27 dicembre 2022

A frusto a frusto (135)

 
Viene il tempo in cui ci si fa consapevoli che di amabile nella propria vita resta solo qualche esito, del tutto accidentale, degli errori commessi. E consola e persino inorgoglisce sapere di non avere mai trascurato di porre un po' di cura nel commetterli.


23 dicembre 2022

"La stranezza" e un'afasia

Sin dall'epoca di Luigi Capuana e poi di Nino Martoglio e, come interpreti, di Angelo Musco e, in tempi più recenti, di Turi Ferro, la varietà siciliana teatrale e poi cinematografica di riferimento è quella della città alle falde dell'Etna; in eventuale difetto o per approssimazione, una delle sudorientali.
È d'impianto orientale anche il siciliano parodico che spesseggia da decenni nella produzione televisiva: esemplare, in proposito, la saga montalbanesca (la televisiva, si ribadisce a scanso di equivoci). Vi si odono accenti caricaturali sfacciatamente iblei: se ne beava il compianto Marcello Perracchio, nei modi e nelle vesti del dottor Pasquano. Non ne era esente il Catarella di Angelo Russo.
Non c'è siciliano che non percepisca le manifestazioni di questa egemonia linguistico-culturale e che, dandosi il caso, non ne soffra, come spettatore, quando, come tutte le egemonie, essa produce approssimazioni e prevaricazioni. 
Un girgentano, cervellotico e indolente, non parla come un messinese, 'buddaci', né un palermitano, cupo, torbido, represso, come un catanese, chiassoso e ingravidabalconi. Invece, nella inconsapevolezza quasi universale dei "continentali", molte violenze alla verisimiglianza sono state e sono ancora perpetrate sugli schermi, grandi e piccoli, dove pare che in Sicilia ci si esprima solo in un modo o, diatopicamente e antropologicamente, a casaccio.
Orbene, due personaggi minori del film "La stranezza" di Roberto Andò sono caratterizzati da disturbi linguistici. Uno, giovane e scattante, ha un eloquio farfugliato e oscuro: per luogo comune farsesco, è una sorta di Mercurio e funge in un paio di occasioni da criptico e ambiguo messaggero. L'altro, di età avanzata e in carrozzina, è completamente privo della parola, nella finzione narrativa, forse per via di un pregresso incidente cerebrale che ne ha ridotto anche la capacità di movimento. È l'anziano titolare dell'impresa di pompe funebri cui prestano la loro opera Nofrio Principato (Picone) e Bastiano Vella (Ficarra). Sposata la figlia del padrone, Bastiano vive infelice sotto un incombente dominio del suocero anche la sua vita privata.
Il personaggio in questione si chiama Calogero Interrante. Calogero è nome di battesimo tipico del Girgentano: senza essere il patrono del capoluogo, San Calogero, nero di pelle, vi è oggetto per tradizione di una devozione particolare. Il cognome non è di fantasia, anche se l'onomastica qui ammicca ovviamente alla farsa. Il cognome pare parlante, ma fa all'uopo un'innocente violenza al suo etimo, che con il verbo interrare ha poco da spartire. Il patrimonio italiano è straordinariamente ricco e non mancano gli Interrante. In Sicilia occidentale.
A interpretare questo Calogero Interrante è Tuccio Musumeci, il quasi novantenne e bravo attore catanese. Ma non si ha modo di ascoltarne la consueta e rotonda inflessione da devoto di Sant'Agata. La sceneggiatura gli assegna solo mugugni e grugniti. Un caso? No, si direbbe: una sottile e consapevole scelta di regia. E per Andò, palermitano, forse anche un gustoso piacere personale: mettere sì sulla scena un catanese, ma infine e almeno per una volta muto.

17 dicembre 2022

Bolle d'alea (34): Gracián

"Sapersi risparmiare i dispiaceri. È utile saggezza risparmiarsi i disgusti. La prudenza molti ne schiva: è Lucina della felicità e, per conseguenza, della contentezza. Le notizie odiose né si debbono dare e molto meno ricevere: bisogna serrar la porta a tutt[e], eccetto a quella del rimedio". 
Eugenio Mele recò così in italiano queste parole di Baltasar Gracián: "Saberse escusar pesares. Es cordura provechosa ahorrar de disgustos. La prudencia evita muchos: es Lucina de la felicidad, y por esso del contento. Las odiosas nuevas, no darlas, menos recebirlas: hánseles de vedar las entradas, si no es la del remedio".
Non c'è mai stato un tempo che non abbia richiesto tale misura e, a conferma, molto l'impone il presente a coloro che (può parere paradosso) aspirano a restare vigili. 
Nella consueta occasione del volgere dell'anno, come augurio Apollonio indirizza il viatico di una sana letizia interiore a chi segue con amorevole benevolenza un diario che ha provato e prova a tenersi distante da ciò che ripugna.

25 novembre 2022

Enzensberger


Fotocopie in carta chimica, cucite con ago e filo di cotone, dopo averle bucate con un punteruolo: Apollonio ha ancora precisa memoria della manualità dell'operazione. E annotazione bibliografica ancora acerba, in prima pagina, battuta sulla sua Lettera 22, con il nastro disposto sul rosso. Tra i cumuli di carte, queste rimaste sempre in evidenza. Mai disperse. Pronte a essere riprese. Stasera, purtroppo e ineluttabilmente. Con lui da quanti anni? Più di cinquanta. E certo da tutti quelli di un modesto cammino in direzione di un'irraggiungibile consapevolezza.

21 novembre 2022

Lingua loro (43): "Condizioni meteo avverse"


Condizioni meteo avverse
legge stamane Apollonio in una scritta luminosa, mentre imbocca un'autostrada. E per tutto il viaggio sorride, tra uno spruzzo di pioggia e l'altro, pensando al perché a un certo punto il semplice e buon vecchio maltempo, con i suoi sette secoli di storia attestata, non deve essere più parso sufficiente. Alla stupidità, per manifestarsi, servono sempre molte e sempre nuove parole: ama le perifrasi e la lingua corrente non le basta mai.

