28 dicembre 2021

Perché e come vs. come e perché

Come si sa, il web è una gigantesca pignatta in cui sobbollono trite idee ed espressioni stracotte. Di tanto in tanto, ne torna a galla una e c'è chi la pesca e la espone, con la certezza che qualcuno la sentirà fresca e croccante, come d'altra parte lui o lei la immagina. E approverà. E itererà l'esposizione.
Torna a galla lo pseudo-Nietzsche di "Wer ein Warum hat zu leben, erträgt fast jedes Wie" ('Chi ha un perché per vivere sopporta quasi ogni come') e Apollonio coglie l'occasione per osservare (ma certo qualcuno prima di lui l'ha fatto) che la massima, peraltro semi-apocrifa, suonerebbe oggi molto più rivelatrice se se ne rovesciassero i termini.
In effetti, è chi ha un come per vivere che sopporta ogni perché.

22 dicembre 2021

Bolle d'alea (33): Bontempelli

"OTTIMISMO. Il piacere fisico più grande e pieno (nessuno ci fa caso: provateci) è respirare. Il piacere spirituale più grande è pensare. Due operazioni che l'uomo non ha bisogno di procurarsi, e che non interrompe mai (neppure nel sonno): lo accompagnano di minuto in minuto fino all'ultimo, stanno a fondamento dell'intera vita. E sono due piaceri che si fanno più perfetti con l'accorgersene. (Ma chi mai se ne accorge?)".
Questa nota di Massimo Bontempelli è molto pertinente nella temperie che si sta attraversando. Respirare e pensare producono in effetti un piacere che Apollonio, ottimista senza deflessione, augura diventi consapevole gaudio in chi gli presta la sua benevola attenzione.

10 dicembre 2021

A frusto a frusto (133)



Perdere la testa diventa non di rado una pubblica virtù. Quando capita, lo sforzo di conservarla va correlativamente compiuto come rigoroso vizio privato. Chi lo ignora e non si conduce di conseguenza è tra coloro che hanno appunto perso la testa.

26 novembre 2021

Linguistica candida (58): "Tutti, nessuno, mai, sempre..."

In certe sue private conversazioni, Maurice Gross (saranno tra pochi giorni venti anni dalla sua morte) diceva che tutti, nessuno, mai, sempre e simili non dovrebbero fare parte né dell'espressione scientifica né della forma mentis del linguista. 
Erano i tempi (peraltro mai trascorsi del tutto) in cui capitava di udire l'ultimo fantaccino dell'armata dei credenti nella Grammatica Universale lanciarsi in fantasiose generalizzazioni, sul fondamento di osservazioni sporadiche e spesso di seconda o di terza mano. La raccomandazione potrebbe essere estesa per qualificare modi di esprimersi e di pensare di chi va giudicato ragionevole, in ogni regione dell'esperienza umana. 
Forse Maurice Gross si sbagliava. In fondo, anche il suo era un mai. Ci sono tuttavia circostanze, nella storia di una disciplina, come nella vicenda di ciascuno, in cui la provocazione di un errore serve a strappare, sommuovendola, la coltre piatta e banale del conformismo. 


Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (29): Limiti all'esposizione


Al buon vecchio criterio di non esporsi al di là del limite che rende palese la propria ignoranza, va aggiunto quello, più stringente e di ben più difficile applicazione, di non farlo al di là del solco oltre il quale si attesta irrefutabilmente la propria idiozia.

[Questo diario in pubblico infrange talvolta il primo criterio, con regolarità il secondo.]

14 novembre 2021

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (28): Ragion d'essere e di apparire


Nella sfera morale, non differentemente dalla materiale, la sfida della conoscenza consiste nell'ipotizzare che ciò che è o appare abbia ragion d'essere o di apparire. Opinare se meriti di essere o di apparire è vano e perverso. Va invece descritto come meglio si può per provare appunto a coglierne la ragion d'essere o di apparire. Semplice o complessa, ammesso questa sia, difficilmente appare.

11 novembre 2021

Linguistica candida (57): Humboldt e Saussure (e Kraus)

"Alle Sprachformen sind Symbole, nicht die Dinge selbst, nicht verabredete Zeichen, sondern Laute, welche mit den Dingen und Begriffen, die sie darstellen, durch den Geist, in dem sie entstanden sind und immerfort entstehen, sich in wirklichem, wenn man es so nennen will, mystischem Zusammenhang befinden" [più o meno: "Tutte le forme linguistiche sono simboli, non le cose in se stesse, non segni convenzionali, ma voci che, per lo spirito in cui sono nate e continuano a sorgere, si trovano in reale, se così si vuole dire, mistico collegamento con le cose e con i concetti che rappresentano"]: sono parole di Wilhelm von Humboldt. Con altre di altri autori, fungono da "Motto" in Die Sprache di Karl Kraus, dove Apollonio le incrocia.
Alla disincantata, a tratti feroce razionalità con cui Ferdinand de Saussure guardò la lingua è naturale pensare che, così come esse paiono, sarebbero suonate urticanti. E che in effetti siano suonate tali, se a esse è mai accaduto di finire sotto gli occhi del ginevrino (non per la mediazione del poligrafo viennese, com'è ovvio anche per ragioni cronologiche). 
Humboldt era morto da quasi venticinque anni, quando Saussure veniva al mondo. Ed era inoltre nato in tempo per respirare tanto i promettenti zefiri quanto i devastanti venti di tempesta che, con l'intermezzo di qualche intempestiva bonaccia, spirarono in Europa negli ultimi decenni del Settecento e nei primi dell'Ottocento. 
Saussure visse invece proprio i decenni che valsero al diciannovesimo secolo la qualificazione di "siècle bête" (chi la propose non sapeva cosa avrebbe riservato il futuro, quanto a bêtise...) e morì giusto in tempo per non vedere il primo baldanzoso atto autolesionista con cui l'Europa cominciò l'espiazione materiale e morale (non ancora giunta a termine, come si sa) dei suoi tre precedenti secoli di avida e sanguinaria rapina globale.
In altre parole, per esercizio di intelligenza, Humboldt aveva pensieri, speranze (e forse illusioni) che, a meno di non essere idiota, Saussure non poteva nutrire e che, andando di poco avanti nel corso del Novecento, Kraus, sempre per esercizio di intelligenza, sentì come ragioni di paradossale disperazione. 
D'altra parte e restando strettamente alla lingua, i piani di scorrimento dei discorsi del tedesco e dello svizzero erano differenti. Non necessariamente complementari, si badi bene: qui non si professa l'irenismo in nessuna delle sue forme, come i due lettori di Apollonio sanno bene, e si detestano le notti in cui tutte le vacche paiono nere. 
Intendere però profondamente la differenza, tanto la storica, quanto la concettuale, aiuta a non correre verso la facile conclusione che un'espressione come quella appena riferita di Humboldt sia inconciliabile e incompatibile con la piana osservazione dell'"arbitraire du signe". Aiuta anche a ricordare che l'"arbitraire du signe" non riguarda per nulla gli aspetti simbolici, culturali, storici dell'espressione linguistica umana e che, se così viene talvolta inteso, e perché, in una notte in cui appunto tutte le vacche sono nere, esso viene ridotto a rappresentare una posizione di un vieto e inconcludente dibattito.

