17 dicembre 2019

Bolle d'alea (27): Manganelli

"Viviamo tempi stralunati: pensate che un concetto mitologico come «fine del mondo» è diventato materia di calcoli, progetti, apprestamenti scientifici; è misurabile, è «vero»". La sortita di Giorgio Manganelli ha più di trenta anni e già allora valeva da constatazione, non da profezia. Come dire che i segni del morbo (se di morbo si tratta) erano già palesi, per chi sapeva vederli. Il passo viene da uno dei corsivi raccolti nello spassosissimo e postumo Improvvisi per macchina da scrivere
Come spesso dalle parole di quell'acuto osservatore, l'immagine che sortisce è comparabile con quelle che illustrano ambiguità percettive. Se la "fine del mondo" passa da allora e ormai in modo conclamato per "vera" è perché il mito s'è fatto scienza (circostanza da deprecare, sorridendo) o perché la scienza s'è fatta mito (circostanza di cui sorridere ma con più di un filo di angoscia)? 
Consola Apollonio che l'uno e l'altro corno dell'insolubile dilemma possano farsi occasione di un moderato, ragionevole buonumore. Tanto più ragionevole, quanto più l'ipocondria sulle umane sorti pare essersi fatta andazzo e, ora che i giorni appropriati si avvicinano, se c'è un augurio (e un invito) che questo fioco diario continua a fare ai suoi due lettori è di tenersi lontani dagli andazzi. Di non finirne consapevoli vittime, certo. Ma, con cura ancora maggiore, di non impegnarvisi come inconsapevoli carnefici. 

11 ottobre 2019

La bière de l'Université (e Tommaso Landolfi)


Per via di un'omonimia, la parola francese bière sta per ciò che in italiano diciamo birra ["Boisson alcoolisée obtenue par la fermentation d'un moût fabriqué avec du houblon et/ou, le plus souvent, du malt d'orge"], come per ciò che in italiano diciamo bara ["Synon. de cercueil: long coffre dans lequel on dépose le corps d'un mort avant de l'inhumer"].
Alla Sorbona, non devono avere tenuto conto della tragicomica ambiguità che ne consegue, per correlata e ovvia ebrietà. 
O forse sì. Ne hanno tenuto conto. Laggiù, di università se ne intendono da secoli. Hanno allora deciso di dare un segno della loro consapevolezza. Ovunque nel mondo (ed è giusto darne l'ambiguo annuncio) per l'università è giunta l'ora della bière.







[Or sono quasi settanta anni, Tommaso Landolfi giocò maliziosamente con tale omonimia e, sintagmaticamente, con una omografia consentitagli dall'uso delle maiuscole.]


27 settembre 2019

"...se solo si avesse commesso l'errore..."

Sabato 21 settembre 2019, a pagina 23 di Robinson. L'isola che c'è, supplemento settimanale consacrato alla cultura di un quotidiano nazionale maggiore. Se solo non vi si fosse commesso un errore, questo ritaglio non sarebbe qui.
Per le costruzioni impersonali col si, lo standard grammaticale italiano vorrebbe ancora, nella funzione di ausiliare, una forma di essere e non di avere. Forme di avere in contesti siffatti sono invece tipiche di molti sub-standard, localmente caratterizzati.
Troppo impegnato nella produzione del congiuntivo, lo spiritoso giornalista culturale, per tenere sotto controllo anche la scelta dell'ausiliare? Più verosimilmente, una sciatteria, anche da parte di chi dovrebbe prima leggere ciò che si appresta a pubblicare, per evitare inoltre che il pubblicato faccia figura di peracottaro.  
Caso mai si fosse mai prima commesso l'errore di sopravvalutare quel supplemento culturale, ecco ancora una buona occasione per riflettere.

22 settembre 2019

A frusto a frusto (122)


C'è da dubitare del senno di chi pretende di governare il procedere del mondo. Ancora di più di chi vaneggia di poterlo fermare. Del valore di ciò che è, meglio, di ciò che incessantemente trascorre da ciò che è a ciò che fu, sempre ammesso che tale valore ci sia, è solo concesso di procurare personale testimonianza, fin che si può, con il certo sacrificio di qualcosa del proprio futuro. O, se più non si potesse, del proprio futuro nella sua interezza.