30 settembre 2022

Come cambiano le lingue (19): "bambino"

"I ricci hanno periodi gestazionali che vanno da 35 a 58 giorni, a seconda della specie, e in genere hanno da 3 a 6 bambini, chiamati maialini. Questa mamma riccio cammina abbastanza lentamente per assicurarsi che i suoi 7 maialini siano in grado di stare al passo con lei": queste parole accompagnano un breve video, diffuso in una rete sociale.
Non si tratta certamente di sede nella quale si chiede alla lingua d'essere accurata, ma proprio per questa ragione e per la sua cruda spontaneità quel testo ha scosso il torpido Apollonio.
Esso testimonia infatti come, nell'italiano di tutti i giorni, bambino ("L'essere umano nell'età compresa tra la nascita e la fanciullezza", scrivono ancora attardati dizionari) si avvii a diventare un iperonimo. Come tale, atto a valere per i piccoli, se non di tutte, di numerose specie, sussumendone le diverse designazioni: maialino ne sarebbe appunto un iponimo. Altri sarebbero puledro, per esempio, agnello o vitello. Forse, è ancora da escludere pulcino, per l'ostacolo concettuale del diverso modo di sviluppo dell'embrione.
Si tratta di indizio della sempre più estesa affermazione del post-umano o forse dell'ultra-umano, nella ideologia della modernità putrefatta? Difficile dirlo. 
Mentre la corrente trascina furiosamente gli esseri che si esprimono e vivono nelle culture (che non vuol dire soltanto essere capaci di contare o di fare quanto dispone alla sopravvivenza e, eventualmente, all'ammaestramento) e li confonde appunto con i suoi vortici culturali, vale solo la pena di osservare che smettere di (essere capaci di) distinguere raramente è segnale di un innalzamento del sapere.

25 settembre 2022

Vocabol'aria (20): Rivoluzione (nella lessicografia e altrove)


 
Una multinazionale americana produttrice, sotto marche diverse, di beni di largo consumo intende promuovere sul mercato nazionale la sua linea di detersivi per lavastoviglie. Si rivolge a un'agenzia di comunicazione. Questa si procura opportune indagini di mercato. Grazie a esse, i pubblicitari sanno che aria tira in proposito. Sanno cosa lamentano dei prodotti disponibili e che prestazioni amerebbero ottenerne quelle che un dì sarebbero state qualificate come massaie (in pubblicità, ma non solo, denominazione passata tra i più rigorosi tabù). L'agenzia propone contenuti e forme della campagna e l'impresa committente li trova di suo gradimento. 
Parte la campagna. Gioca per l'ennesima volta sul luogo comune del cambiamento e della rivoluzione, scegliendo un'adeguata testimonial (non è ineccepibile dire così, ma così si è preso a dire in italiano e la lingua la fa l'uso), in riferimento al gruppo di consumatori e di consumatrici (nel caso specifico, più consumatrici che consumatori, appunto) cui il prodotto si destina e il messaggio si rivolge: il target
È una campagna pubblicitaria. Si può discutere se sia ben fatta o no, come campagna pubblicitaria. Ma si sa, convenzionalmente, che le affermazioni della campagna sul prodotto sono esagerate, iperboliche, che si rivolgono a tutto tranne che alla ragionevolezza del target. All'immaginazione, semmai, alle pulsioni, ai desideri espressi o repressi. Insomma, è ovvio che solo uno sciocco prenderà sul serio tali affermazioni.
È perlomeno un secolo che la réclame funge da espressione e, complessivamente, da indirizzo delle società di massa. E si sa che è "scumazza", come si direbbe alla Camilleri (anche qui, così si usa, per farsi intendere). I suoi contenuti sono ineluttabilmente ciarlataneschi. La voce che li declama necessariamente da imbonitore o da imbonitrice.
Mutatis mutandis, una casa editrice nazionale, dal nome e dal passato prestigiosi, tradizionale produttrice di opere lessicografiche, intende promuovere nella nicchia del suo piccolo mercato la nuova edizione di un dizionario. Non si sa se si rivolge a un'agenzia di comunicazione. Ragionevolmente sì: ormai non c'è impresa che non lo faccia. Ma si ponga che non lo faccia e che la fucina in proposito sia interna all'azienda. Per capire che aria tira intorno alla lingua, alle parole, da qualche tempo, non c'è bisogno di un fiuto raffinato né di grandi indagini e con la casa editrice collabora da anni gente che, in proposito, ha fomentato e cavalcato gli andazzi. I temi linguistici che tirano non hanno bisogno nemmeno d'essere elencati. 
Di quello che tira più di tutti, la faccenda dell'espressione del genere grammaticale, si fa fatica persino a immaginare ci sia ancora qualcosa di sensato o di nuovo da dire. E infatti gli e le snob che sul principio ne avevano fatto bandiera, da un po' si sono opportunamente defilati e defilate. Stanno cercando altri temi per brillare in società. Resta in campo, vociante, gente più alla buona, ma non con minori pretese. Del resto, lampante nella manifestazione di tale tema c'è tanta ideologia spicciola: ideologia del cambiamento, di un cambiamento che si invoca come radicale.
Di nuovo, non è questione di sapere quanto siano ragionevoli le correlate istanze (probabilmente lo sono), quanto, in funzione della lingua, siano effettive e sensate le proposte, le aspirazioni, le voglie, le pulsioni (probabilmente non lo sono). 
È il dato sociale ad avere rilievo, non ciò che esso contiene o ingenuamente ci si illude (o, ancora più ingenuamente, si teme) contenga. Ed è rilevante il segmento della società che sostanzia il dato sociale, per chi opera sul mercato e vuole naturalmente piazzare un prodotto coerente con l'aria che tira intorno alla lingua e alle parole.
Ebbene, in vista dell'uscita del prodotto in questione, parte una campagna di promozione sulle piattaforme e nei luoghi che si pensa siano i più adeguati a raggiungere un target peraltro dalla facile caratterizzazione: sesso, età, classe sociale, grado di istruzione, professione. 
Per rendere commercialmente attraente il prodotto, la campagna chiama in causa il consueto luogo comune della rivoluzione e proclama l'opera rivoluzionaria. Proprio come fa la campagna della multinazionale americana di prodotti di largo consumo con il suo detersivo per lavastoviglie.
"È in arrivo la rivoluzionaria nuova edizione del Vocabolario...", "...un progetto ambizioso e rivoluzionario nella storia plurisecolare della lessicografia..." si legge un po' dappertutto in questi giorni sulla stampa e in rete. Sono evidenti riflessi di un comunicato aziendale sotto forma di velina promozionale. 
Anche di questa campagna, si può discutere se, come tale, sia ben fatta o no. Di essa, dopo qualche tempo, la ditta committente, se committenza c'è stata, capirà se sarà stata efficace o no, al di là del momentaneo spazio conquistato nel corrivo e sempre mutevole panorama della comunicazione. Saprà se, rispetto all'agguerrita concorrenza, che certamente reagirà alla mossa sbardellata, essa avrà inciso sensibilmente sulle vendite o no. Tutta materia, come si vede, della massima serietà.
Non sono seri, ovviamente, i contenuti della campagna: millanterie, fanfaronate, specchietti per le allodole destinati a chi mostra già una buona disposizione a specchiarvisi. Ma c'è chi fa sembiante di prenderli sul serio e, con piglio accademico, si affatica a ribadire al colto pubblico e all'inclita compagnia l'ovvietà della loro inconsistenza. 
Apollonio è però certo che si tratti solo di un'utile posa. Il tema è caldo, come si diceva, e con la sua fonte la campagna commerciale lo rinfocola autorevolmente: ottima occasione per ottenerne un vantaggio. Con la "scumazza" di un pubblico contrasto, come si fa andando di bolina, una pur modesta réclame saprofitica, gratuita e di rimbalzo.
 