23 ottobre 2021

Onomastica cinematografica: "France de Meurs"

Non c'è œ nella resa grafica del cognome della protagonista del film France di Bruno Dumont (a Cannes di recente e in questi giorni nelle sale. Deserte: Apollonio incluso, due spettatori, un venerdì sera alle 20.30, in un vecchio cinema da quattrocento posti). Non c'è œ, si diceva, perché, se ci fosse stato, l'esito sarebbe stato smaccato. Già così in France de Meurs si riconosce in effetti un nome parlante, fin troppo facilmente. 
La pellicola declina con insistenza per iscritto le generalità della sua protagonista, che nell'orale è emblematicamente sempre solo France. Come se Dumont fosse preoccupato che a spettatori e spettatrici il dettaglio sfuggisse e che, di conseguenza, non cogliessero tra l'altro l'invito a rovesciare l'ordine della sequenza intorno alla preposizione: France de Meurs -> Mœurs de France, 'Costumi di Francia'.
Forse sta in questa attitudine il maggior limite di un film per altri versi con qualche pregio, che tuttavia cela appunto poco efficacemente di essere garrulo ed esplicito o, se si vuole, rivela palesemente di volere essere allusivo e implicito. E la televisione, che è uno dei temi dell'enunciato, non per mimesi narrativa pare così contagiare con i suoi modi ridondanti e grossolani l'enunciazione cinematografica.

7 ottobre 2021

Svagarsi, scherzando, con Italo Calvino (1)

Città
, significato e significante, è parola che costituisce uno dei temi d'elezione dell'espressione di Italo Calvino, come si sa. 
Nei primi anni Cinquanta, città compare emblematicamente come singolare e indefinita, più che indeterminata: ha insomma carattere di precisa vaghezza. Così nelle favole che dicono quale sia in proposito l'Erlebnis del manovale Marcovaldo. 
In quelle favole, città è vaga e visibile, forse fin troppo visibile, come insegne, semafori e vetrine e, per un contrasto che si rivela ambiguo, funghi in città. Città umana, troppo umana, per lo spirito naturale del manovale. Naturale e natura, si badi bene, con un valore molto diverso da quello oggi divenuto corrente. Ma di ciò eventualmente un'altra volta.
Venti anni dopo nell'espressione di Calvino, città si fa plurale, come è noto, e si definisce, proprio nel momento in cui interviene la qualificazione di invisibili. Può parere un paradosso. È invece la determinazione di un requisito per una definizione descrittiva: ciascuna ha il suo nome. Proprio. Una diversa Erlebnis, quella di Marco Polo, ne offre il catalogo in ordine narrativo a una sistematica speculativa. La esercita Kublai Kan, quasi sempre silente, nel suo giardino.
A margine, è spassoso come un gioco osservare che invisibili è una parola mono-vocalica, proprio perché la sintassi la vuole al plurale e la morfologia ne consegue. Così, le sue cinque sillabe contengono il medesimo apice: [i]. E sono [i] le vocali che in Ìtalo Calvìno hanno l'enfasi dell'accento e che dunque, per il loro rilievo, caratterizzano nome e cognome.
Forse, l'accidente ecciterà la fantasia di chi ha un debole per il fonosimbolismo: l'acuta altezza di [i], in funzione dell'opera e del suo autore, non mancheranno di dirgli o di dirle qualcosa. Come è a sua volta cabalistico osservare che, a livello grafico, c(ittài(nvisibili) rovescia l'ordine delle iniziali di I(taloC(alvino). 
Ma appunto nell'intenzione espressiva dello scrittore, un titolo (non solo quel titolo) era d'elezione definito, evidentemente, come definito (e definitivo: ne varietur) era il testo cui esso era apposto: un'opera chiusa. Il pedaggio fu un articolo determinativo che ad Apollonio piace di tanto in tanto immaginare si dilegui: "Città, tutte e solo quelle, Ìtalo, invisibili? E se putacaso, fuori della tua alta fantasia, città parimenti invisibili, ce ne fossero altre?"

11 settembre 2021

Bolle d'alea (32): Hugo von Hofmannsthal

"Der gute Geschmack ist die Fähigkeit, fortwährend der Übertreibung entgegenzuwirken." (Hugo von Hofmannsthal, Buch der Freunde, Insel-Verl., Leipzig 1922, p. 89)

[Più o meno: "Il buongusto è la capacità di combattere senza posa l'esagerazione". E, con riferimento a quanto si scriveva quasi in explicit del frustolo precedente, ancora una volta la prova, per Apollonio, d'essere un plagiario: non c'è infatti pensiero cui presti qui e altrove modesta espressione che non gli venga da una lettura il cui ricordo capita sia evaporato ma che ha lasciato il suo palese sedimento.] 