21 settembre 2019

L'inflazione dei morti celebri

Muore più di una celebrità al giorno, ormai. Anche questa è inflazione. Un fenomeno loquace, se lo si sa ascoltare.
Anzitutto una precisazione: non è qui questione di celebrità come l'intendevano gli antichi. Allora, una celebrità, come molto altro, non si produceva. Semplicemente accadeva. E tale accadimento era raro e singolare: autentica epifania di un sovrumano piegatosi a riscattare  dalla morte chi, per definizione, era un mortale. Naturalmente solo dalla morte morale, considerata appunto l'ineluttabilità della materiale. 
Qui è invece questione di celebrità come esse si caratterizzano a partire da un'epoca in cui sono divenute oggetto di una specifica produzione: prodotti tra i tanti, materiali e no, di un ciclo economico specifico.
Grosso modo, la produzione di celebrità comincia con il Secolo breve ed è correlata con l'affacciarsi sul palcoscenico della storia delle società di massa. Produzione di celebrità e affermazione dell'industria del divertimento (e della distrazione) di massa, come fenomeno economico di grande importanza, andarono di pari passo. E se fino a un certo punto le celebrità vennero prodotte sotto un marchio di eccezionalità e adducendone i relativi pretesti, da un certo momento in avanti, come in molti altri settori commerciali, la produzione mirò a un netto abbassamento dei vecchi standard. All'industria della celebrità ciò fu utile per gettare sul mercato, a ciclo continuo, celebrità di basso o infimo rango, in ogni settore della vita pubblica, pronte a essere continuamente rimpiazzate e fruibili anche ai livelli minimi di competenza dei consumatori e delle consumatrici.
Questo modello di produzione debuttò negli anni Cinquanta del secolo scorso e si mise presto a regime. Negli ultimi decenni, come in altri settori economici, anche il modello industriale della produzione di celebrità di bassa lega è diventato obsoleto e, a produrre in modo incontrollato e incontrollabile celebrità proprio qualsiasi è lo stesso brodo di coltura in cui è immersa la società. Il consumo di celebrità è così divenuto tanto rapido da potere essere definito parossistico: un chiasso seriale che sforna celebrità, rendendone il numero straripante e, in linea teorica, esattamente pari al numero degli esseri umani che continuamente transitano per il mondo, come un acuto osservatore, anticipando i tempi, disse or sono già parecchi decenni.
Abbandonate o no, le numerosissime celebrità create dal momento in cui la produzione e la fruizione si sono semplificate e gli standard si sono abbassati vengono adesso in gran numero verso l'età in cui agli esseri umani capita di dire addio al mondo.  Gli anni passano e se ne vedono gli effetti.  Frotte di (un dì) noti e (un dì) note muoiono. 
Ecco perché giorno dopo giorno c'è chi ne approfitta per fare ancora un po' di chiasso sulla dipartita di qualche persona sulla quale, in anni più o meno lontani, di (sovente irragionevole) chiasso era accaduto se ne fosse già fatto: il costume dell'epoca impone siano peraltro commemorazioni sempre intrise di tenerissime memorie e di stucchevoli sentimentalismi.

[Il giorno dopo. Or sono più di tre anni, il fenomeno che fa da tema o forse da pretesto a questo frustolo era stato colto e finemente analizzato in uno scritto di Stefano Bartezzaghi. Il torpido spirito di Apollonio macina lentamente e grossolanamente le intermittenti impressioni che gli suscitano, nella sua lontana Citera, le espressioni del mondo e spera che la défaillance gli sia perdonata.] 

Cronache dal demo di Colono (61): "Italienistica"


In una rete sociale, in queste ore, un lapsus delizioso. E rivelatore dello stato degli studi. Meglio, dello stato della nazione.

16 agosto 2019

Testi meccanici e testi (post-)umani

Macchine che producono testi, sul fondamento di sterminate banche dati. E, affermano credibilmente coloro che sono coinvolti nel gigantesco affare e lo pubblicizzano sui relativi mercati, testi che nella stragrande maggioranza dei casi sono indistinguibili da quelli prodotti da esseri umani. È il protocollo della prova-principe dei risultati della ricerca nel campo dell'intelligenza artificiale, sin dai suoi moderni albori, come si sa. Performance umana? Meccanica? Se non si può decidere, il successo è massimo.  
Sull'indubbio risultato, ancora un dubbio, ma procedurale: successo raggiunto perché si stanno progressivamente sviluppando macchine sempre più simili agli esseri umani o perché, seguitando l'esplicito e plurisecolare programma della civiltà moderna, si stanno progressivamente riducendo gli esseri umani a macchine e i testi che costoro producono, considerati ancora umani per inerzia ideologica, sono in realtà testi già post-umani?
A sciogliere il dubbio, un'ipotesi: ragionevolmente, alacri lavori sono in corso su ambedui i versanti, come appunto accade quando ci si impegna nella realizzazione di un tunnel. Nel caso specifico, un tunnel tutt'altro che metaforico, in cui, malgrado possa parere il contrario, la post-umanizzazione ha fin qui progredito più della produzione di macchine presentabili come intelligenti. Insomma, già oggi e non da ieri, il mondo conta forse più esseri umani quasi-meccanici che macchine quasi-umane. È questo, allo stato dei fatti, il più rilevante e chiaro esito del contraddittorio umanesimo moderno, dalla storia a tratti comica, a tratti, e più frequentemente, tragica.
Difficile nutrire la speranza che, una volta che quel tunnel sarà stato compiuto, sempre ammesso ci si riesca, da tale immane sua opera sarà ancora capace di immaginare una via di fuga un'umanità che, al culmine del suo paradossale successo, non sarà più tale perché finalmente e felicemente indistinguibile dalle macchine. Più probabilmente vi si perderà, trovandovi così la sua sepoltura. Degnamente post-umana e, a quel punto, indubitabilmente illacrimata. 

