua nazione medesima. Pensò di avere qualcosa da dire, in proposito, ritenendo (magari per errore o per illusione) di avere capito l'uno e l'altra. Non si astenne certo dal giudicarne, a quel punto, e anche con molta durezza. Ma mentre l'attitudine al giudizio e alla durezza non ha mai fatto difetto ai ceti intellettuali italiani, a differenza di Dante, essi hanno sempre trovato la preliminare, modesta e amorevole osservazione del mondo e della loro nazione meno attraente e vantaggiosa del prescrivere direttamente come l'uno e l'altra dovrebbero presentarsi al loro cospetto per guadagnarsi il premio d'uno sdegnoso gradimento.

18 settembre 2011

Lingua loro (23): "il psicodramma"

"Polanski gestisce il set da grande maestro, riesce a far scorrere il psicodramma con naturalezza...". Non è un blogger qualsiasi (come Apollonio) a scriverlo in uno dei tanti post ortograficamente scarrupati che pullulano in rete ma (se non si tratta di un clamoroso caso di omonimia) un importante e ormai anziano scrittore-giornalista. Romano. Insomma, un senatore della repubblica delle lettere nazionali. Lo fa inoltre in una paludata recensione sul contegnoso supplemento culturale di un autorevole quotidiano politico-economico. Oggi. 
Non protestino le vittime, antiche e recenti, della matita rossa e blu di crudeli e inflessibili insegnanti. Tale non fu evidentemente Pier Paolo Pasolini, che da insegnante ebbe tra i banchi l'importante scrittore, se di lui si tratta. O forse fu crudelissimo, Pasolini, confermando il pargolo in un possibile errore di autovalutazione e procurando così materia per uno psicodramma ancora in atto.
La norma (ortografica) è mobile, del resto. Come tutto ciò che è socialmente fondato, c'è chi la fa, chi la brandisce, chi le si adegua (per conformismo e buona creanza), chi la subisce e, più furbo di tutti, chi la interpreta. Facendola talvolta diventare appunto una farsa.


15 settembre 2011

Fratelli d'Italia: dritto e rovesci

Piccolo clamore sulla dichiarazione di un importante esponente della Lega Nord, espressosi davanti ai microfoni delle televisioni al modo che segue: "Immaginate cosa succedesse se passasse la volontà della Sinistra di far cadere il Governo...". 
Memore dei tanti suoi imperdonabili, Apollonio non si scandalizza per gli errori altrui e non lo farà per questo. Certo, esso è veramente gustoso sulla bocca di un uomo pubblico di quella parte politica. La ragione? Proprio quella che una censura normativa, con le sue speciose manifestazioni di disgusto, finirebbe sicuramente per celare.
Per il diabolico gioco di un lapsus, dal suo scivolone sul condizionale il politico padano si trova infatti a essere grammaticalmente affratellato (malgré soi-même, c'è da credere) a connazionali che mai egli terrebbe coscientemente come fratelli (d'Italia): nel caso specifico, i Siciliani.
Nell'isola, i dialetti non conoscono il condizionale e, nell'espressione vernacolare, un congiuntivo imperfetto (succirissi) nell'apodosi di un "periodo ipotetico della possibilità" è la regola. Di riflesso, lo è anche nell'espressione regionale italiana di molti. Come errore, d'accordo, ma come errore domestico.
Insomma, l'errore di grammatica del politico leghista, un vero errore da siciliano, è un omaggio (involontario?) all'unità e un contributo alla coesione nazionale. Infatti, un siciliano non si riconosce forse nel contenuto della dichiarazione ma si riconosce certamente nella sua forma. E con entusiasmo: quelle parole gli dicono infatti che chi le ha proferite abbaia tanto contro i meridionali, forse, ma alfine e malgrado il cognome è anche lui un po' "terrone" e, non si sa come, non si sa perché, fa errori di grammatica che emanano un confortante aroma di casa. Errori solo di grammatica?
Questa, cari i cinque lettori di Apollonio, è l'Italia. La nazione che non ha bisogno d'essere ovunque conforme per essere tale - tanto meno ha (avuto a lungo) bisogno, di conseguenza, d'essere espressa da una norma o da uno stato. La nazione che, allattando sempre molti dritti, ha forse un dritto, di suo, e capita che in tale dritto qualcosa suoni come errore, ma, inestirpabili dal dritto, ha parecchi rovesci, dove, come per l'incanto di una fata o per la fattura d'una strega, l'errore sparisce, non c'è.