5 settembre 2021

Linguistica da strapazzo (48): Gonfi di smisurate sineddochi


Non è necessario avere frequentato corsi universitari di linguistica per sapere che l'appropriatezza di un atto linguistico è in funzione del contesto. Certe sortite, in certi contesti, sono "fuori luogo" (nell'aggettivo composto, luogo copre per metonimia anche il tempo e altre condizioni contestuali).
Qualche mese fa, un'affettuosa ma lontana sodale chiede via chat ad Apollonio se è incolume. L'inopinata domanda lascia Apollonio di stucco. Di norma, la sua amica è nel pieno controllo di sé e non dice cose fuori luogo. Cosa mai può averle fatto credere che un'inchiesta del genere fosse appropriata al tempo e al luogo? Apollonio aveva corso rischi di cui era stato inconsapevole? 
Apollonio vive a Palermo e, in quella mattinata, sopra Palermo s'era abbattuto un acquazzone estivo. Niente di più di un acquazzone estivo. Qualche precisazione contestuale è forse a questo punto indispensabile. 
Palermo è un agglomerato urbano intrattenuto molto male. Sia chiaro: molto male, in un modo o nell'altro, da tutti i suoi cittadini (Apollonio non si esclude) e da tutte le sue cittadine, qualsivoglia ruolo o funzione ciascuno o ciascuna abbia nella vita della locale società.
Attirano l'attenzione della cosiddetta pubblica opinione, naturalmente, le sesquipedali manchevolezze e la torpida incuria di coloro che coprono cariche o dovrebbero assolvere a funzioni pubbliche. Ma tali resoconti non sono tuttavia sempre la migliore guida nella formulazione di giudizi ponderati. Centinaia di migliaia di minuti e eventualmente meno percettibili abusi e sfaceli hanno formato e formano, stratificandosi, un irreparabile degrado complessivo. E, a Palermo, è appunto questo il caso: non c'è un solo metro quadro dell'area cittadina che non esibisca tale disdoro. 
Tra consolidata negligenza pubblica e capillari scorrettezze private, capita dunque che ci siano zone di Palermo storicamente e regolarmente soggette ad allagamenti, quando piove un po' più intensamente del solito. Quando poi l'acquazzone è particolarmente violento (da qualche tempo, nella lingua dell'andazzo, lo si qualifica come "una bomba d'acqua"), gli allagamenti possono diventare importanti: importanti, si badi bene, ma sempre molto ben delimitati. 
Ecco appunto, nella mattinata in questione una "bombetta d'acqua" era molto inegualmente caduta sopra la città. Quanto a Palermo è disposto ad allagarsi si era regolarmente allagato e, complice l'estate, sempre avara di notizie, gli allagamenti avevano trovato spazio nell'informazione televisiva, radiofonica e in rete, sotto un'etichetta complessivamente riassumibile come "Palermo allagata": una sineddoche, il tutto per una parte. 
L'avere preso il tropo come una descrizione realistica di quanto s'era prodotto era stata la ragione dell'affettuosa richiesta di rassicurazione da parte dell'amica di Apollonio, che evidentemente aveva considerato la possibilità che anche lui, da palermitano, con i suoi libri e le sue carte, fosse a mollo. 
Ovviamente Apollonio non lo era per nulla ed era addirittura contento che una pioggia un po' più insistente avesse, per dire così, ripulito un po' la pubblica via, provocando naturalmente altri problemi, con una pulizia che, come si intende, non è veramente tale ed è solo trascinamento di cumuli rifiuti da un luogo, più fortunato, all'altro, meno.  
Per quel che vale, l'aneddoto vale anch'esso per metonimia, ma in senso opposto: un caso per i moltissimi. Il modulo di "Palermo allagata", lo spacciare il tutto per una parte, anche piccola, è ormai divenuto lo standard della comunicazione pubblica, soprattutto in caso di eventi spiacevoli. Dal minuscolo al maiuscolo, non c'è fatto che, sulla sua scala, non sia presentato d'acchito come globale e determinazione, distinzione, delimitazione, esattezza non hanno più corso. Pur in relazione con fatti ben più drammatici dell'acquazzone palermitano, "Germania in ginocchio" e "Grecia in fiamme" ne sono recenti esempi estivi molto loquaci.
È in effetti uno dei tratti di un'informazione che di realmente informativo ha ormai pochissimo e in cui quasi tutto è, da gran tempo, mera letteratura, come testimonia l'uso di ogni sorta di tropo e il palese intento di provocare in chi vede, ascolta o legge l'orrore, lo spavento, lo stupore, la meraviglia. E ci sarebbe da essere felici per le persone di lettere, se non si trattasse di quella pessima letteratura che, con simile intento, ha nel bolso, nell'enfatico e nel reboante le sue qualificazioni specifiche. 
Al punto che, se c'è una cosa di cui dolersi principalmente, non è tanto della perdita del senso della realtà, quanto di quella del buongusto indotta presso chi assume i prodotti velenosi di questo procedere spudoratamente malandrino e si ritrova la testa costantemente intronata dagli scoppi di simili balle. D'altra parte, a ben vedere, buongusto e senso della realtà sono, come in una medaglia, due non separabili facce di un sentimento di misura. 
E parrà forse una ben strana e stridente contraddizione che una società che ha nel numero il suo massimo feticcio non sappia più cosa sia la misura, ma solo a chi è (colpevolmente) inconsapevole del fatto che, non solo nelle faccende morali, la misura è d'elezione un criterio qualitativo.

2 settembre 2021

Bollettino ortografico (4): Ministero dell'Università e della Ricerca e Treccani

 


Mutan d'accento...

Ancora sulla scuola

"Sogno un mondo in cui ogni adulto sia di riferimento, in cui ogni adulto senta in modo naturale il ruolo educativo, anche solo attraverso l'esempio. Un mondo in cui la scuola sia permanente, universale, distribuita, quotidiana, una responsabilità collettiva, un bene comune": un docente certamente benemerito e probabilmente intenzionato a diventarlo ancor più tra i suoi seguaci cinguetta tempo fa in rete queste parole e il cinguettio giunge alle orecchie dell'alter ego di Apollonio.
L'alter ego di Apollonio mise piede per la prima volta in una scuola il primo ottobre del 1957. Una scuola, qui si intende, vera e propria: con banchi, insegnante, quaderni, libri, lezioni, compiti e così via. Una scuola a solo un paio di decine di chilometri da quella dove come maestro passava molto malvolentieri le sue mattinate un Leonardo Sciascia che appunto ne fuggì, ma con l'accortezza di non rinunciare all'essenziale per se medesimo, appena ne ebbe l'occasione.
Da allora, sempre in un contesto scolastico, l'alter ego di Apollonio ha cambiato più volte funzione, livelli, luoghi, ma dalla scuola non è ancora uscito. Non indossa più un grembiule nero come la pece, ma quasi tutto il resto, nella sostanza, per lui è come si presentava quel giorno. 
Per venire via definitivamente dalla scuola gli manca poco, intendiamoci, e, a questo punto, spera di non farlo a piedi avanti. Sono già sessantaquattro anni e, alla fine, se il Cielo vorrà (dice), saranno sessantasei: senza una sola interruzione.
Alla scuola, a questa bizzarra invenzione moderna, a questo inestricabile grumo di costrizione e di libertà, di conformismo e di rivolta, di violenza simulata e di cura dissimulata è stato accanitamente fedele come a niente altro nella sua esistenza. Si vuole che non le sia affezionato? Non fosse per altro, perché gli ha dato da vivere. E da trascorrere il suo tempo.
Eppure, blatera sommessamente ad Apollonio, un sogno come quello di cui cinguetta l'encomiabile collega non lo ha mai avuto. Di più: dice addirittura che se l'avesse fatto, il sogno di "scuola [...] permanente, universale, distribuita, quotidiana, una responsabilità collettiva, un bene comune", l'avrebbe vissuto come un incubo spaventevole: la fosca realizzazione totalitaria, peraltro già tentata e sempre incombente, oggi più che mai, di tutto quel certo peggio che le ideologie moderne trascinarono con sé, con il tanto di discutibile buono.
All'alter ego di Apollonio, la scuola è sempre piaciuta per differenza e, confessa, gli è anche piaciuto molto, talvolta e sempre per differenza, ciò che scuola non è e quasi si impegna a non esserlo. Ritiene anzi che nella differenza nasca il valore della scuola; nel fatto che lì fuori, c'è quanto non è scuola e rende appunto la scuola relativa e non assoluta, così come la scuola rende relativo il resto. È l'autentico compito della scuola, pensa: la sospensione, l'epochè.
La scuola, insiste, avrebbe proprio tale missione: relativizzare. Ovviamente anche se stessa. E se oggi, come pare le sia addirittura imposto, diserta tale compito con comica soggezione alle pratiche e alle ideologie assolute è proprio perché (Apollonio l'osservava in un frustolo di qualche mese fa, da una prospettiva diversa), prendendo a dire scuola ciò che scuola non è e così millantando di magnificarla, se ne disperdono irreparabilmente i caratteri e in effetti la si annichilisce.