14 agosto 2019

Fare di tutti i Verga un fascio

"L'ossessione per la roba è appunto il centro dei Malavoglia", scrive perentoriamente uno spiritoso giornalista culturale in una "microrecensione" del capolavoro di Giovanni Verga che si atteggia a umoristica. 
Si tratta di uno scritto di mera occasione, naturalmente, e I Malavoglia ne sono un semplice pretesto. Menzionare il romanzo e menzionare lo scrittore di Vizzini serve infatti all'autore per prendere in giro un uomo politico che in una sortita pubblica di qualche giorno prima aveva "sbagliato citazione", associando appunto "la roba", come nucleo tematico e narrativo, non a Verga ma a Pirandello. Erano seguite le scuse, davanti alle incontestabili contestazioni: "La memoria ha fatto cilecca", s'era subito giustificato l'uomo politico.
C'è Verga e Verga, però, e non si può fare di tutti i Verga un fascio, ancor meno in una sede che, per quanto effimera, ironizzando sopra uno sfondone altrui, anche se solo per celia, ma puntuta celia, finisce per pedanteggiare. Diversamente da ciò che pretende il censore, "la roba" non ha infatti molto da spartire con I Malavoglia. Tema e titolo di un racconto delle Novelle rusticane, nella produzione romanzesca di Verga "la roba" contribuisce piuttosto a tessere decisivamente la cupa trama di Mastro-don Gesualdo: un "vinto" socialmente molto diverso dalla disgraziata famiglia Toscano, detta "Malavoglia" dalla voce pubblica. 
Il romanzo rappresenta sì tale famiglia come attaccata disperatamente alla modestissima casa del nespolo, ma più che di "roba", si tratta, nella costruzione dell'opera, del suo unico, radicale ubi consistam. Una base vitale destinata peraltro a essere perduta, dopo il tragico naufragio della "Provvidenza" e la morte di Bastianazzo.
Nel suo breve pezzo, il giornalista racconta d'essere stato "comandato a leggerlo [I Malavoglia], alle superiori". Afferma che "gli piacque pure" e di esserne stato coinvolto, "pur trattandosi della seconda mattonata obbligatoria dopo i Promessi sposi". Scherza, naturalmente, quando scrive di credere addirittura "di essere diventato di sinistra per quello: lotta di classe nichilista, noia, disgrazie a raffica". 
Alla luce di tali dichiarazioni, spontanee, insieme con un sorriso, lo scritto finisce però per sollevare un dubbio amarognolo. Le sconsolanti considerazioni sul livello di comprensione del testo da parte degli adolescenti italiani provocate dalla recente pubblicazione di una pur molto discutibile indagine dell'Invalsi andrebbero forse retrodatate di qualche decennio.