 
 
 

4 settembre 2022

A frusto a frusto (134)

Il tormento procurato dagli altri lenisce e perfino annulla quello che ci si procurerebbe da sé, dicono. Ma l'uno è certo, in ogni condizione, l'altro solo eventuale, se ci si disciplina in un eroico eremitaggio. La pelosa consolazione è pertanto truffaldina, se se ne è destinatari. O è la maschera di una morbosa e comune debolezza, se enunciata allo specchio della propria fragile coscienza. 

22 agosto 2022

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (32): Quantità, come parametro rivelatore di qualità

 
Fin quando a professare e a praticare un'idiozia sono pochi e poche, può capitare che essa circoli per il mondo mascherata da pregiata originalità. Le basta però diventare popolare (destino quasi inevitabile delle idiozie) perché la maschera cada e si palesi ciò che è stata sin dal suo sorgere: un'idiozia.

21 agosto 2022

Lingua nostra (13): Stagionale

È pieno agosto. Un agosto inclemente, come capita d'essere ad agosto. In un modesto e ancora economico bar della città in cui vive (il quartiere è popolare e intensamente popolato da autoctoni), Apollonio beve al banco il caffè di mezza mattinata e morde un cornetto. Escono frattanto dal retrobottega vassoietti con coppie di cannoli, molto graziosi e, si capisce, anche riempiti sul momento. Sono destinati ad altrettante coppie di evidenti forestieri, seduti ai tavolini di una saletta laterale cui Apollonio, entrando, non aveva prestato attenzione. 
Alla cassa, c'è la titolare. Una signora non troppo avanti negli anni ma non giovanissima, ovviamente del luogo. Porgendo le monete del suo piccolo conto, Apollonio le mormora: "Certo che cannoli ad agosto...". E lei di rimando (la trascrizione è impressionistica): "E cci pàrunu puru bùani...", più o meno: 'E li trovano persino buoni'.
Fuori di pratiche del mercato del lavoro talvolta nefande (che tuttavia qualcosa dovrebbero pur dire), stagionale è un aggettivo in disuso e non c'è bisogno che Apollonio dica qui ai suoi due lettori quale siano le ragioni del quasi generale abbandono. 
Nell'arsa Sicilia, l'erba dei pascoli riappare con l'autunno inoltrato e solo allora le pecore ricominciano a nutrirsene. Solo da allora la qualità del loro latte comincia a migliorare, dopo la magra estiva a base di mangimi secchi. Il latte tocca l'apice della sua bontà in primavera, quando nascono gli agnelli e di erba, nella Sicilia del pascolo, ce n'è in quantità. Di nuovo, c'è bisogno di dire perché? 
I dolci siciliani con crema di ricotta di pecora, tale è il cannolo, ma non solo il cannolo, erano e ancora restano d'elezione primaverili. Ne godevano le feste del periodo e, principalmente, la Pasqua. Passato maggio, la loro stagione terminava. Rigorosamente. 
Come il suo ingrediente di base, insomma, il cannolo era stagionale e bisognava attendere perlomeno i primi freddi per vederlo riapparire nelle serie pasticcerie siciliane di un tempo, accompagnato dal commento del pasticciere che personalmente assicurava sull'uso di una ricotta che, senza essere ovviamente la migliore, data la stagione, era fresca e veniva da pascoli di nuovo verdi. Al palato e all'olfatto, la differenza era peraltro evidente.
Trasformati in turisti, i forestieri che ne sanno? Sanno del cannolo e nella loro settimana siciliana, di norma estiva, lo cercano tra le molte altre (false) tipicità. La crescente insipienza dei loro ospiti siciliani non li mette sull'avviso. 
Li incoraggiano al contrario interessi commerciali non sempre commendevoli: del resto, se uno sciocco, come è di norma il turista, vuole essere buggerato, come si fa a trattenersi? Ma reso il servizio, in qualcuno serpeggia ancora per fortuna la consapevolezza. E, con essa, la tagliente ironia del non troppo celebre "Bisogna lasciare gli altri nei loro errori", che in una variante popolare suona appunto "E cci pàrunu puru bùani..."