15 agosto 2021

Bolle d'alea (31): Ennio Flaiano

"Crediamo di avere un nome, ce lo ripetiamo e lo scriviamo dappertutto, ma la società ci ammonisce. Non il nostro nome le interessa, ma la nostra funzione e, in senso burocratico, la nostra posizione. Cosicché, volta a volta, noi siamo astanti, iscritti, sottoscritti, presenti, passanti, contribuenti, utenti, usufruttuari, richiamati, abbonati, associati, ricorrenti, fedeli, credenti. Siamo destinatari, mittenti, depositari, conducenti, correntisti, coniugi, parenti, acquirenti. Siamo in carica, in ausiliaria, in aspettative, in ferie, fuori posto. Brilliamo dunque sempre sotto aspetti diversi ma per motivi precisi, mai per quello che crediamo di essere in sostanza. E quando lo crediamo, eccoci allora imputati."
(Ennio Flaiano in uno scritto per Il Mondo del 23 aprile 1957, ora incluso in La solitudine del satiro, raccolta pubblicata a più riprese e la prima volta in Opere. Scritti postumi, a cura di Maria Corti e Anna Longoni, Bompiani, Milano 1988)

[Un Flaiano che pare avere letto - se fosse possibile - Edward Sapir più che Luigi Pirandello e che nota con il suo tratto satirico un fenomeno del massimo rilievo nella vita della lingua, in quella socialmente più esposta ma non solo in essa. 
A margine, una nota di anacronistica e forse transeunte attualità. Alla luce di una proposta grammaticale e ortografica che riguarda la correlazione tra numero e genere grammaticali, proposta che oggi è di tendenza e che aspira senza infingimenti a divenire norma, ecco il medesimo passaggio in una veste accuratamente neo-normalizzata:

"Crediamo di avere un nome, ce lo ripetiamo e lo scriviamo dappertutto, ma la società ci ammonisce. Non il nostro nome le interessa, ma la nostra funzione e, in senso burocratico, la nostra posizione. Cosicché, volta a volta, noi siamo astanti, iscrittə, sottoscrittə, presenti, passanti, contribuenti, utenti, usufruttuariə, richiamatə, abbonatə, associatə, ricorrenti, fedeli, credenti. Siamo destinatariə, mittenti, depositariə, conducenti, correntistə, coniugi, parenti, acquirenti. Siamo in carica, in ausiliaria, in aspettative, in ferie, fuori posto. Brilliamo dunque sempre sotto aspetti diversi ma per motivi precisi, mai per quello che crediamo di essere in sostanza. E quando lo crediamo, eccoci allora imputatə."]

12 agosto 2021

Cronache dal demo di Colono (68): Armi di distrazione di massa


Che un posto così, con le costruzioni (e che costruzioni!) a incombere sopra una derelitta striscia di sabbia, sia potuto divenire, come è divenuto, un luogo meritevole di visite ammirate da parte di frotte di italiani e di italiane (e di qualche forestiere) dice, come significativo dettaglio, di uno sviluppo dello statuto morale della nazione, nell'ultimo quarto di secolo. E lo fa molto meglio di un saggio di storia della cultura o di sociologia. 
Per metonimia, dice forse anche della qualità dei fenomeni di cultura di massa che hanno innescato, fomentato, ingigantito tale ammirazione. Sullo schermo e sulla carta, si è trattato di ben congegnate e redditizie affabulazioni capaci di suggestionare e di obnubilare viste e coscienze, anche quanto alla loro medesima stoffa.
Ne è stata impedita la percezione di un degrado che salta brutalmente agli occhi, se ci si estranea un momento e si riconquista la pulizia dello sguardo: ecco infatti uno scorcio di un povero angolo siciliano, come innumerevoli altri, violentato.
Armi di distrazione di massa, insomma, chissà se, ab ovo usque ad mala, solo parassiticamente cresciute su quel degrado o sue attive complici: in ogni caso, di esso ben consapevoli. Non resta che attendere in proposito il chiarimento e il giudizio del tempo.
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A frustolo pubblicato, un cortese lettore rimprovera benevolmente ad Apollonio la vaghezza del riferimento geografico e l'oscurità di quelli conseguenti. L'immagine che segue basterà forse a precisare l'uno e illuminare gli altri:



7 agosto 2021

A frusto a frusto (132)



Viene un momento in cui si hanno già i propri irrimediabili errori sui quali incrudelire, per occuparsi, se non con un ironico sorriso, degli altrui.