5 agosto 2019

La cultura del pesce, a tavola, e l'orecchio che governa il racconto

"I clienti, cosa vuole, ormai non sanno più pulire il pesce": ha l'aria furbescamente mortificata il maître, quando Apollonio gli fa presente il suo sgomento, vedendosi presentare brandelli di quei pesci che, insieme con il resto, un piatto della cucina siciliana tradizionale vorrebbe comparissero a tavola interi se di modeste dimensioni o, se di grandi, a pezzi considerevoli e anatomicamente riconoscibili. "Ha ragione. Ragionissima. Ma non sono più quei tempi. E sì, bei tempi, signor mio. Ha ragione...". 
Brandelli di qualsiasi cosa sono - sovente - resti di lavorazioni in cucina, se non peggio. Per averne consapevolezza, non c'è bisogno d'esserne stato fin da bimbo informato da chi aveva anche bazzicato cucine commerciali, né è necessario avere praticato con applicazione, per qualche tempo, un po' di cucina familiare. 
Quel maître è quindi un volgare imbroglione e il suo ristorante uno tra gli innumerevoli in cui oggi, a qualsiasi livello di spesa ci si collochi, si pratica, nella società italiana degli ultimi decenni, uno spudorato imbonimento: lo spaccio del cibo. 
Del resto, di cibo e della sua preparazione, se n'è parlato tanto in simulata punta di forchetta, se ne parla ancora tanto, anche se, tra la gente che rincorre gli andazzi, il tema è adesso passato tra i démodés. C'è addirittura chi, dopo avere cavalcato l'onda, ora ostenta distacco, se non disdegno. Nessun dubbio in proposito, dunque: prodotta ad arte o no, l'ammuina cela la truffa. Sempre. E appena si comincia a sentire parlare insistentemente di qualcosa, si può stare certi che la cosa in questione è in gravissimo pericolo, perché sta per venire inghiottita dalla stupidità e da quella che si atteggia a dotta: tra le stupidità, la veramente distruttiva.
Sì, un volgare imbroglione, allora, ma come dargli torto? A governare il racconto è l'orecchio e non la voce, secondo un'ovvia osservazione di Italo Calvino. A governare la qualità del cibo è la domanda, non l'offerta. Se, come ha scritto un acuto interprete delle dinamiche sociali della modernità putrefatta, anni fa era difficile mangiare male a Firenze o a Roma, e Apollonio aggiunge, era ancora più difficile a San Vito lo Capo o a Bagheria, mentre ora, nei medesimi luoghi, è difficilissimo, quasi impossibile mangiare bene e, praticamente, ovunque in Italia, la colpa non va data ai ristoratori, ma alla clientela e, ancora più, a quella clientela che ostenta competenze.
Nel caso del pesce, al di là della capacità di farlo interagire con quattro dei cinque sensi (vista, olfatto, tatto, gusto), è vero, incontrovertibilmente vero, come simulando dolore dice quel maître, che, al pari di bimbi e bimbe incapaci di servirsi delle posate o, al limite, delle mani, la stragrande maggioranza di coloro che pretendono di mangiare il pesce, dicendosene addirittura intenditori, pretendono di farlo senza nemmeno sottoporsi alla piccola fatica di imparare a conoscerne, appunto con i molti aspetti e i molti sapori, le variate ma sistematiche anatomie, per saperlo trattare, ove capitasse di trovarselo sopra un piatto.
C'è, in questa faccenda modesta (ma modesta, poi?), l'immagine emblematica di una circostanza generale della società italiana contemporanea, in molte se non in tutte le sue manifestazioni culturali. Questa non è infantile. Meglio, infantile purtroppo non è più. È rimbambita, per decrepitezza, e moralmente pensionata. Vive in un ospizio ideale. Vuole sul piatto la sola cosa che sa portare alla bocca con il minimo impegno: e sono già chiari i segni che presto pretenderà d'essere letteralmente imboccata. Vuole roba a brandelli mischiata a uno speziato semolino e lo chiama cuscus. Del resto, il pesce, intero e di tutte le dimensioni, anche il piccolo e saporitissimo, non sa più cosa sia.
Ed è così che frotte di volgari imbroglioni praticano i loro imbrogli, dicendo al tempo stesso e se provocati parole di verità, con la serena coscienza di chi, ai buggerati, fornisce appunto ciò che i buggerati più desiderano: d'essere giulivamente tali.    

3 agosto 2019

Piazza Andrea Camilleri, secondo Umberto Eco

Pare che a Palermo sia cosa fatta. Via Emerico Amari costeggia sul lato Sud-Est piazza Ruggero Settimo, incrocia via Roma e termina sul porto, aprendosi in uno slargo. Ebbene, quello slargo diventerà o forse è già diventato (Apollonio poco si intende della materia, nei suoi aspetti ufficiali) piazza Andrea Camilleri.
La scomparsa dello scrittore empedoclino ha dato a tanti l'occasione d'esprimersi: un mare di schiamazzi viscerali e molte irragionevoli enormità. Tra le enormità, anche le comiche. Tale la proposta di intitolare una piazza a Camilleri in ogni comune d'Italia. Palermo fa da mosca cocchiera. 
Non molto tempo fa, un Umberto Eco sardonicamente presago aveva proposto, in una sua (auto)ironica Bustina, "una legge che proibisse di intitolare una strada [o, ovviamente, una piazza] a chi non fosse morto da almeno cento anni".
Utopia, certo. Ma bella utopia. Ancor più che giusta, ove fosse stata adottata, la misura sarebbe stata sana, infatti, e una decisione come la palermitana, contrastandone nei fatti lo spirito nobile e distaccato, dice quanta furiosa insania, anche in simili quisquilie, ci sia oggi nel modo con cui ci si conduce.

[Un paio di giorni dopo: ecco ancora una prova del modo con cui la nazione rispetta il pensiero e onora la memoria dei suoi uomini migliori. Una costante è l'attitudine a far le nozze con i fichi secchi.] 