14 agosto 2022

Linguistica candida (63): Incessante riparo al danno incessante

Errori, sciatterie, imprecisioni sono le sorgenti cui attinge il faber, per dirla con Bergson, quando manifesta linguisticamente una disposizione che, considerata la natura dell'essere cui viene attribuita, non ci si può stupire sgorghi (anche. O soprattutto?) da lì.
Più di ogni altro àmbito di ricerca delle discipline morali, il mutamento linguistico ne offre prove: sorgivamente, non di rado errori, sciatterie, imprecisioni. E non dovrebbe esserci studioso del campo minimamente riflessivo esente dalla constatazione e dalla correlata consapevolezza che quanto di sistematico e di regolare è determinabile in tale mutamento, lo è solo perché cade fuori del modesto controllo che gli individui della specie, variamente associati, hanno della loro facoltà espressiva.
Per dirlo con una formula veloce, incessante è lo spassoso e generale riparo che la lingua reca ai danni modesti e inconsapevoli che le procura incessantemente l'umanità.
Malgrado gli esseri umani e soprattutto, tra loro, i dotati di dottrina pensino il contrario, la lingua li padroneggia infatti più di quanto essi padroneggino una lingua o più d'una. E se, in molti aspetti, le lingue in cui si esercitano sono proiezioni di un mirabile sistema, ciò accade non perché, tanto meno affinché, ma sebbene tale sistema si sia variamente incistato nell'umanità.
In fin dei conti nessuno sa né come né come mai.

13 luglio 2022

L'apparir di VERO

NIENTE DI VERO
dichiara, come titolo (ed è il caso di dire: alla lettera), la copertina d'una delle opere narrative che sono state in lizza quest'anno per il più rumoroso premio letterario italiano e accredita l'autrice del paradigmatico nome di battesimo di VERONICA
Sono passati undici anni da quando questa raccolta di impressioni linguistiche ("...parce qu'il me blesse ou me séduit...") segnalava quel radicale mutamento dell'onomastica nazionale che, nel quotidiano commercio degli ipocoristici, aveva decretato il declino, si ponga, di Sandro e Betta e l'ascesa di Ale ed Eli, il deperire di Enzo e Rina e l'affermarsi di Vince e Cate. E di Fede, Vale, Costi, Ferdi, Giuli, Simo, Cami, Marghe, Caro, Dani, Adri e chi più ne ha più ne metta: per chi ha curiosità archeologiche (quanti sono undici anni, nel tempo del web?), ecco il reperto.
Oltre che per vero, quel VERO può quindi pacificamente stare oggi per Vero(nica): ambiguità di cui l'autrice pare si sia detta ben consapevole. Appartiene appunto alla generazione con cui  l'andazzo si è definitivamente consolidato.
Dicono le schede editoriali che il libro abbia tema famigliare e sia quindi almeno in parte un'autobiografia. Apollonio non può darne testimonianza diretta, ma, sin dall'apparire dell'opera, il paratesto ne ha qualificato la scrittura di una schiettezza che rasenterebbe la brutalità. La trovata antifrastica del titolo sarebbe quindi ironica, in funzione di enunciazione e di enunciato, nella lettura di VERO tanto come vero (nel libro, non si direbbe la verità), quanto come Vero(nica) (il libro non parlerebbe di Vero(nica)). 
Ma l'antifrasi sarebbe ben più gustosa nel secondo caso se il riferimento fosse sì specificamente a Vero(nica) ma in particolare, quanto a funzione, come enunciatrice. In altre parole se, riferendosi con un famigliare ipocoristico al quel nome che nella grafica della copertina lo sovrasta, il titolo dicesse a chi lo intende che lì dentro non c'è proprio 'niente di suo', che quel nome è al massimo un nom de plume o forse solo una falsa attribuzione e che il testo, tutt'altro che anepigrafo, è in realtà adespoto. Insomma, che il libro non è opera della appena sopra menzionata VERO(NICA). Una stregoneria.
Se così fosse, anche solo per tale ragione e al di là di ogni questione sulla qualità dell'enunciato, di cui Apollonio, per insipienza, non ha nulla da dire, Vero(nica), designazione fasulla di una funzione del testo, avrebbe certamente meritato di vincere il premio.

9 luglio 2022

Sommessi commenti sull'Ultra-Moderno (3): Quantità e qualità, nel lascito

Alla ricerca di differenze, nel difficile (e forse perciò spassoso) lavoro di una plausibile caratterizzazione della temperie in cui accade d'essere finiti, eccone ancora una. 
Diversamente dalle precedenti, la presente, se mai parlerà alle future (ammesso le future abbiano orecchie per ascoltare: dispongano cioè d'una filologia), non lo farà con le sue espressioni migliori, ma con le deteriori. Non lascerà rare perle, documenti e monumenti di eccezionale forza e delicatezza insieme, ma gigantesche e desolate discariche di residui innumerevoli e, forse, indistruttibili di pratiche umane qualsivoglia: spesso le affatto ignobili.
Il prevalere ideologico, oltre che materiale della quantità sulla qualità a ciò del resto doveva ineluttabilmente condurre e a ciò ha condotto. 
Ciò che tutti e tutte, come esseri umani, si sa fare e che consiste più o meno nel vivere (o nel sopravvivere) prevale necessariamente quanto a numero sopra ciò che, per essere fatto, domanda anzitutto un dono modicamente elargito all'umanità, quindi l'amorevole applicazione che coltiva, proteggendolo, quel dono e lo conduce al suo rado fiorire.
Non per i due abituali lettori di questo diario, che lo sanno, ma per chi casualmente ci capitasse, va forse a questo punto precisata ancora una piccola ma cruciale differenza. Riguarda l'attitudine, per dire così, morale da cui questo frustolo sortisce. 
Non vi si afferma che ciò che tutti e tutte, in quanto esseri umani, si sa fare, cioè vivere (o sopravvivere), con il suo fall out, non meriti rispetto. Lo merita e, appunto perché universalmente, in modo sacro: fuori di ogni discussione. 
Ciò che non merita però è la memoria, cioè la fatica culturale che l'umanità ha sempre naturalmente fatto per estrarre, dall'indistinto flusso quantitativo della sua sopravvivenza, i precari valori qualitativi della sua (sempre discutibile) pertinenza.
Ed è forse per tale ragione che il prevalere ideologico e materiale della quantità sulla qualità, nel lascito, pone a chi riflette sulla temperie una questione nuova e di inaudita gravità.     