4 agosto 2021

Linguistica da strapazzo (47): "Al guinzaglio"

"Lo tengo sempre al guinzaglio", proferisce una persona durante una conversazione salottiera. Apollonio è come al solito perso dietro le sue fantasie e fa quasi per chiederle: "Chi?". Si trattiene, ma non dalla speculazione nel suo foro interiore.
Per celia o sul serio, una domanda siffatta, riflette, allungherebbe sul significato letterale l'ombra del figurato. D'improvviso, il guinzaglio smetterebbe di essere un guinzaglio e diventerebbe qualcosa cui guinzaglio può fare da metafora. 
A scatenare il corto circuito e il passaggio dal proprio al metaforico, nell'interazione comunicativa, sarebbe il pronome interrogativo chi. Con esso, di norma si chiede di esseri umani. E se un essere umano tenuto letteralmente al guinzaglio è certo immaginabile ma resta una singolare bizzarria, di esseri umani tenuti a metaforici guinzagli ce ne sono stati, ce ne sono e ce ne saranno sempre a iosa. Ovvio che il tropo prevalga.
Niente di tutto questo succederebbe invece con "Lo tengo sempre per mano". La domanda "Chi?" sarebbe  difficilmente presa per un'uscita scherzosa o provocatoria. E, letterale o figurata che fosse la mano, tutto resterebbe perfettamente coerente con quanto il pronome interrogativo chi impone di dire a chi lo proferisce. Per mano è roba umana, al guinzaglio no è la conclusione: lapalissiana.
Nel dettaglio, pare tuttavia ad Apollonio ci sia un briciolo di una nota osservazione di Roman Jakobson. Se ne scriveva qui un anno fa e non vi si ritorna, se non per coglierne un aspetto che si fa spassoso, considerata una deriva in atto nella società, non solo in quella italiana, beninteso.
A uno spropositato numero di persone è infatti venuto l'uzzolo di accompagnarsi con un cane, talvolta con più d'uno. Nei loro usi linguistici quotidiani, tali persone, con il cane o con i cani, si dicono per tropo imparentate. Non ci sarà lettore di questo frustolo che non possa testimoniare in proposito: di un cane, ci sono frotte di "papà", di "mamme", di "fratelli(ni)" e "sorell(in)e". Nella lista, non è presente la relazione filiale, ma solo de dicto e non de re. Come si sa, "di un cane", "figli" e "figlie" ce ne sono in abbondanza e nemmeno al guinzaglio, nella cruda realtà.
La quantità dei cinofili e delle cinofile è così grande da consentire a un osservatore spassionato di affermare, senza timore d'esagerazione o di smentita, che si tratta di un andazzo. E non ci vogliono sottili ermeneuti per intendere cosa esso riveli e a cosa esso si correli. Basta del resto andare in giro per paesi e città per rendersi conto che la libido procurata dal tenere qualcosa al guinzaglio oggi prevale di gran lunga su quella di tenere qualcuno per mano
Ma ecco appunto: qualcosa vs. qualcunoTenere qualcosa per mano si direbbe solo per estremo spregio di un essere umano. Tenere qualcuno al guinzaglio non si dice ancora e chissà quando si dirà, se mai si dirà, di un cane. Imponendo le sue differenze, la lingua è rigorosa. 

28 luglio 2021

Lingua nostra (12): Acchiappacitrulli (2)


Nelle Avventure di Pinocchio, il loquace nome proprio di Acchiappacitrulli spetta a una città, non a un paese (qui ci si riferisce a paese come sinonimo di nazione, di stato, naturalmente). La sua popolazione è descritta come segue: 

"Dopo aver camminato una mezza giornata [Pinocchio, il Gatto  e la Volpe] arrivarono in una città che aveva nome «Acchiappacitrulli». Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall'appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l'elemosina di un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano di farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d'oro e d'argento, ormai perdute per sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni, di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina".

Di "paese", nell'opera di Collodi, c'è invece quello "dei Balocchi", celeberrimo. E sarà per analogia che, in una gazzetta, capitava per esempio di leggere: "Nel Paese dei Balocchi, che di norma va alle urne insieme al limitrofo Paese di Acchiappacitrulli...". Una grossolanità comprensibile in quella sede.
Meno trascurabile, per lo spirito del filologo, è che il fantasioso toponimo Acchiappacitrulli abbia sì, come merita, una voce nel prezioso Dizionario dei luoghi letterari immaginari, ma vi sia lemmatizzato come "Acchiappacitrulli, Paese di.". Nella voce si legge poi che "Carlo Collodi [...] nel romanzo Pinocchio descrive con questo nome un immaginario paese nel quale Pinocchio denuncia il furto..." e, più avanti, che "Il giudice del paese di Acchiappacitrulli [...] dà ordine di catturare Pinocchio e di metterlo in prigione".  
Quanto alle registrazioni lessicografiche, Apollonio non è invece riuscito a trovarne una di acchiappacitrulli come nome comune o come aggettivo né sul Grande dizionario della lingua italiana né sul Grande dizionario italiano dell'uso. Sua insipienza? Forse: è sempre più anziano e i caratteri con cui sono composte opere siffatte non sono comodi per i suoi occhi. Sarà grato a chi lo correggerà, fosse il caso, o gli segnalerà un'opera lessicografica soddisfacente in proposito. Non va taciuto d'altra parte che una registrazione di acchiappacitrulli potrebbe mancare in tali opere perché per i lessicografi rimarrebbe un regionalismo. In effetti, esso è tale in origine: l'attestazione letteraria lo dice chiaramente. Sottigliezze che chi ha le competenze è eventualmente invitato a definire.
Ambedue gli usi menzionati, il sostantivale e l'aggettivale, sono in ogni caso ben presenti in italiano e non mancano oggi di attestazioni difficilmente qualificabili come regionali. Ecco un caso di uso aggettivale e di funzione attributiva: "Dunque sono cittadini indifesi da tutelare con sanzioni più alte. In sovrappeso e perciò più vulnerabili, tendenzialmente più creduloni, più inclini ad affidarsi al rimedio miracoloso e al prodotto acchiappacitrulli". Ed eccone uno di uso sostantivale: "A Siracusa, ci vuol poco a capirlo, di Archimede se ne fottono. Al massimo lo usano come «acchiappa-citrulli», per intitolar convegni sull'energia pulita e sulle pale eoliche". 
Si aggiunge qui un'annosa testimonianza personale. Apollonio ha vissuto luoghi un tempo desueti e tempi ormai andati e ricorda come, in quei tempi sulle pubbliche piazze di quei luoghi, arrivassero venditori ambulanti. Pratica commerciale consueta di costoro era che offrissero a titolo gratuito qualcosa di strabiliante a chi ne acquistava la mercanzia, pagandola profumatamente. Il padre di Apollonio definiva sardonicamente un acchiappacitrulli l'oggetto di quella simulata liberalità. Di acchiappacitrulli, si serviva insomma come approssimativo sinonimo di specchietto per le allodole. Si precisa ad abundantiam che non era toscano. Aveva però un autentico culto per Le avventure di Pinocchio.  
Accade così che, forse per riflesso di una pietas filiale, ad Apollonio paiano a pieno titolo acchiappacitrulli, per fare un esempio, le pubblicazioni accessorie, sovente millantate come gratuite o quasi, con le quali, non da ieri, i quotidiani allettano i loro potenziali clienti (ormai molto scarsi, va detto). Se non è vero il contrario ed è il quotidiano il velato acchiappacitrulli che serve a fare commercio del resto. È un caso tra mille, naturalmente, e nemmeno dei più clamorosi e malandrini tra le pratiche economiche, sociali, politiche oggi correnti. 
Se di acchiappacitrulli non c'è però traccia sui dizionari (così risulta ad Apollonio, lo si diceva), la circostanza complessiva acquista un'inattesa morale per chi dell'espressione prova a fare ricognizione critica. Ribadisce infatti come latitino talvolta da strumenti ritenuti affidabili per conoscere una temperie le espressioni che meglio la qualificherebbero. In effetti, i presenti sono tempi di acchiappacitrulli e lo saranno ragionevolmente vieppiù i futuri, in una città di Acchiappacitrulli fattasi ormai villaggio globale.