[Ecco la registrazione della dichiarazione, eventualmente preceduta da un fastidioso inserto pubblicitario e accompagnata da un commento che, spacciando l'errore per morfologico e lessicale, è più errato dell'errore che biasima.] 



Economia dell'articolo determinativo

Apollonio è abbastanza anziano da ricordare quando la Fiat era, per tutti, la Fiat. E così la Piaggio, la Pirelli, la Montecatini, poi fusasi con la Edison e diventata, celeberrima, la Montedison, la Banca Commerciale Italiana, la Cucirini Cantoni e così via. È insomma abbastanza anziano da ricordare quando l'articolo determinativo, combinato con il nome di una azienda industriale, commerciale o finanziaria, non era ancora un marcatore linguistico del discorso.
Oggi, nella vita di tutti i giorni la Fiat c'è e sopravvive ma non è l'espressione che interpreta la tendenza. Per interpretare la tendenza, si dirà semplicemente Fiat. Un solo esempio. Nel corso di un'intervista televisiva, Fabio Fazio, interprete campione della tendenza: "...l'indotto che lavora per Fiat in Campania..." e, di rimando, Sergio Marchionne: "...se la Fiat dovesse smettere di fare auto a Pomigliano...". E con Fiat, Piaggio, Finmeccanica, Ansaldo, Banca Intesa, Capitalia e così via. Una strage di articoli determinativi. C'erano la Standa e l'Upim. Oggi c'è OVS o Coin. E, nobilissima e dannunziana, la Rinascente si è impercettibilmente trasformata in LaRinascente.
Non c'è da piangerci sopra, ovviamente. Come dice l'intera sua storia, l'articolo determinativo (italiano e romanzo) è un orpello prodotto dalla stupidità dei parlanti, riscattato però dall'intelligenza interiore della lingua. Di conseguenza, come un villano rifatto, porta ancora oggi i segni di questa sua duplicità. Può essere marca di cattivo gusto e volgarità, quando riflette le sue ignobili origini. Può esserlo di eleganza, come effetto del raffinamento del suo uso e della successiva nobilitazione. Capiterà forse di parlarne un'altra volta. 
Non c'è da piangerci ma c'è da pensarci, con i modesti strumenti del grammatico. Cosa significa questa ecatombe? 
La personalizzazione di entità economico-sociali (in sé, non-umane se non disumane) porta la loro denominazione ad assumere tratti meglio marcati da nome proprio. E un nome proprio, la determinazione, la possiede per principio di suo, non ha quindi bisogno di proiettarla fuori di sé ricorrendo all'appoggio di un attrezzo grammaticale. Se, nome proprio, la Fiat aveva insomma sempre bisogno, un tempo, della stampella dell'articolo, per chiarire al mondo d'essere espressione determinata, chi oggi fa tendenza linguistica ritiene bastevole alla bisogna Fiat e ritiene così che dell'articolo determinativo si possa fare a meno.
Chi fa comunicazione si è ovviamente accorto con buon tempismo della tendenza ed è così sembrato determinarla. Funziona sempre in questo modo: chi fiuta l'aria che tirerà e cavalca subito l'onda che monterà, se ne spaccia per promotore. Come tale è in ogni caso ritenuto dagli sciocchi che pensano di accodarsi alla tendenza e invece sono proprio loro ad averla determinata. Solo che, da sciocchi, l'hanno fatto inconsapevolmente. Pecore devote a pecorai che hanno una sola abilità. Assecondarne il cieco movimento facendo mostra di guidarlo.
I prodotti di aziende denominate senza articolo determinativo tendono a farsi anch'essi persone determinate e ad avere nuovi nomi o nomi vecchi privi dell'articolo determinativo. La Vespa è Vespa da gran tempo e non c'è, tendenzialmente, detersivo, yogurt, bibita o caramella, insomma prodotto seriale, di massa e, per sua natura, impersonale che sopporti la compagnia dell'articolo determinativo. Questa suonerebbe, per se stessa, come diminutio di personalità. Coca-Cola e Mulino bianco insegnano. La Ferrero, come la si trova appunto nominata per vezzo linguistico vintage, esibisce però "i princìpi di Ferrero" e dà origine a Kinder, a Nutella ("Fai colazione con Nutella") e al resto di una vasta prole di prodotti privi di articolo. Quanto a Giulietta, per mutare di categoria merceologica, qui se ne è già parlato e molto si potrebbe dire adesso di Jeep: un'intera linea di prodotti che, rigorosamente denominati senza ausilio di articoli determinativi, reificano o, meglio, pretendono di incarnare una faccetta della tendenza.
C'è insomma troppa gratuita e implicita determinazione personale in giro, ci sono troppi nomi propri, cioè troppi (aspiranti) luoghi comuni, perché l'epoca si mostri veramente capace di valutare, differenzialmente, ciò che è proprio, personale e determinato e ciò che non lo è.