15 giugno 2019

Linguistica candida (50): Termini grammaticali

Da secoli, se non da millenni, un discorso eticamente prescrittivo e teoreticamente tassonomico e tautologico assorbe per intero o quasi il pubblico interesse per la lingua. In tale discorso, per ogni (presunta) cosa della lingua, c'è (o dovrebbe esserci) un termine definitorio che, dicendone la natura, dice a cosa serve e, dicendo a cosa serve, ne dice la natura.
La spiegazione grammaticale consiste così nel ribadire, con variate perifrasi ed evocazione di esempi, cosa si pretende che, designando la cosa, quel termine voglia dire. Si prenda il caso esemplare dei dimostrativi. Aggettivi o pronomi che siano, sono quegli elementi della lingua, si legge, che servono per indicare e con i quali "il parlante accenna, quasi con gesto manuale, a un essere o a un oggetto, determinandone la collocazione spaziale o temporale". A dirlo, come si intende, è già il termine dimostrativi con cui li si designa. A dirlo, in altre parole, è il loro stesso nome.
Così prospettati, i termini grammaticali si mostrano inopinatamente simili ai nomi propri parlanti che ricorrono talvolta negli scritti d'invenzione. La grammatica pullula in effetti di termini che funzionano come nomi parlanti e, davanti al mistero della lingua, con la sua terminologia parlante essa è forse solo un'acuta manifestazione di un anelito umano, troppo umano: quello alla motivazione delle parole.
Non basta. Alle definizioni grammaticali non manca mai un briciolo di verità, come, per via di narrazione, succede ai nomi parlanti letterari. Perciò, esse non sono degradabili e, nell'ambiente della cultura, permangono intatte da secoli e secoli, si può dire, inquinandolo definitivamente. Per essere tenute come veritiere, le tautologie non necessitano infatti di prove sperimentali, con un eventuale ricorso alla realtà: a quale, poi, se la realtà, in tale caso, è la lingua? Così, la realtà che descrivono è contenuta nei termini medesimi: auto-sufficienti e auto-evidenti. I termini grammaticali sono insieme il nome e la cosa. Cos'è un nome se non un nome? Cosa una congiunzione se non una congiunzione?
In una prospettiva morale, questo carattere rende le definizioni grammaticali pericolose e rende pericoloso, per un autentico avanzamento delle conoscenze linguistiche, chi, più che propalarle (cosa non necessaria), ne cura incessantemente la manutenzione sociale, proponendole in un millenario novero di persistenti e irrinunciabili luoghi comuni della civiltà.
Proprio come accade con il luogo comune, il briciolo di verità tautologica contenuto nella definizione grammaticale accontenta infatti chi non vuole perdere tempo a pensare e obnubila tutti gli altri. La circostanza riguarda la lingua, come àmbito dell'esperienza umana: quindi una materia, si potrebbe dire, di scarso rilievo, se non completamente irrilevante, tanto dal punto di vista teoretico, quanto da quello etico. 
Vicende in cui tautologie e luoghi comuni hanno intralciato ed intralciano l'avanzamento critico della conoscenza e lo sviluppo morale delle società umane si sono prodotte e si producono incessantemente in domini certo più importanti, ma in cui perlomeno si sa bene, tra chi sa distinguere, che le mezze verità prosperano e che sono più perniciose e difficilmente estirpabili delle aperte menzogne. 
Ciò naturalmente non accade o accade molto poco ormai in riferimento alla lingua, una volta estintasi, come si è estinta, la breve stagione novecentesca di una linguistica non solo come disciplina sperimentale, ma anche e congiuntamente come riflessione critica sul suo oggetto e sugli esseri umani. 

25 maggio 2019

Lingua loro (41): "Prodotto", "sottomissione", "popolare" (v.)