[L'immagine è tratta da un'edizione delle Avventure di Pinocchio, illustrata da Franco Jacovitti e pubblicata da "La Scuola" nel 1960.]

26 luglio 2021

Lingua nostra (12): Acchiappacitrulli (1)

Derubato che fu delle sue monete dal Gatto e dalla Volpe o, per essere precisi, privato che ne fu dalla sua dabbenaggine, Pinocchio corre a denunciare a un giudice scimmione la frode di cui si è fatto vittima, seppellendo le monete perché fruttificassero, dietro suggerimento e alla presenza dei due malfattori. 
Dopo averlo ascoltato, il Gorilla spedisce in prigione il burattino. Decisione ineccepibile: del misfatto porta per intero la colpa. 
Pinocchio passa in carcere quattro mesi; ne esce per un'amnistia. Vinti i suoi nemici, l'Imperatore ne ha decretata una, aggiungendola a "grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e velocipedi". 
Per approfittarne, Pinocchio si vede costretto a millantare d'essere anche lui un malandrino. Il provvedimento è destinato ai malandrini e lui, al carceriere, non era parso tale, quindi, come non malandrino, da trattenere in galera. La parola di Pinocchio gli basta però e apre le porte anche a lui. Solo quando si menziona l'amnistia il narratore ricorda a chi legge dove avviene tutto ciò: è la città di Acchiappacitrulli. 
Per il dettaglio della vita sociale che a Collodi parve pertinente evidenziare, la città di Acchiappacitrulli non è il rovescio del mondo com'è. Credono così i citrulli. È il mondo proprio com'è, soltanto rivelato a se stesso. Si parva licet..., la città di Acchiappacitrulli è come la Buna-Monowitz descritta da Primo Levi: il mondo come esso è condotto alle sue conseguenze estreme, per tragica o comica ironia. 
Delle conseguenze estreme dei modi con cui va sempre il mondo, di norma non si parla. Non è buona educazione farlo e le si lascia implicite. Ma ci sono fasi della vita associata in cui, chissà come, chissà perché, le conseguenze estreme vengono crudamente in chiaro e s'impongono come pratiche quotidiane. 
Con educazione, tra il serio e il faceto, la buona letteratura prepara all'evenienza. Chi la intende ha quindi strumenti per capire quando quei momenti si preparano. E quando sono arrivati (perché prima o poi capita), ha il modo di soccombere, dandosi il caso, come chiunque altro, ma perlomeno senza fare la figura del citrullo. Di quel citrullo che, quando le conseguenze estreme se ne stanno acquattate e invisibili, s'illude che esse non ci siano e gli pare così di vivere nel migliore dei mondi possibili.   

13 luglio 2021

"Tout se tient": Flaubert, Saussure, Meillet, Jakobson

Attribuita volgarmente a Ferdinand de Saussure e, in ambito linguistico, adoperata in realtà da Antoine Meillet (che di Saussure, come si sa, si proclamò allievo, senza mai ricevere conforto in proposito dal presunto maestro), l'espressione "tout se tient" ricorre perlomeno due volte nella corrispondenza di Gustave Flaubert: in una lettera ai fratelli Goncourt del 15 luglio 1861 e in una indirizzata a Sainte-Beuve, lunga come un saggio e scritta il 23 e il 24 dicembre 1862. Si dice qui "perlomeno", perché nulla esclude che si trovi anche altrove. Apollonio non è uno specialista. L'osservazione gli viene da una sua ormai antica, dilettevole e molto formativa lettura di una scelta delle lettere dello scrittore francese, proposta da Bernard Masson nel 1975 per folio classique, collana economica di Gallimard. 
Che "tout se tient" si sia trovato sotto una penna siffatta non stupisce. Ricorrendo a casaccio alla medesima fonte di informazione, ecco cosa Flaubert scrive a più riprese a Louise Colet, un decennio prima delle lettere che si sono citate, quindi dal cantiere di Madame Bovary: "Ce qui me semble beau, ce que je voudrais faire, c'est un livre sur rien, un livre sans attache extérieure, qui se tiendrait de lui-même par la force interne de son style, comme la terre sans être soutenue se tient en l'air, un livre qui n'aurait presque pas de sujet ou du moins où le sujet serait presque invisible, si cela si peut. Les œuvres les plus belles sont celles où il y a le moins de matière; plus l'expression se rapproche de la pensée, plus le mot colle dessus et disparaît, plus c'est beau"; poco più avanti, nella stessa lettera, "le style [est] à lui tout seul une manière absolue de voir les choses"; in un'altra lettera: "J'en conçois pourtant un, moi, un style; un style qui serait beau, que quelqu'un fera à quelque jour, dans dix ans, ou dans dix siècles, et qui serait rythmé comme le vers, précis comme le langage des sciences, et avec des ondulations, des ronflement de violoncelle, des aigrettes de feux, un style qui vous entrerait dans l'idée comme un coup de stylet, et où votre pensée enfin voguerait sur des surfaces lisses, come lorsqu'on file dans un canot avec bon vent arrière"; e ancora, per concludere: "Une bonne phrase de prose doit être comme un bon vers, inchangeable, aussi rythmé, aussi sonore". Il corsivo è naturalmente nell'originale e la qualificazione anticipa di un secolo la celebre formalizzazione che Roman Jakobson procurò genialmente della cosiddetta funzione poetica.   