11 settembre 2011

Tancredi Obama (o Barack Falconeri)?

"Yes, We Can": Apollonio ebbe un sussulto, quando, or sono tre anni, sentì quel motto come chiave della campagna di Barack Obama per le elezioni presidenziali statunitensi.
Si sa. Chi fa politica ha commerci costanti col noi. Si può dire infatti senza timore di sbagliare che noi sia la parola politica per eccellenza. Appena un noi è proferito, chi l'ha proferito l'ha già buttata in politica. Chi ascolta un noi dovrebbe perciò sapere che il discorso cui partecipa rischia di prendere una certa piega, sovente per lui pericolosa. Di conseguenza, un noi di Obama, un noi del candidato alla presidenza di una nazione la cui legge fondamentale comincia appunto col pronome noi ("We the People of the United States...") non aveva ragione di stupire. 
A mettere in ulteriore allarme Apollonio, però, fu la combinazione con un verbo servile, di modo che quel noi diventava un possiamo. E lo diventava così, in maniera tronca e allusiva, come apparente risposta affermativa a una domanda implicita e imprecisata. Ma possiamo cosa? Egli si chiedeva. 
Si disse però di nuovo che non c'era nulla di cui veramente stupirsi. Come il poeta, usa restare nel vago chi fa politica. Usa alludere. Risponde magari a una domanda che nessuno ha fatto e la sua abilità consiste nel lasciare credere che al contrario quella domanda prema e che, come tutte le domande, imponga che le si dia una risposta. E, come risposta, dice noi e vuole potere; cosa, non importa. Anche perché, a dire il vero, sapere in anticipo cosa si possa non è privilegio umano. E la politica, è stato detto, è l'arte del possibile, in senso limitativo ovviamente. 
Ammesso d'altra parte che si faccia seguire apertamente al servile potere ciò che chi lo pronuncia vorrebbe far seguire all'altro servile, l'implicito volere, non è detto che la precisazione sia proprio la più gradita a tutti coloro che si intende convincere ad imbarcarsi in quel noi. E quando si vuole essere eletti a una carica politica, ciò che segue (o precede implicitamente) possiamo conta veramente poco. Conta invece moltissimo che ci sia tanta gente illusa d'essere inclusa in quel noi e convinta di conseguenza a delegare la propria parola all'io che lo proferisce. A noi, la cosiddetta prima persona plurale, manca infatti proprio il carattere che, nella lingua, fa di qualcosa una prima persona autentica: il contingente possesso della parola, che non è mai plurale.
Complicato? Perché? C'è qualcuno che crede "Yes, we can" un'espressione semplice? Afferma: cosa? Dice noi: chi? E dice potere: cosa? Tutto fumo, niente arrosto. Per chi ama il genere, si può pretendere di avere di meglio?
A comporre la sua interiore sinfonia linguistica di interrogativi, la nota decisiva venne però ad Apollonio da un'ulteriore osservazione. Apprese infatti che "Yes, we can" non era il solo motto della campagna di Obama e che, progredendo verso le elezioni, esso era stato affiancato da altri, tra i quali "The Change We Need"
In apertura, allora, prima persona plurale e verbo servile e, in progressione,  di nuovo prima persona plurale, bisogno e cambiamento. Insomma, mutatis mutandis, parve ad Apollonio di sentire echeggiare, oltre Atlantico, la famigerata sentenza che comincia con un verbo servile alla prima persona plurale e si conclude con "...bisogna che tutto cambi". Una sentenza spacciata per sicilianissima e passata così, miracolosamente e per segmenti, nella bocca di un avvocato nero di Chicago candidato alla presidenza degli Stati Uniti d'America.
Come il proferitore di quella sentenza, costui faceva mostra di impadronirsi della parola in nome di una modalizzazione del noi e proclamava la necessità, per la conservazione, di un cambiamento. Per la conservazione di cosa? Dell'impianto oligarchico che regge "la più grande democrazia del mondo" e, di conseguenza, dell'imponenza globale, forse periclitante, di cui intendono tuttavia continuare a godere le oligarchie, dietro la messa in scena di un esercizio democratico del potere.
Sembrò di conseguenza ad Apollonio che, se per qualche strano disegno della storia costui stava diventando "l'uomo più potente del pianeta", stava forse avviandosi a diventarlo sotto il segno loquace e rivelatore di espressioni simili a quelle  che uno sparuto librino di un vecchio principe siciliano, scritto mezzo secolo prima, aveva messo in bocca a una perfetta rappresentazione del nulla, a Tancredi Falconeri.
Santo Cielo, Barack Obama, il futuro capo della nazione guida dell'Occidente, un nulla?
Quel libro aveva inoltre un succo, in proposito. Diceva che quando, in politica, è il tempo dei nulla, dei Tancredi Falconeri, significa che, per l'oligarchia che li esprime, sono proprio gli ultimi fuochi, che ha decisamente imboccato la via che, pur lentamente, conduce il suo potere verso una ridicola fine: una progressiva impotenza. Ciò non garantisce ovviamente migliore il futuro della società né l'assetto del potere che, preparandosi, si trova già virtualmente in atto.
E dunque Barack Obama, come Tancredi Falconeri, emblema vivente di un ineluttabile declino?
Certo che no, si rispose perentorio Apollonio, forte del coro che si sentiva unanime intorno. Barack Obama concreta speranza dell'Occidente, segno del suo rinnovamento, prova della positiva inesauribilità del modo americano di vivere, cui sarebbe peraltro bene la vita politica e sociale si ispirasse in ogni angolo di questo vecchio mondo.
Mise così a tacere le sue fantasie da anziano linguista e filologo che, a forza di stare sui libri e di badare con accanimento alle parole, crede troppo (o forse solo) a ciò che esse dicono, anche quando nelle intenzioni di chi se le trova in bocca paiono dire altro o negare di dirlo.