8 luglio 2022

Lingua loro (42): "Turista etico"

Boia caritatevole
, sgherro creanzato, malvivente timorato, stupratore gentile... Le onde dell'inquinato mare della comunicazione hanno lasciato una loro grassa spuma sulla spiaggia della Citera di Apollonio: turista etico
E quelli in esordio sono gli ideali nessi che, al suo spirito, si sono subito presentati come comparabili, quando l'occhio è caduto sull'immondizia.
Nella presente temperie, il mondo pare un Egitto biblico. Riceve e attende le piaghe che una divinità evidentemente irata gli destina. Tra queste l'invasione turistica, più rovinosa di quella delle cavallette. 
Come torme di locuste, i turisti e le turiste non risparmiano nulla delle aree e delle società che investono. Dal loro passaggio, tutto viene irrimediabilmente guasto e degradato. 
Che ci sia un modo "etico" di darsi a tale pratica distruttiva è fola (moral-commerciale) atta a ripulire le coscienze di chi, per fare le sconcezze che fanno tutti e tutte, pretende pure che gli o le si dica che le sta facendo per il bene e nel modo giusto. E, all'uopo, paga il richiesto.   

5 luglio 2022

Linguistica candida (62): "Linguiste" e "locuteur"

Esprimersi linguisticamente è disporre di un'enorme quantità di conoscenze. Condurre tali conoscenze verso la consapevolezza e attivarle nella direzione di una coscienza linguistica la più ampia possibile è (o dovrebbe essere) il compito della linguistica. 
Come osservanza e come disciplina, questa instaura lingua e lingue come suoi oggetti, nel momento stesso in cui il suo sguardo le inquadra con metodo e prova appunto a farsene consapevole. 
Non c'è linguista migliore del locuteur, quando, come locuteur, egli si ascolta e prende coscienza che il suo lavoro di scoperta non è altro che attenzione e tensione a una consapevolezza trascendentale. È insomma il tentativo di sapere ciò che fa non solo da linguiste, ma anche e soprattutto da locuteur: ciò che fa egli stesso, come, da locuteur, ha fatto, fa, farà ogni altro essere umano, in mille e mille guise diverse.

13 giugno 2022

Intolleranze (13): "Pescato"

Heringsschwarm
Apollonio non ha in gran pregio la ristorazione pubblica. Forse l'ha affatto in uggia, fuori naturalmente del caso in cui essa si presenta come modesta e benemerita resa di un servizio a chi viaggia e, in genere, a chi non può disporre per qualche ragione di una cucina privata. 
Mangiare è rito il cui ufficio, come quello d'ogni altro rito (ivi inclusa la preghiera), soffre naturalmente della solitudine, ma privatezza non è in contrasto con pluralità e ci sono anzi riti alla cui buona riuscita privatezza e (contenuta) pluralità di partecipi sono indispensabili: ridondante specificare quali. Intorno alla ristorazione pubblica, è poi cresciuto da parecchi anni un discorso tanto sbardellato da non celare, nemmeno al più sprovveduto allocco, che di mistificazione si tratta. E ciò non ha certo attenuato le riserve di Apollonio.
Nominalizzazione di un participio perfetto, (il) pescato è divenuta parola tipica del discorso gastronomico, ai vari livelli in cui esso viene proposto: dai menù ai saggi di ermeneutica. Quanto a riferimento, include comodamente tutto quanto, provenendo dal mare, fa da materia prima dell'alimentazione. 
La storia di pescato come sostantivo pare tuttavia abbastanza recente: c'è ragione di credere che sia apparso nella seconda metà del secolo scorso; più precisamente in quegli anni Sessanta in cui vedette sensibili al mutamento linguistico segnalarono con prontezza una fase critica (e a loro dire poco commendevole, anche se ineluttabile) dello sviluppo della lingua nazionale. 
Il modello è ovviamente antico: (il) raccolto, (il) prodotto. Ma (e qui non si può che riconoscere il fiuto di quelle vedette) ha in effetti trovato modo di proliferare in un registro burocratico-economico-commerciale, cui generalizzazioni e astrazioni del genere fanno ovviamente gran comodo: (il) fatturato, (il) ricavato, (il) venduto, (l')invenduto, (l')immagazzinato, (l')inesitato, (il) ceduto, (l')acquisito e così via. Come al solito, in questione non è la plausibilità del tipo nella lingua di specialità. Rivelatore è invece il suo tracimarne e il suo inquinante sversarsi, per dirla con un neologismo, in un diverso bacino.
Ecco appunto: ogni volta che, nel contesto della ristorazione pubblica e nel discorso che la concerne, Apollonio ode o legge (il) pescato percepisce il tanfo di una contaminazione. Non un buon viatico per accostarsi con i giusti sentimenti al piatto che si pretenderebbe di mettere per lui sulla tavola.