9 luglio 2021

"...parce qu'il me blesse ou me séduit"

Di quanto scriveva Roland Barthes non si è sempre convinti. Sorvolando però sopra un qualche suo abuso dell'intelligenza, va detto che ebbe sortite di stupefacente efficacia. Molte a proposito di se stesso, come prove di una consapevolezza riflessiva. 
Tra queste, l'osservazione che il suo interesse per la lingua non fosse soltanto e banalmente effetto di seduzione, ma anche di ferimento. La cosa è forse altrettanto ovvia, ma solo dopo che ci si sia appunto riflettuto. 
Quando ferisce, la lingua merita perlomeno la stessa attenzione che merita quando seduce. C'è dolore a interessarsi alla lingua che ferisce, ma è un prezzo che si deve essere disposti a pagare. Sempre che, come pare appunto accadesse a Barthes, provochi diletto professare professionalmente un'attività dello spirito rivolta alla lingua.
Una disposizione naturalmente molto diversa da quella, con cui viene spesso confusa e che si può dire opposta, di chi del proprio dilettantismo nei confronti della lingua, come peraltro nei confronti di parecchio altro, capita faccia una professione.

21 giugno 2021

Caratteri (21)



Appare in ogni dove. Non dà prova così della propria laboriosità? Del proprio valore? Per nulla. Mostra semplicemente ciò che è: una malerba, una persona infestante.

20 giugno 2021

Sopra un "tardivo approdo alla cattedra"

"Non ho mai pensato che il tardivo approdo alla cattedra del professor Umberto Eco, all'età di quarantatré anni, per quanto paradossale, possa avere costituito per lui un problema": così un importante amico di Umberto Eco scrive dell'amico, in un libro comparso qualche tempo fa. È un pensiero affettuoso ed è certo un ricordo degno di fede. Ma perché qualificare come "tardivo" quell'approdo? 
Si parla della prima metà degli anni Settanta del secolo scorso e, allora, professore universitario voleva dire professore ordinario. Di professori universitari a pieno titolo non ce n'erano altri: gli altri erano "incaricati interni" o "esterni" e, al massimo, "stabilizzati". Eco prestava già la sua opera all'università da alcuni anni, appunto come incaricato. 
C'era certo chi arrivava alla cattedra prima dei quaranta anni: ma ciò accadeva raramente. Rarissimamente, c'era chi ci arrivava persino molto prima. Meno raramente, c'era chi ci arrivava dopo i quaranta anni e, talvolta, molto dopo. A occhio, si può dire insomma che, per un fresco ordinario, un'età di circa quaranta anni, l'età cioè in cui Eco fu innalzato alla cattedra, era tutto fuorché tarda. E che se a Eco accadde così, si può dire che nel suo caso si rimase nella norma.
Si obietterà però che fuori della norma era Umberto Eco. Ed è vero, verissimo. Si continuerà dicendo che a una personalità eccezionale come la sua il massimo riconoscimento accademico andasse tributato prima. E anche con ciò non si può non concordare. È del resto quanto il vecchio amico di Eco oggi vuole lasciare intendere. 
Ma di ciò che oggi si sente come vero, perché lo è umanamente, la storia se ne impipa. E c'è allora da fare una precisazione storica, perché forse di certe condizioni sociali di un tempo nemmeno troppo lontano si è già persa la memoria e c'è chi pensa che il mondo sia sempre andato come pare che vada oggi.
Si era agli ultimi fuochi, ma allora, la società contava ancora un certo numero di "corpi separati", per usare una metafora politico-diplomatica. Anche quanto all'area umanistica, l'università era ancora largamente un "corpo separato". Di cosa avvenisse all'interno delle sue mura, l'università era chiamata a rendere il minimo conto. Di cosa avvenisse fuori delle sue mura, non si può dire se ne infischiasse (non lo ha mai fatto), poteva però rimanergli a lungo indifferente. Talvolta, indifferente per sempre. Successo e fama mondani erano appunto mondani. Dentro le abbazie accademiche, ne giungeva certamente l'eco, ma spesso poco ci si badava. Talvolta, se ci si badava, era perché lo si riteneva un fastidioso rumore di fondo.
Fosse bene, fosse male che in linea di massima all'università si procedesse così non è qui in discussione. Ma non avere sempre come parametro il presente (o il senno del poi) e avere idea di come le cose andassero in passato può essere utile. 
Del resto, a dire quanto Umberto Eco fosse consapevole del modo con cui funzionavano l'università e i suoi cosiddetti concorsi sta il suo Trattato di semiotica generale. È la sua opera più accademica e certamente la più barbosa e fu pubblicata, come si doveva, in correlazione con la sua cooptazione nell'allora ancora ristretto sinedrio dei professori universitari di ruolo.

9 giugno 2021

La scuola

La scuola non è una famiglia, non è un'azienda, non è un'opera pia, non è una palestra, non è un ambulatorio, non è un movimento politico, non è un viaggio organizzato, non è il divano di un analista, non è un ciclo di podcast, non è una dottrina né un'esperienza pedagogica, non è un talk show, non è un parlamento né un consiglio comunale, non è una trasmissione culturale televisiva, non è un luogo né un sito d'incontri, non è un gruppo Whatsapp, non è la corsia di un ospedale, non è un party, non è un caso di studio psicologico, non è una rete radiofonica, non è uno stadio, non è un'audience, non è un'indagine sociologica, non è una comunità di ascolto né di recupero, non è un palcoscenico per scrittrici e scrittori rampanti, non è un portale, non è una discoteca, non è il supplemento culturale di un quotidiano, non è un'assemblea, non è una piazza, non è un cinema né un teatro, non è un circolo, non è una platea per predicatori e predicatrici morali, non è una società sportiva, non è un atelier, non è una rete sociale, non è un luogo di culto, non è un giornale né un blog, non è un pulpito, non è il target di una campagna di comunicazione, non è una tribuna, non è una loggia, non è un mercato, non è un villaggio-vacanze, non è una onlus né un'associazione di volontariato, non è un festival culturale, non è una cantina. 
La scuola è la scuola o, meglio, lo era.
Oggi la scuola è invece tutte queste cose e certamente parecchie altre. La si continua ancora a chiamare scuola per la nota inerzia delle parole. Ma in questo presente la scuola è qualsiasi cosa si voglia. O, diversamente detto, non c'è cosa che, una volta o l'altra, in un modo o nell'altro, non capiti che qualcuno dica che la scuola sia, continuando a chiamarla scuola. 
A chi chiedesse come mai, Apollonio risponderebbe, con semplicità: perché non è più la scuola. 