[Concepito tre anni fa, questo post esce intempestivo, quando di tutto ciò non cale più a nessuno. Ma, or sono tre anni, l'andazzo era l'andazzo, come si diceva. E, secondo la nota osservazione del Sacchetti, chi può pretendere di andare contro l'andazzo? Certo, non Apollonio che di politica se ne intende quanto se ne intende di teologia e, in proposito, azzardò solo un timido "Nome, non me!" il 12 novembre 2008.
Oggi molto clamore è cessato e quasi tutti i comici entusiasmi di allora si sono spenti (una ricerca negli archivi dei quotidiani di questa allegra provincia dell'impero assicura a chi la fa risate gustose). Apollonio che, come molta gente di lettere, non è un cuor di leone teme ancora tuttavia che questo post stia lo stesso gravemente disattendendo l'insegnamento di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a parere del quale "bisogna sempre lasciare gli altri nei loro errori".]

8 settembre 2011

Soggetto, oggetto, complemento di compagnia

Uno dei cinque lettori di Apollonio ha eletto il post del 21 dicembre 2010 come suo preferito, tra i quasi duecentotrenta di questo blog. Ad Apollonio risulta sia anche il più letto. Merito di Denis Diderot. Il post è costruito intorno a un bel passo tratto da una sua lettera e, a dire il vero, quel passo aveva inizialmente attratto l'attenzione di Apollonio per ragioni che nel post, a suo modo fortunato, non sono neppure sfiorate. E qui si rivela così che buonumore o malumore che lo invitano a pigiare sui tasti con sfoghi di valore ineguale non sono poi sempre quelli che tali sfoghi mettono in primo piano e che, insomma, di pretesto in pretesto si finisce sovente per approdare su spiagge forse diverse da quelle prefigurate dalla modesta fantasia del nocchiero e determinate invece da venti, onde e correnti che attraversano i testi.
Cosa si trovò allora di rilevante in quelle righe di Diderot e si tacque? Se ne rilegga l'inizio: "Avec vous je sens, j'aime, j'écoute, je regarde, je caresse. J'ai une sorte d'existence que je préfère à toute autre". 
L'amore, come si sa, ispira sempre prose trite e, in primo piano, c'è una bella infilata di quei verbi che si potrebbero banalmente trovare nella trita prosa epistolare di qualsiasi innamorato: sento, amo, ascolto, guardo, carezzo
Quando compaiono in tale prosa, verbi del genere lo fanno però nel loro uso transitivo: ti sento, ti amo, ti ascolto, ti guardo, ti carezzo... e sono felice. Non sotto la penna di Diderot. Sta qui, in questo minuto scarto grammaticale, l'innesco dell'arcana magia del passo. 
Diderot costruisce una serie di proposizioni con verbi nel loro uso assoluto, privi della reggenza del prevedibile oggetto diretto. Proietta invece in un complemento di compagnia quella seconda persona che avrebbe corrivamente fatto da oggetto e cui qui ci si riferirà per semplicità come a un tu. In apparenza, porta via tale tu dal nucleo delle relazioni fondamentali della proposizione. Ciò gli permette però di assegnare naturalmente al complemento che lo coinvolge l'enfasi dell'inizio, senza ridondanze, riprese pronominali o contorsioni grammaticali. Non, come direbbero tutti, io ti amo..., ma con te io amo... Il mutamento pare minimo, la differenza è enorme.