"In particolare, in caso di sottomissione/aggiornamento di un prodotto, è consigliato popolare i seguenti campi...": ad Apollonio, il suo alter ego passa questo minuscolo brano di prosa burocratica. Lo fa con una smorfia amara e pensando di sbigottirlo. 
Esso è contenuto, afferma, in una comunicazione inviatagli dall'istituzione accademica italiana presso la quale presta il suo servizio. Questa vuol giustamente sapere cosa, quanto a ricerca scientifica, egli abbia combinato negli ultimi anni. E vuol saperlo, com'è ormai consuetudine, nei modi e secondo un formato compatibile con le macchine.
Lungi dal dirsene turbato, Apollonio invece sorride, anche dello sconcerto del suo alter ego. Prende inoltre al balzo l'occasione per dare un modesto segno di vita ai suoi due lettori, mettendoli a parte di osservazioni estemporanee e peregrine occorse nel séguito del privatissimo confronto.
Di produzione scientifica, Apollonio ha letto e ha sentito parlare da quando appunto l'alter ego (che è ormai un presbitero quasi in uscita) cominciò a frequentare l'angusto ambiente in cui ha trascorso l'intera sua vita attiva (se tale si può dire), prima come novizio, poi come professo. Di conseguenza, trova coerente prodotto. È vero: olezza grevemente di azienda e non si capisce perché, in società libere e complesse (come si millanta siano le migliori attuali), tutto deve essere o parere conforme al modello aziendale. Ma, per via di un pensiero non solo unico ma globale, non da oggi a nidori siffatti si sono dovute accostumare le narici di chi da giovane pensava d'essersi votato alle silenziose polveri delle biblioteche, agli acri effluvi dei laboratori, ai freschi zefiri dei siti archeologici e così via.
Non meno gustoso, anche se sopra una scala locale, è il caso di sottomissione. Nel modo più pacifico, meglio, da imbelle, Apollonio si dichiara anzitutto irriducibilmente renitente o, per dirla con una parola francese che casca a fagiolo, insoumis. Ma ci si pensi: parole diverse come, da un lato, proposta (o presentazione, o ancora, nel caso specifico, inserimento), dall'altro, sottomissione rendono da tempo agli italiani il loro buon servizio, distinguendo atti e attitudini diverse. Essere in grado di fare differenze è sempre stato segno, se non di ricchezza, certo di nobiltà: una nobiltà minore, magari, ma sempre una nobiltà. Ci si sta rinunciando, involgarendosi, a vantaggio di un calco dell'inglese submission. Di submission, si sta importando anche la polisemia. Si è insomma presa la via del meno e abbandonata quella del più. Il gesto è di lampante sottomissione, nello stretto valore che la parola ha ancora in italiano e non in quello esteso che le si sta servilmente imponendo.
Sotto popolare (come verbo, si badi bene, non come aggettivo), c'è infine populate, verbo inglese del gergo informatico, evidentemente sortito, con il suo valore specialistico, da una metafora. Apollonio non è ferrato in materia ma, dagli usi che ne ha udito fare, gli è parso di intendere si riferisca al riflesso che, compilando delle tabelle elettroniche, l'inserimento di un valore in una casella ha sull'automatico riempimento di (numerose) altre caselle correlate, per via di un calcolo. L'effetto visivo rende facile conto della metafora: spazi vuoti si colmano, d'improvviso e come per vegetazione spontanea. Popolare è dunque anch'esso un calco, con questo valore, e suona sottilmente comico. Ma, nel caso specifico, non è ciò che importa. Maggiore rilievo ha il fatto che, con la sua aria da (indispensabile) tecnicismo, popolare stia prendendo il posto di verbi comuni e appropriati, come compilare e riempire, evidentemente non più percepiti come tali. I "campi" che andrebbero "popolati" e cui il destinatario della comunicazione è invitato a prestare la sua attenzione (e si osservi il minacciosamente eufemistico è consigliato: questo, ragionevolmente, di stretta produzione locale) non sono certo tra quelli che, inserito un valore in una casella, dovrebbero "popolarsi" automaticamente. In uno di essi, per esempio, del "prodotto" "sottomesso" va inserito l'abstract: una sintesi, un riassunto. Quindi, in linea di principio, un testo variabile né esito di un calcolo. 
Un'osservazione del genere, come capita sovente alle pedanti, rischia però d'essere poco penetrante e di non cogliere il vero valore del dato. Forse, dietro quell'uso di popolare c'è infatti più di una sciatteria lessicale e di un'estensione inappropriata. C'è l'insinuante idea che i "prodotti" ideali da "sottomettere" debbano essere talmente prevedibili, talmente meccanici e ripetitivi, che, fatto il riassunto di uno, il medesimo riassunto potrà "popolare" automaticamente la casella del riassunto di ogni altro.
Ecco. Talvolta, a dire a qual punto sia la notte, basta una sola frase, meglio se meramente accidentale. Anzi, è quasi sempre così, come con il lapsus. Per sorriderne, sorridendo di se stessi (perché nessuno allo stato della notte in cui si trova può dirsi estraneo), è indispensabile non illudersi che, a qualsiasi punto sia la notte, a essa seguirà un'alba. E questo monito morale è venuto finalmente utile ad Apollonio per consolare, licenziandolo, il suo fin lì sconfortato alter ego.

