"Putnam, che è forse il più influente filosofo americano vivente, ha scritto questo articolo per
il Sole 24 Ore-Domenica...". "Peter Sloterdijk è indubbiamente uno dei maggiori filosofi contemporanei, almeno se consideriamo la sfera continentale...". "Emanuele Severino è uno dei maggiori filosofi contemporanei...". Si potrebbe continuare a lungo con citazioni del genere, pescando naturalmente anche fuori dello stagno della filosofia, di cui si stanno qui solo casualmente rimestando le acque.
Quando la figura di un (presunto) sapiente ha un'epifania che il medium che la rende possibile vuole vendere come consolidata, se ne può stare certi: il superlativo relativo ricorrerà. E così, capita ogni giorno e talvolta più volte al giorno di ascoltare o di leggere "una delle più illustri poetesse", "il maggiore biologo", "l'astrofisico più autorevole", naturalmente "vivente", "contemporaneo", "della modernità", "dello scorso, di questo secolo".
Il presupposto è che l'elargitore del superlativo sia capace di tale giudizio. In faccia a chi lo ascolta o lo legge, egli se ne fa in ogni caso garante. E siccome conosce le regole della buona educazione, officia il rito sempre con sussiego. Adorna infatti il superlativo, sovente, con un'espressione avverbiale. Ne fa iperbole, fingendo di mitigarlo, con un "forse" (le veneri dello stile, lo si sa, sono ritrose). Insinua perplessità facendo mostra di negarle: "indubbiamente".
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Nel 1921, Albert Einstein sbarcava negli Stati Uniti, per la prima volta. Ad accoglierlo acclamazioni e manifestazioni di massa, mai prima sotto tale forma tributate a un uomo di scienza: egli diventava così "Albert Einstein: il maggior fisico vivente". E maturava (o giungeva solo in piena luce) un aspetto del destino, perverso e paradossale, del sapere e della scienza nel Moderno: fare da feticcio di nuove religioni sociali.
Nel corso del Novecento, trassero profitto ideologico da tale perversione sistemi totalitari d'ogni colore. Non ci fu fascismo i cui (presunti) uomini di cultura non fossero "i più grandi X contemporanei". Non ci fu conferenza mondiale (oggi si direbbe globale) cominformista i cui partecipanti, "intellettuali per la pace", non fossero tutti ipso facto insigniti del superlativo. Modesti compositori di versi, coloratori di tele furono così proiettati su Parnasi divenuti frattanto polverosi, magari, ma dai quali poi più nessuno si è mai incaricato di richiamarli, visto che, alla bisogna, possono sempre risultare utili. Anni della modernità matura e delle sue farsesche tragedie.
Oggi, dal feticcio provano a trarre profitto le religioni della modernità putrefatta: totalitaria senza nemmeno volerlo (che è il modo perfetto d'esserlo). Beotamente considerata liberale, anzi, tanto dai suoi cantori (cui basta, a quanto pare, il grado di totalitarismo raggiunto) quanto dai suoi oppositori (che ne desidererebbero uno ancora maggiore).
Il cielo corrusco della stupidità ideologica otto-novecentesca si è così mutato nelle lampanti esigenze bottegaie del merito e del mercato, che, per essersi fatte ragioni di spettacolo, non per questo sono meno ideologiche. Anzi.
Come abito di scena del clown, dell'artista da circo, la forma linguistica del superlativo relativo attribuita dal presentatore al (presunto) sapiente di turno è così trascorsa dalla rappresentazione di una farsesca tragedia alle mille e poi mille repliche di una tragica farsa e le conferenze cominformiste grigio-metallo sono diventate colorati festival dei libri e di ogni branca dello scibile umano: "ed ora, signore e signori, dopo la più celebre contorsionista del Vecchio mondo, si esibirà davanti a voi il più grande trapezista del Nuovo...". Valeva la pena, cari i miei due lettori, di pagare il prezzo del biglietto che si è acquistato per assistere allo spettacolo di questa scalcinata compagnia di guitti di cui accade inoltre, come servi di scena, di fare parte!
[E ancora, sempre attingendo alla stessa fonte, inesauribile nella produzione di imbonitorie stucchevolezze onorifiche e dei relativi superlativi relativi, il 20 marzo 2011: "Certo, quando aveva due anni Putnam se ne stava sulle ginocchia di Pirandello (che era amico del padre, grande traduttore); da studente era amico di Chomsky; da giovane conversava con Einstein, Gödel e Carnap; e a trent'anni era già nella storia della matematica, avendo contribuito alla soluzione di uno dei famosi «problemi di Hilbert». Queste sono cose che aiutano: non sorprenderà allora che Putnam sia divenuto poi uno dei maggiori filosofi contemporanei"].