Anzitutto, la compagnia del tu si presenta così come condizione contestuale per il verificarsi medesimo di sentimenti e azioni dell'io: insomma, per "une sorte d'existence" dell'io che è la da lui preferita. Non un io soggetto, poniamo, di carezzare, e un tu oggetto. Invece un tu come contesto determinante del carezzare dell'io. Un tu senza il quale il carezzare dell'io non si darebbe e senza il quale, di conseguenza, l'io sarebbe privo dell'esperienza di carezzare. Mirabile, veritiero e svelatore indizio della natura reciproca se non simmetrica dell'esperienza erotica. Non solo dell'erotica, naturalmente, ma dell'erotica per elezione. La carezza, che carezza chi la riceve, carezza al tempo stesso chi la fa. Chi è carezzato permette a chi carezza di carezzarsi. Ci potrebbe essere più chiara determinazione di cosa sia carezzare? Molto meglio degli umani, i gatti lo sanno e beati si concedono alle carezze, donano a chi li carezza, con il loro piacere d'essere carezzati, il piacere della loro carezzabilità. Nel dire meno, c'è dunque un significare di più che non è tuttavia il solo significare di più. 
In effetti, il tu come condizione d'esistenza del sentire, dell'amare, dell'ascoltare, del guardare, del carezzare dell'io, nella vaghezza caratteristica dell'uso assoluto, non restringe le correlate capacità dell'io ad un solo oggetto. Le apre, invece, verso il mondo. La relazione tu-io si presenta di conseguenza non come limite ma come possibilità, non come costrizione ma come libertà. Dalla fedele condizione della compagnia di un tu viene all'io la possibilità di esperire e di fare, senza che l'oggetto dell'esperienza e dell'azione sia pregiudizialmente ristretto.
Ma cos'è infine quasi sempre un complemento di compagnia? Secondo diverse modalità di messa in scena, Al calare del sole Maria ed io giocavamo a damaAl calare del sole io giocavo a dama con Maria e Al calare del sole Maria giocava a dama con me sono parafrasi. Un complemento di compagnia capita dunque corrisponda a un elemento di un soggetto coordinato, solo appena camuffato, per ragioni (come si diceva) di messa in scena. 
Diderot pare dunque indirizzare alla sua bella proposizioni che lo vedono come unico soggetto di quei verbi graziosi e banali. In realtà, in un gioco che si fa appunto in compagnia, la sua bella ne è soggetto al pari di lui e, nella solidarietà, gode dei medesimi privilegi che concede. Il passo lo dice in modo sottile e allusivo: e il gusto dell'amore non sta nell'intesa che rende possibile l'allusione?
Ma (e sta forse qui la trovata intelligente che, incantando l'ammirato Apollonio, l'ha deciso a pigiare sui tasti) questo comune sentire, amare, ascoltare, guardare, carezzare non è volgarmente espresso in riferimento all'osceno noi che ci si propina a ogni piè sospinto, tra poveri scemi e inverecondi cialtroni. Il tu e l'io vivono la compagnia di una comune esperienza senza perdersi nell'indistinto imbroglio del noi. Sono insieme e ciascuno è se stesso/a: l'unica vera condizione dell'amore e (lo si dica, finalmente) del piacere dell'amore.
C'è insomma in quelle poche parole, lessicalmente corrive e sintatticamente strane, un intero modo di concepire la vita umana e, in essa, la relazione che lega gli esseri. Ci sono tutta la passione, tutta la libertà e tutto il rispetto che richiede la vita comune,  anche la solo sognata, come fu il caso di quella di Louise-Henriette e Denis. 
Passione, libertà e rispetto non vi sono però sbandierati con proclami: tutti, anche i più stupidi, siamo capaci di farlo a proclami e più cresce il volume dei proclami più cresce il sospetto che si tratti di spudorate menzogne. Vi sono invece incarnati nella lingua, nel tessuto nascosto della sintassi, dove solo le cose vere vivono e le relazioni e le differenze si svelano per quello che sono.
In quelle poche parole e in quel complemento di compagnia che, combinandosi con un soggetto, sta al posto di un oggetto, c'è allora tutto questo, col molto altro che si potrebbe dire a questo punto, in faccia ai tanti falsi illuministi, e che si tace per non annoiare.
C'è o, forse, solo Apollonio Discolo ce lo vede, oscillando pericolosamente, come dice l'anagramma del suo nome, tra Apollo e Dioniso.