19 aprile 2019

Linguistica candida (49): Realtà della lingua

Anche di ciò s'è detto (e più volte) in questo diario e se ne dirà, forse, fin quando il numero dei suoi frustoli crescerà. È una ferita aperta della riflessione sulla lingua. Succede sovente che ci mettano il dito a casaccio non solo semplici passanti, che al massimo quanto al tema hanno orecchiato qualcosa, ma anche reputati chierici che, dei termini della questione, dovrebbero avere chiari i contorni e che invece, di solito, la buttano anche loro in caciara, nel medesimo mucchio della vieta faccenda del rapporto tra lingua e realtà.
Non c'è argomento più superficiale, infatti, di tale rapporto: perciò pare il più profondo e meritevole di speculazioni. Le incursioni avvengono da ogni parte né c'è da menarne scandalo. La lingua è di tutti e non c'è nessuno (nemmeno Apollonio, come benevolmente tollerano i suoi due lettori) che non sia autorizzato ad esprimersi in proposito. La metodica riflessione sulla lingua è d'altra parte l'impietosa palestra in cui s'esercitano pubblicamente la striminzita intelligenza e l'esorbitante stupidità della (migliore) umanità.
Va così con tutti i misteri dell'esistenza umana. Tra essi, la lingua non è certo il minore. Orbene, tocca qui ripetere che "arbitraire du signe" e rapporto tra lingua e realtà non sono questioni che si toccano, perché, qualsivoglia idea si preferisca avere sul secondo, resta intatta l'osservazione (sì, l'osservazione e non la speculazione) che fonda il primo.
Una volta stabilito che "signe", lungi dall'essere qualcosa che sta per qualcos'altro, consiste precisamente nel rapporto tra un "signifié" e un "signifiant" e una volta accertato che l'espressione umana è segnica esattamente in tali termini, che, in altre parole, è un processo sistematico di incessante produzione di rapporti siffatti, per cui in essa c'è un "signifié" solo in quanto correlato con un "signifiant" e c'è un "signifiant" solo in quanto correlato con un "signifié", con "arbitraire du signe", secondo Ferdinand de Saussure, che per primo disse del fenomeno con precisione, s'individua una proprietà specifica di tale rapporto. Pur essendo strettamente determinato dalla prospettiva sistematica e processuale, fuori di tale prospettiva, esso non ha infatti nessun tipo di motivazione.
Niente da spartire con la convenzionalità nella designazione delle cose con cui l'"arbitraire du signe" viene quasi sempre se non scambiato, certo emulsionato. Tale confusione finisce per farlo diventare solo una sciocca e inutile variante della posizione detta nominalista in una delle diatribe più futili e celatamente persistenti, proprio perché più sterili, che il pensiero umano abbia mai concepito. Con il pretesto di chiarire quale sia il rapporto tra lingua e realtà, essa impedisce infatti d'intendere qual è la realtà della lingua.

8 marzo 2019

Intolleranze (11): 'Noi', in correnti volgarizzazioni della scienza

"Why only us", promette di spiegare, in materia di lingua e di evoluzione, un libro firmato da Robert C. Berwick e Noam Chomsky, comparso ora è un triennio e prontamente tradotto anche in italiano. Apollonio dirà forse altrove quanto le spiegazioni specifiche l'hanno convinto. Qui gli preme soltanto osservare il 'noi' di quel titolo. Si tratta di un filo capitale per la tessitura del testo nella sua interezza e il rilievo che gli assegna il trovarsi in copertina non è per nulla immeritato né lo è quello che ne fa la parte significativa di un nome proprio, per via della funzione onomastica che un titolo ha rispetto all'opera che designa.
'Noi' si riferisce ovviamente ai due autori, prima persona dell'atto enunciativo, ma non esclusivamente a essi. Si badi bene: in astratto, ciò sarebbe anche possibile. Solo per ragioni contestuali (pragmatiche, dicono i manuali di linguistica), non è questa la lettura che si affaccia immediata nella mente di chi prende in mano il libro per la prima volta e non viene raggiunto o raggiunta dal dubbio che, sulla base di un titolo siffatto, potrebbe trattarsi di un'opera in cui gli autori dicono specificamente di se medesimi.
Chiunque si orienta invece senza incertezze verso un'altra lettura, peraltro felice: in quel 'noi', inclusivo, c'è anche lui o lei, che, rispetto al testo, nell'atto di leggerlo, è seconda persona. E con la sua presenza, quella di tutti e tutte coloro che possono fungere da soggetto di una costruzione copulativa il cui predicato sia un nome positivamente marcato quanto al tratto [± umano] (per adoperare un vieto arnese dell'analisi componenziale del significato lessicale).
Ebbene, ci si faccia caso, l'uso di un 'noi' siffatto è stigma di una letteratura volgarizzatrice di (presunte) verità scientifiche relative all'umanità. Inclusivo e umanitario, 'noi' è la marca non solo di uno stile, ma forse di un vero e proprio genere. Naturalmente, non tutti i libri che aspirano a fare parte del genere in questione portano tale stigma in copertina. Tutti ne sono però intessuti, perché tutti, in fondo, parlano di 'noi'. 
L'autentico discorso della scienza tiene il suo oggetto in terza persona o, per dire meglio, seguendo la nota sistemazione che alla persona come funzione della lingua diede Émile Benveniste, lo tiene come "non-persona". Naturalmente, non è solo il discorso della scienza a trattare così il suo oggetto, ma certamente è quello in cui la prospettiva quasi si impone come dirimente criterio metodologico, oltre che come raccomandazione se non d'igiene di pensiero, certo di eleganza. In un'argomentazione che è tanto più credibile, quanto più procede con distacco, ha del resto da prevalere la funzione referenziale (per dirla con Roman Jakobson). 
Con il 'noi' inclusivo e umanitario, invece, la volgarizzazione scientifica corrente ha certo per oggetto un po' di non-persona, in stabile emulsione però non solo con la seconda persona, ma anche con la prima. Nel discorso che ne discende, ci sono dunque più delle ineliminabili e, di conseguenza, tollerabili tracce di quelle funzioni emotiva e conativa che ogni testo, per il fatto stesso d'essere stato enunciato, non può non trascinare con sé. 
Testualmente, la volgarizzazione scientifica che procede a forza di 'noi' ha insomma qualcosa da spartire tanto con il messaggio pubblicitario (e, in genere, con la parola dell'imbonitore), per via dell'incidenza della funzione conativa, quanto con i diari intimi correntemente esibiti nelle reti sociali, per via dell'incidenza della funzione emotiva. 
Sono precisamente i caratteri che la rendono discorsivamente intollerabile ad Apollonio, come, anche senza condividere tale repulsione, i suoi due lettori egli spera comprendano.