4 giugno 2022

Linguistica da strapazzo (49): "non fare pipì ai cani", come dato

L'opera poetica del gruppo musicale milanese Elio e le storie tese testimonia una vena compositiva d'ironia facile e stucchevole. Forse per tale ragione e in virtù della collocazione geo- e sociolinguistica dei suoi componenti, essa è sensibile alle dinamiche espressive e comunicative di tendenza e in via di popolarizzazione. Ha già quasi dieci anni un loro  "ma poi scendi a pisciare i miei cani", interessante attestazione, per dire così, letteraria di un non tradizionale costrutto di pisciare sintatticamente transitivo e semanticamente causativo.
Tanto negli usi propri, quanto nei figurati, pisciare era sì presente in costrutti transitivi (e lo si trova attestato perlomeno sin dal Trecento), ma sempre con il soggetto come 'pisciatore', che è appunto quanto vale il soggetto nell'uso intransitivo. Chi pisciava, capitava pisciasse sangue o "un'autobiografia mirabolante" come qualificazioni dell'oggetto interno del predicato, o capitava pisciasse il letto o le braghe, come oggetti intrisi dal getto. Non è né l'uno né l'altro il caso di i miei cani dell'attestazione. Sintatticamente (e, è sempre il caso di ribadirlo a profani e chierici, la sintassi ha ragioni che la semantica non conosce), in questa costruzione il nesso nominale in questione funge da appropriato e mero oggetto diretto: "I miei cani, li hai pisciati?".
Penetrato dal basso e ripreso, sul principio, in un registro che eventualmente si atteggiava appunto a scherzoso, tale uso ha via via perso la sua connotazione e fuori d'ogni ricerca d'effetto, in un registro informale, capita da un po' di cogliere sulle labbra di parlanti per nulla incompetenti dello standard "Sempronio è giù che piscia il cane". Testimonianza affatto diretta, d'altra parte, del proliferare nei contesti urbani italiani della specie del cinofilo (sarà qui consentito l'uso del maschile come genere non marcato), crescita ormai fuori di ogni controllo, con evidenti casi di degrado di equilibri ambientali cittadini.
A quel punto, il più poteva considerarsi fatto, in funzione dell'immagine a corredo di questo frustolo. Essa circolava qualche tempo fa in un popolare gruppo pubblico di una popolarissima rete sociale. L'onda di tale oceano l'ha portata sulla spiaggia della Citera di Apollonio. 
Un buon pretesto per manifestare ancora una volta la futilità di questo diario. Ma sarà necessario? Ridondante è forse anche una precisazione: nel contesto da cui proviene, l'immagine era esposta come testimonianza di un errore. Si inscriveva idealmente in uno specifico filone "social". Ancora fino a qualche tempo fa, tale filone era arricchito con regolarità anche dalle istantanee di graffiti o biglietti irrispettosi di qualche norma grammaticale tratte da pedanti visitatori di pubbliche latrine. Tra costoro si contavano persino reputati accademici, cui deporre il proprio habitus severo ripugnava e forse ancora ripugna anche (o forse soprattutto) nell'esercizio o a contorno delle funzioni corporali. 
Nel caso in questione, le funzioni corporali sono di altra specie, come si vede, e quanto testimoniato dalla foto non è qui considerato in rapporto a una norma; non passa insomma come errore.
Non si nega che quanto si legge si allontani in modo patente da ciò che è ancora consueto. Ma è ottima l'occasione per alludere alla differenza tra normale e normativo, talvolta negletta anche da chi capita pretenda di ispirarsi al Coseriu di un celebre e problematico saggio (a margine: era e resta complicato, anche se può fare comodo, ricondurre Ferdinand de Saussure a categorie aristoteliche; ci tentò il linguista rumeno o, forse più precisamente, moldavo per nascita, italiano per formazione culturale e scientifica, argentino e spagnolo al sorgere della fama e finalmente tedesco nella sua consacrazione). 
La patente devianza di "Non fare pipì ai cani" è quindi chiamata in causa qui per ciò che essa svela o lascia intuire della grammatica normale e non per ciò che essa infrange della grammatica normativa.
E, a volere essere ancora più attenti e analitici, c'è da precisare che, prima di dichiarare tale devianza un dato, va considerata la possibilità che si tratti di mera evenienza della parole. In quanto tale, un accidente filologico, privo di valore linguistico: insomma, una aplografia. In tal senso, Non fare pipì ai cani sarebbe pari pari un Non fare fare pipì ai cani da cui un vero e proprio guasto meccanico ("una svista spiegabilissima") avrebbe espulso un fare. Tutto qui: cioè, per il linguista, nulla.
Che non si tratti di una aplografia è, si badi bene, già un'ipotesi: questo è del resto il permanente statuto dell'operare del linguista, in ciò comparabile con il parlante quando si esprime. Solo dopo che si sia fatta tale ipotesi e la si sia accettata come fondamento dell'argomentazione, si può assegnare a Non fare pipì ai cani il valore di dato linguistico. Lo si ribadisce: valore da verificare in funzione di ciò che è normalmente costruito e potrebbe essergli idealmente sostituito e non di ciò che è normativamente prescritto e dovrebbe comparire al suo posto. Si faccia attenzione alla differenza tra i modali: potrebbe, da un lato, dovrebbe dall'altro.
Sotto il segno di quel potrebbeNon fare fare pipì ai cani e Non fare pipì ai cani si configurano pertanto come varianti formali, con relazioni funzionali diversamente rappresentate nei due casi, l'uno più, l'altro meno analitico. E se il più analitico è ovviamente di scarso interesse, è il meno analitico, con la sua stringatezza formale, paradossale rivelatore di un processo di mutamento in atto nella manifestazione di valori funzionali. Lo si diceva: tutto quanto è in proposito contenuto (e palesato) da Non fare fare pipì ai cani sarebbe infatti presente, per ipotesi, nella variante ridotta, tanto per l'intenzione comunicativa di chi lo ha scritto, quanto per chi, interpretandolo, se ne rivela capace (comunque lo consideri, dalla prospettiva normativa: diversamente, non si avrebbe nemmeno ragione di esibirlo come un errore).
Ecco allora venire in chiaro la proporzione che soggiace alla forma scorciata. Nello standard, c'è una relazione di parafrasi morfosintattica tra pisciare, in un costrutto intransitivo, e fare pipì. "Fra le tue gambe precocemente intirizzite dal lavoro, razzoleranno come pollame i tuoi figlioli piagnucolosi, laceri e sporchi; se li prenderai su un poco, ti piscieranno sopra i calzoni rattoppati", scriveva Aldo Palazzeschi e, con una sfumatura affettuosa forse non adatta al tenore del passo ma quanto al resto dalla perfetta equivalenza, nulla impedirebbe di leggervi un "...faranno pipì...". 
Per analogia, nel nuovo standard, la relazione è stata estesa anche al costrutto transitivo in cui ricorre pisciare, ormai diffuso e testimoniato, come si diceva, ben oltre il testo di Elio e le storie tese che è servito a introdurre il frustolo. Così, divenuto plausibile "Scendo e piscio il cane", altrettanto sta accadendo a "Scendo e faccio pipì al cane", con uno scivolamento funzionale dell'oggetto diretto verso la relazione di oggetto indiretto, lungi dall'essere inatteso, in un processo del genere.
A chi pensasse che la faccenda si risolva a colpi di "giusto" e di "sbagliato", di cosa si deve dire e cosa non si deve dire, di cosa urta o non urta ogni sorta di permalosa sensibilità e giudicasse già questo modesto e sommario frustolo un ammasso di fumosi arzigogoli, Apollonio può solo dire "È la linguistica, bellezza!".