6 settembre 2011

Frivolezza

Colta al volo nella traduzione italiana di un saggio recente, di buon successo internazionale: "Alcune famiglie nobili ingaggiavano dei tutori per le loro figlie, ma la maggior parte di questi insegnava materie frivole, come in epoca vittoriana: italiano, musica e un po' di aritmetica per la gestione domestica".
La compagnia (musica, aritmetica per la gestione domestica) non potrebbe essere più deliziosa e, in onore di Lorenzo da Ponte, il Cielo voglia ancora conservare a questa lingua non comune il carattere che la rende insostituibile tra le lingue del mondo: la sua femminile, amabile, irritante, profonda frivolezza.

"V'ingannai, ma fu l'inganno / Disinganno ai vostri amanti, / Che più saggi omai saranno, / Che faran quel ch'io vorrò. / Qua le destre, siete sposi, / Abbracciatevi e tacete, / Tutti quattro ora ridete, / Ch'io già risi e riderò".

2 settembre 2011

Vocabol'aria (1): "incaprettare"

"Legare per le zampe come un capretto [...]. Nel gergo mafioso, uccidere una persona legandole mani e piedi dietro la schiena con una corda che passa intorno al collo, in modo che la vittima, con qualsiasi piccolo movimento, si strangoli da sé".
L'immagine è cruda e Apollonio se ne scusa. Ha dalla sua, d'altra parte, la freddezza della scienza lessicografica. È quanto scrive, alla voce, il Supplemento 2004 del Grande dizionario della lingua italiana, fondato da Salvatore Battaglia.
Sulla scena internazionale come sulla nazionale, almeno dalla famigerata data del settembre 2001, tanto sui temi delle libertà civili quanto, più di recente, su quelli dell'economia, è tutta una serie di scomposti tentativi di muoversi che, per un verso o per l'altro, corrispondono a passi verso un progressivo strangolamento.
Nessuno lo fa ma c'è da chiedersi se la perversa combinazione di piccoli movimenti convulsi e contraddittori e di crescente senso di soffocamento non sia già bastevole prova che paesi occidentali e Italia in particolare siano nell'incomoda condizione dell'incaprettato.