3 febbraio 2019

A frusto a frusto (121)


Al destino, inesorabile, non fa difetto una feroce ironia: come un labirinto, lascia infatti a ciascuno libertà di scelta bastevoli a maturare la convinzione, tanto più penosa, quanto più vera, d'essere personalmente incapace di evaderne.

30 gennaio 2019

A frusto a frusto (120)



Gli errori sono già stati commessi tutti e da gran tempo. Farne di nuovi è un'illusione. Se ne può solo ingigantire la taglia.

6 gennaio 2019

Lingua loro (40): Posizione

Nell'espressione di coloro che spingono la lingua del sì verso il suo futuro non c'è più posto per posto. O perlomeno (e più precisamente) per quel posto cui l'ideologia della piccola borghesia nazionale (soprattutto, ma non solo la meridionale) aveva concesso, fino a pochi decenni or sono, grande posto, oltre che valore da feticcio, quanto alla riuscita di una vita personale. 
Posto: "Impiego, ufficio che costituisce l'occupazione abituale e da cui si traggono, in tutto o in parte, i mezzi di sostentamento", recita il Vocabolario on line dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana. Trovare un posto, anzi, con articolo determinativo come marca di una classe, se non come stigma d'antonomasia, trovare il posto era coronamento e apoteosi di una giovinezza ben spesa, magari alla ricerca di una valida raccomandazione. Ed era premessa indispensabile per l'accesso all'età adulta, con matrimonio, paternità o maternità, acquisizione di un tetto e così via come accessori: in quanto tali, tutti garantiti, tutti resi possibili dal perno del posto, soprattutto se fisso.
Troppo pesante, com'è facile intendere, il fardello di implicazioni socio-culturali che un posto così inteso aveva da portare (ancora di più se fisso) quando, pochi anni or sono, s'è trattato di resistere all'attacco della fresca e mobilissima posizione: qualcosa che, se ti va bene e riesci a prenderla, devi sempre essere pronto a cambiare, se non vuoi passare per anchilosato, e che mantenere comporta abilità da provetto equilibrista. 
Posizione è dunque la parola giusta per lo stato dell'attuale vita sociale. Ovvio che rubasse il posto a posto nella comunicazione d'oggidì. Questa chiede infatti incessantemente ai suoi destinatari di mettersi nella giusta posizione per prenderla in quel posto. 
Lo scontro che, in quattro e quattr'otto, ha visto posizione guadagnare posizione dopo posizione e infine sbaragliare posto non s'iscrive d'altra parte in una guerra civile. Così potrebbe pure parere: parola italiana contro parola italiana. Ma le apparenze ingannano. Si è trattato infatti d'un episodio, tra gli innumerevoli, di un'invasione straniera. Quella a proposito della quale s'odono gli strepiti degli xenofobi, si ponga, contro /lō'kāshǝn/ (trascrive così il Webster's New Collegiate Dictionary). Improbabile che, a quest'ultima, l'uso italiano sostituisca locazione, come calco. A /pǝ'zishǝn/, perché di ciò in effetti si tratta, l'uso ha invece rapidamente sovrapposto posizione, proprio come calco. E posizione ha preso posizione, indisturbata, in scritti e discorsi. Dà infatti a essi il giusto aroma up to date, senza fare scandalo, ben camuffata com'è sotto panni italiani. 
Un esempio a casaccio. In una lettera circolare d'informazione, persino l'un tempo vigile Associazione degli storici della lingua italiana (vi militano peraltro non pochi illustri accademici della Crusca) non si perita di scrivere di "un bando per una posizione di assistente di ricerca": prona? Non è da escludere. 
Come si vede, si tratta esattamente della posizione in cui si trova ormai sepolta la salma illacrimata dell'italico posto, calpestato, com'è stato, da un tallone straniero, vilmente dissimulato sotto false apparenze.  

1 gennaio 2019

A frusto a frusto (119)





Chissà se a un tempo riluttante a fare promesse si può almeno chiedere di non compiere tutte le sue minacce.