Lanciato da una campagna pubblicitaria non da poco e patrocinato da una società culturale che eroe eponimo più illustre non potrebbe avere, esce un quaderno speciale di una rivista di geopolitica. Il fascicolo ha un titolo bruttino e tanto corrivo, ma ad effetto: "Lingua è potere".
Il primo articolo è una sorta di presentazione generale: "La geopolitica delle lingue in poche parole". Il suo incipit suona così: "Aveva ragione lo scrittore portoghese Vergílio Ferreira: la lingua è, in fondo, soprattutto un luogo. Una casa da condividere o una frontiera da attraversare, un ghetto in cui rinchiudersi o un altrove in cui limitarsi a transitare".
Di Ferreira, Apollonio conosce appena il nome. Proprio quell'articolo porta però in epigrafe la traduzione italiana del passo cui il suo incipit farebbe riferimento. Per quanto limitato e su due piedi, un riscontro è possibile.
Sostiene Ferreira, in apertura del passo, che "una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire". Poi continua: "Dalla mia lingua si vede il mare. Dalla mia lingua se ne sente il rumore, come da quella di altri si sentirà il rumore della foresta o il silenzio del deserto. Perciò, la voce del mare è stata quella della nostra inquietudine". A credere a questa citazione (e a credere affidabile la sua traduzione), sembra insomma che Ferreira consideri la lingua anzitutto un punto di vista: "il luogo da cui si vede il mondo...". In ciò, come si sa, egli è in ottima compagnia e non c'è da stupirsi. Da secoli, il punto di vista che vede nella lingua un punto di vista è tanto affascinante quanto producente.
Dare di tale prospettiva una lettura crudamente localista, affermare sul suo presunto fondamento ("aveva ragione lo scrittore portoghese...") che "la lingua è, in fondo, soprattutto un luogo" non sarà allora una speculazione un po' abusiva? Da abusivismo edilizio, pensa Apollonio mentre sfoglia il fascicolo, la cui visione d'insieme - sarà per il potere evocatore della metafora - gli ricorda il colpo d'occhio offerto da coste calabresi o siciliane, quando le operose popolazioni locali, incoraggiate dai periodici condoni, hanno potuto meglio esprimervi il loro genio paesaggistico, col suo aureo principio: ciascuno faccia la prima cosa che gli passa per il capo. Ai desideri di decoro dei committenti ottimamente provvedono in tali casi scienza e stile del geometra e del capomastro.
La trouvaille metaforica deve del resto essere parsa un'acutezza all'autore dell'articolo di apertura. Sul "luogo" attribuito (e forse usurpato) a Ferreira, egli medesimo si è infatti affrettato a costruire "casa", "frontiere", "ghetto" e, per non farsi mancare proprio nulla, pure un "altrove". Cosa, c'è da chiedersi, una lingua non potrebbe infatti mai essere?
Ma già bastano "potere" e "luogo" a gettare Apollonio quasi nello scoramento, quanto al mucchietto di pagine stampate che si trova tra le mani. D'improvviso, intuisce però che è tutto solo uno scherzo. Glielo rivela, benevolo e ammiccante, il titolo della rivista. Non ci aveva mai fatto caso: in anagramma, suona "Smile".
Ripone il fascicolo nello scaffale da cui, curioso, l'aveva tratto, sorride grato e, consolato, corre a prendere il suo aereo.
Di Ferreira, Apollonio conosce appena il nome. Proprio quell'articolo porta però in epigrafe la traduzione italiana del passo cui il suo incipit farebbe riferimento. Per quanto limitato e su due piedi, un riscontro è possibile.
Sostiene Ferreira, in apertura del passo, che "una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire". Poi continua: "Dalla mia lingua si vede il mare. Dalla mia lingua se ne sente il rumore, come da quella di altri si sentirà il rumore della foresta o il silenzio del deserto. Perciò, la voce del mare è stata quella della nostra inquietudine". A credere a questa citazione (e a credere affidabile la sua traduzione), sembra insomma che Ferreira consideri la lingua anzitutto un punto di vista: "il luogo da cui si vede il mondo...". In ciò, come si sa, egli è in ottima compagnia e non c'è da stupirsi. Da secoli, il punto di vista che vede nella lingua un punto di vista è tanto affascinante quanto producente.
Dare di tale prospettiva una lettura crudamente localista, affermare sul suo presunto fondamento ("aveva ragione lo scrittore portoghese...") che "la lingua è, in fondo, soprattutto un luogo" non sarà allora una speculazione un po' abusiva? Da abusivismo edilizio, pensa Apollonio mentre sfoglia il fascicolo, la cui visione d'insieme - sarà per il potere evocatore della metafora - gli ricorda il colpo d'occhio offerto da coste calabresi o siciliane, quando le operose popolazioni locali, incoraggiate dai periodici condoni, hanno potuto meglio esprimervi il loro genio paesaggistico, col suo aureo principio: ciascuno faccia la prima cosa che gli passa per il capo. Ai desideri di decoro dei committenti ottimamente provvedono in tali casi scienza e stile del geometra e del capomastro.
La trouvaille metaforica deve del resto essere parsa un'acutezza all'autore dell'articolo di apertura. Sul "luogo" attribuito (e forse usurpato) a Ferreira, egli medesimo si è infatti affrettato a costruire "casa", "frontiere", "ghetto" e, per non farsi mancare proprio nulla, pure un "altrove". Cosa, c'è da chiedersi, una lingua non potrebbe infatti mai essere?
Ma già bastano "potere" e "luogo" a gettare Apollonio quasi nello scoramento, quanto al mucchietto di pagine stampate che si trova tra le mani. D'improvviso, intuisce però che è tutto solo uno scherzo. Glielo rivela, benevolo e ammiccante, il titolo della rivista. Non ci aveva mai fatto caso: in anagramma, suona "Smile".
Ripone il fascicolo nello scaffale da cui, curioso, l'aveva tratto, sorride grato e, consolato, corre a prendere il suo aereo.
Nessun commento:
Posta un commento