"Viviamo tempi stralunati: pensate che un concetto mitologico come «fine del mondo» è diventato materia di calcoli, progetti, apprestamenti scientifici; è misurabile, è «vero»". La sortita di Giorgio Manganelli ha più di trenta anni e già allora valeva da constatazione, non da profezia. Come dire che i segni del morbo (se di morbo si tratta) erano già palesi, per chi sapeva vederli. Il passo viene da uno dei corsivi raccolti nello spassosissimo e postumo Improvvisi per macchina da scrivere.
Come spesso dalle parole di quell'acuto osservatore, l'immagine che sortisce è comparabile con quelle che illustrano ambiguità percettive. Se la "fine del mondo" passa da allora e ormai in modo conclamato per "vera" è perché il mito s'è fatto scienza (circostanza da deprecare, sorridendo) o perché la scienza s'è fatta mito (circostanza di cui sorridere ma con più di un filo di angoscia)?
Consola Apollonio che l'uno e l'altro corno dell'insolubile dilemma possano farsi occasione di un moderato, ragionevole buonumore. Tanto più ragionevole, quanto più l'ipocondria sulle umane sorti pare essersi fatta andazzo e, ora che i giorni appropriati si avvicinano, se c'è un augurio (e un invito) che questo fioco diario continua a fare ai suoi due lettori è di tenersi lontani dagli andazzi. Di non finirne consapevoli vittime, certo. Ma, con cura ancora maggiore, di non impegnarvisi come inconsapevoli carnefici.
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