 

18 maggio 2022

Linguistica candida (61): Facoltà, esperienza, comportamento

In modo inscindibilmente combinato, la lingua è facoltà della specie, esperienza individuale e comportamento sociale e non c'è momento del suo continuo processo in cui i tre aspetti non siano in correlazione. 
A fatica e con accanita applicazione, si può tentare di rendere sperimentalmente osservabile ciascun aspetto. Necessita all'uopo la continua messa a punto di procedure appropriate. Appropriate soprattutto perché coscienti di produrre, ben che vada, ipotesi di astrazioni sempre imperfette e non depurabili. 
Non c'è comportamento linguistico che non rifletta esperienza e facoltà di lingua; non c'è facoltà di lingua che non sia verificata da esperienze e comportamenti linguistici; non c'è esperienza che, sul fondamento della facoltà di lingua, non si faccia patente in un comportamento e non vi si determini. Facoltà, esperienza e comportamento non saranno mai attingibili allo stato puro.
Forse è questa la sola solida acquisizione delle molte erranze di una disciplina che da due secoli prova a nascere e, ripetutamente, muore in culla, venendo rapidamente sostituita da una delle repliche partorite dal sempre rinnovato connubio, quanto alla lingua, di credenze e luoghi comuni millenari. 

8 maggio 2022

Sommessi commenti sull'Ultra-Moderno (2): Futuro senza filologia

Quasi generale negli ultimi trenta anni è stata l'illusione che, contando per l'umanità solo il futuro, ci si fosse liberati per sempre del passato. A proposito del primo, si fanno previsioni e vaticini; del secondo invece, con fatica, si fa storia. Tra le altre diversità, sperimentalmente verificabili, sono due modalità discorsive che hanno anche una radicale differenza di attendibilità.
Caso mai ce ne fosse stato bisogno, il presente si sta incaricando di mostrare quanto sciocca fosse quella illusione, quanto passato ci sia appunto nel presente, in ogni presente, e quanto tale passato decida il futuro. Senza scienza del passato, parlare del futuro, da ipotesi (cosa che è sempre), si fa mero vaniloquio.
Per gli esseri umani, lo si sa bene, profetare è pulsione incoercibile, proprio come lo è interpretare. Profeti ed ermeneuti si somigliano, anche perché hanno sempre qualcosa da dire. A moderare ambedue le pulsioni, a ricondurle a una ragionevolezza sempre precaria, dovrebbe provvedere la consapevolezza del passato procurata dalla conoscenza della storia. Ma tale conoscenza non si consegue senza pratica metodologica di rigorosa filologia.

21 marzo 2022

"Si definisce gattopardismo..."

"Si definisce gattopardismo l'atteggiamento di chi finge di sostenere le innovazioni, ponendosi in realtà l'obiettivo di mantenere lo statu quo e conservare i propri privilegi. La parola deriva dal titolo del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, «il [sic] Gattopardo» che a sua volta prende spunto dallo stemma della famiglia protagonista raffigurante questo felino. Le ragioni per le quali il sostantivo gattopardismo (come anche l'aggettivo gattopardesco) ha assunto tale significato risiedono nel comportamento del principe Fabrizio personaggio principale del romanzo, attento a mantenere inalterata la condizione agiata del proprio ceto, pur mostrando di appoggiare i cambiamenti politico-sociali in atto in Sicilia durante il Risorgimento italiano".
La fonte è autorevole. Parla in rete una casa editrice che da decenni fornisce solide opere di riferimento alla nazione italiana. È infatti l'account di Zanichelli editore (@Zanichelli_ed). Con un thread di tre tweet del 16 marzo 2022, regala questa perla di cultura a chi lo segue nella rete sociale. E, a partire da "Le ragioni per le quali...", con pretesa di fondamento filologico, procura per la famiglia lessicale una bella e chiara motivazione, se non si vuole dire l'etimo concettuale.
La sortita è accidentalmente passata sotto gli occhi di un Apollonio che ancora ne sorride. Lo fa meno il suo un dì pugnace alter ego, intento a progettare in proposito uno dei suoi interventi vanamente vindici, non si vuole dire della verità (quella, c'è umano che sa cosa sia?), ma appunto della molto più modesta filologia. Sbollita la rabbia, però, alzerà le spalle anche lui, lascerà perdere e tornerà alle sue letture, come don Ciccio Tumeo ai suoi cani e alla sua modesta vita di organista dell'oscura Donnafugata.
Qui non ci si scorda del motto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (se ne disse testimone il compianto Francesco Orlando): "Bisogna lasciare sempre gli altri nei loro errori". Soprattutto se si tratta di "altri" autorevoli, come @Zanichelli_ed (ci si permette di aggiungere). E poi lo si sa: Il Gattopardo è forse l'opera del Novecento letterario italiano di cui più si è detto e scritto senza averla mai letta e, in ogni caso, sul fondamento di luoghi comuni, oltre che vieti, velenosi. A più di sessanta anni dalla pubblicazione, eccone un lampante esempio.
"For the happy few", basterà allora segnalare soltanto (e tra il molto altro) che quasi sul principio del romanzo quel personaggio che il "comportamento" (ovviamente narrativo) mostrebbe "attento a mantenere inalterata la condizione agiata del proprio ceto" è moralmente descritto così: "il povero Principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo".
 
[Sparse testimonianze di una sempre lieta costanza, in vecchi interventi, talvolta con protagonisti inattesi: qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui.]

17 marzo 2022

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (31): Emozioni e argomenti

 
 
Malgrado oggi ci sia chi pensa il contrario e ne fa gran pratica comunicativa, un'emozione non è un argomento. Ancor meno lo è fare palese al mondo, senza verecondia, di avere un'emozione, di provarla. Ancora peggio è mascherarla da argomento, con tipico vezzo intellettuale, e venderla sul mercato delle idee. Quanto alle cose sulle quali si hanno emozioni e non argomenti vale sempre meglio tacere. Rigorosamente.

4 marzo 2022

Sulla fibra del ceto accademico

Con il necessario distacco, Apollonio condivide con il suo alter ego e trascina quindi con sé il bagaglio di quasi mezzo secolo di vita nell'università. Di più di mezzo secolo, se si includono gli anni da studente dell'alter ego, validi a pieno titolo come esperienza pertinente.
Due tratti caratterizzavano un tempo le figure migliori del ceto accademico (si precisa, a scanso di equivoci: le figure migliori, poche come sempre, certamente, ma radicate e persistenti). Erano  un tenace rigore e una scabra e disincantata sprezzatura, in necessaria combinazione.
La combinazione era in apparenza bizzarra, ma, a ben riflettere, provvida. Senza sprezzatura, il rigore sarebbe stato in effetti fanatica pedanteria. Senza rigore, la sprezzatura sarebbe stata indifferenza teoretica. 
L'insieme pareva talvolta produrre una superbia cinica e amorale, ma l'acuta consapevolezza critica di quelle figure, senza darlo troppo a vedere, smascherava ipocrisie, sciocchezze e ciarlatanerie. Non c'è ricerca autentica che non sia zetetica e che non germogli da una scepsi radicale. Ma si sa che non è da tutti e da tutte intenderlo: una fede, qualunque fede è sempre stata la via più facile.
Oggi, l'università non è più l'ambiente adatto per figure siffatte. Lo è per altre e Apollonio non ha cuore né penna per illustrarne appunto la fibra diversa. Ancor meno ne ha il suo alter ego, che alla lettura di questo frustolo sorride sconsolato.

20 febbraio 2022

Linguistica candida (60): "Oggi è il venti febbraio duemilaventidue"

Più ampia è la relazione che si ipotizza, più cresce l'impegno a determinarvi delle differenze. E non c'è ipotesi di differenza senza precisazione della relazione nella quale è osservabile.
Relazioni senza differenze e differenze senza relazioni sono mere petizioni di principio e il criterio merita di essere ribadito nella presente temperie. 
Abbigliato dal corredo tecnologico e dall'apparato quantitativo con cui opinioni bislacche vengono al momento spacciate come scienza, quanto alle facoltà umane, una sorta di animismo sta infatti allargando a dismisura l'area della relazione, senza curarsi di mettere in chiaro le differenze. Forse anche perché lì sta la sfida che la qualità pone alla quantità e, al di là dei numeri, va precisato cosa è marcato e cosa non lo è.
Al vecchio Apollonio pare del resto che provare a intendere come funzioni e cosa valga una semplice espressione come "Oggi è il venti febbraio duemilaventidue" sia bastevole se non a intendere, certo a intuire quanto specifica e marcata sia l'umanità e che ruolo stupefacente giochi la lingua, in tale marcatezza e in tale specificità. Nell'indubitabile relazione con ciò che umano appunto non è.

28 gennaio 2022

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (30): Il dominio ineluttabile del caso


 

 

Metterci un po' di ironico impegno, di cura coscienziosa e di amorevole attenzione è il miglior modo per trovare tollerabile la constatazione, cruda, matura, necessaria, che tutto ciò che si fa, si ha, si è sta sotto il dominio ineluttabile del caso.

23 gennaio 2022

Linguistica candida (59): Il pensiero incosciente che di solito viene detto "lingua" [e sono mille]

Il pensiero incosciente che sortisce dalla relazione tra significato e significante e che di solito viene detto lingua è intelligente. Per natura.
A chi gli si consacra per studio, tocca solo provare a procurarne una riformulazione esplicita, per quanto è possibile, con la speranza, che è forse solo un'illusione, di facilitarsene (e, se si ha fortuna, di facilitarne ad altri) scampoli di consapevolezza.
 
[È il millesimo frustolo di questo diario che, quando fu aperto or sono più di tre lustri, senza sapere fin dove e fin quando si sarebbe spinto, dichiarava come concessivo lo spirito della sua enunciazione e dei relativi enunciati, ormai tanto numerosi. Grazie a chi ha prestato ascolto a qualcuno di essi con l'orecchio della mente.]

4 gennaio 2022

Onomastica letteraria (2): Con il pretesto di Gerhard Rohlfs

Viene un'età in cui, se, alla richiesta di scrivere qualcosa sopra un tema, non si sa proprio cosa scrivere, si può sempre intonare, dando prova di una poderosa memoria onomastica, una cadenzata carola di altisonanti nomi propri, atti a illustrare di riflesso, per frammenti autobiografici, la prima persona singolare. 
Eccone un vivido e recente esempio, che prende a pretesto la ripubblicazione della Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti di Gerhard Rohlfs.
Si può stare certi che sul colto pubblico e sull'inclita guarnigione si farà così una straordinaria impressione.
Il catenaccio, redazionale, fa inoltre di Rohlfs il mero "curatore" dell'importante opera di cui nell'articolo si tratterebbe e della quale egli fu in realtà l'ammirevole autore; ma alle gazzette non si può chiedere d'essere sensibili a tali sottigliezze. 

3 gennaio 2022

Sommessi commenti sull'Ultra-Moderno (1): "La vita che verrà"

Chi si esprimerà e comunicherà sopra il tema che annuncia il titolo dell'importante "evento" culturale di prossimo svolgimento a Genova lo farà senza dubbio secondo la propria specializzazione tecnica, in scienza e coscienza.
Chissà se sarà tuttavia consapevole di un rilevante aspetto di quanto farà. È un aspetto dell'espressione e della comunicazione che gli strumenti della filologia e della linguistica hanno precisato nei contenuti e reso sperimentalmente osservabile, nel corso del Novecento.
Al di là dei valori dell'enunciato, nel caso specifico tutti scientificamente affidabili, il discorso di chi proporrà nell'occasione il proprio vaticinio manifesterà infatti anche una maniera dell'enunciazione. Questa si prospetta ineludibilmente comparabile con quella tipica della parola di indovini e chiaroveggenti. 
Chissà d'altra parte se tra il pubblico sicuramente folto che assisterà alle "visioni scientifiche sul futuro dell'umanità" ci sarà un po' della coscienza prodotta da una meditata conoscenza della vicenda umana che si qualifica come storica. 
Ove un briciolo di una coscienza siffatta balenasse, tale pubblico, almeno nella sua parte più avvertita, saprebbe di essere lì a soddisfare in realtà una ricorrente, se non eterna esigenza psicologica degli esseri umani: il bisogno di una profezia, salvifica o funesta che sia. Bisogno acutissimo nelle epoche di eclissi della ragionevolezza.