31 maggio 2021

La peste

L'immagine che sta in fondo a questo frustolo circola da un paio di giorni nelle reti sociali. Si tratta di una classe, Apollonio non sa di quale scuola, di quale ordine e grado. Studenti e studentesse di tale classe si sono messi e messe in posa, com'è manifesto, per rappresentarsi nell'atto di leggere un libro, lo stesso libro. 
È ragionevole che determinazione o perlomeno coordinazione della rappresentazione siano da attribuire a un o a una docente. E c'è da ritenere che lo scatto sia del o della docente e che sia opera sua il successivo invio della foto a chi, dirigendo una nota manifestazione culturale, l'ha poi resa pubblica. 
E l'ha fatto, dicendo di avere frattanto ricevuto immagini simili anche da altre "scolaresche", a corredo di una campagna di promozione di quella manifestazione. La campagna ha appunto comportato un'operazione benemerita: la distribuzione gratuita, presso un certo numero di scuole, di alcune migliaia di copie del libro nella cui lettura quei e quelle giovani simulano di essere immersi e immerse, singolarmente o a gruppi di due.
Il libro, si apprende, è La peste di Albert Camus e Apollonio non può trattenersi dal pensare che, anche con le migliori intenzioni, anche a palese fin di bene, lo scrittore francese e la sua opera non meritino di trovarsi coinvolti in siffatte ritualità e, soprattutto, nella correlata messa in scena pubblica. 
Fare circolare, dandole enfasi, un'immagine in cui ragazzi e ragazze tengono aperto tutti e tutte lo stesso libro, quasi si trattasse di un testo autorevolmente, se non autoritariamente raccomandato, e si rappresentano nell'atto di una sua improbabile lettura, può forse corrispondere bene a illustrare lo zelo del o della loro docente e il suo desiderio di costruirsi qualche giustificabile merito, può forse fare apparire "etiche" (come si usa dire oggi) le pratiche comunicative di un'encomiabile intrapresa che della cultura, si badi bene, fa tuttavia e in ogni caso commercio.  
Ma, pur come minuscola evenienza di un clima morale e civile, la riduzione della figura di Camus e del suo romanzo che inevitabilmente si accompagna a un simile e pur momentaneo allestimento pare ad Apollonio un autentico rovesciamento dei valori che scrittore e romanzo testimoniarono, in un'epoca di tragiche contrapposizioni e di dolorose battaglie, e continuano ancora a testimoniare, per una prassi della solidarietà umana capace di sentire tuttavia come sacra e inviolabile la libertà individuale.
Non c'era posa in Camus (Apollonio, probabilmente illuso, continua a pensarlo), non c'era invito a fare di un libro, tanto meno di uno dei suoi, il pretesto di un rito per una rappresentazione collettiva, anche modestissima. A ragazzi e ragazze, nei fatti e non a parole, è forse quello che oggi bisognerebbe anzitutto fare intendere:







 

29 maggio 2021

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (27)

Qual è il limite oltre il quale la ricerca di un'affermazione personale diventa sciocca manifestazione di vanità? Impossibile saperlo. Nell'incertezza, niente esibizioni, in proposito, di una volontà determinata, proclamazioni del proprio valore, fasti per i traguardi raggiunti. Non c'è merito che valga, umanamente, il dono d'una lieve disposizione naturale semmai baciata dal caso.

26 maggio 2021

Etimi a gogò

Innumerevoli ambulanti percorrono da qualche tempo in lungo e in largo il villaggio della comunicazione pubblica, vendendo, talvolta come articolo principale, talaltra come prodotto complementare, un'epilinguistica liquida composta principalmente di etimologie, affidabili o fantasiose poco importa. 
Si sbaglierebbe a menarne scandalo. L'idea che tutto ciò che è reale sia razionale fu certo effetto di un delirio da cui il pensiero si spera sia guarito. Forse solo per ottimismo, pare tuttavia ancora praticabile ad Apollonio l'ipotesi che, come osservatori consapevoli, si possano cogliere nella realtà correlazioni di un qualche interesse conoscitivo. E il florido commercio di etimi dice che c'è nella temperie una nevrotica sete di senso. 
L'ignaro pubblico che patisce di tale sete acquista da quegli ambulanti quanto ritiene possa dargli ristoro. Del resto, con le loro etimologie, costoro vendono alla loro clientela l'illusione di penetrare qualche arcano di un'espressione, spesso proprio la sua, la cui mancanza di motivazione è sentita come intollerabile e angosciosa. 
Un etimo, in virtù del suo stesso etimo, procura a chi se lo beve la momentanea ebbrezza di credere di sapere cosa diavolo stia dicendo o pensando. Di toccare finalmente quel suolo di certezze in cui la parola è vera: corrisponde cioè senza residui alla cosa. Meglio, in cui la cosa stessa è la parola e la parola stessa la cosa.
Smania comprensibile presso gente alla buona, considerato che anche chierici reputatissimi di tutte le chiese e di tutte le ideologie ne sono stati e ne sono ancora preda. 

24 maggio 2021

Måneskin e funzione poetica

Ciò che va soprattutto osservato, ora che una platea internazionale ha decretato l'eventualità di un successo oltre i confini nazionali dei Måneskin, è che l'italiano s'è accreditato come lingua compatibile con le sonorità e il ritmo del rock. 
Almeno per una serata, ovviamente. Diranno il tempo, la stoffa e il futuro della band, simpatica ad Apollonio non fosse altro che la per la fresca età dei suoi quattro componenti, se questo momentaneo risultato si consoliderà, per quello che potrà, naturalmente, o se resterà effimero, come tanti altri inesplicabili exploit nel mondo dello show business, per definizione al tempo stesso luminosissimo ed evanescente.
I Måneskin "spaccano", per servirsi di un'espressione corrente. Ciò significa che all'accreditamento dell'italiano nell'occasione ha certamente contribuito la loro presenza scenica. Anzitutto quella del loro frontman, come si dice adesso, ma anche quelle dell'altra e degli altri componenti del gruppo. 
Con quanto dicono i loro corpi sul palcoscenico, tutti interpretano in modo al tempo stesso topico e personale movenze che quanto ai protagonisti della scena del rock internazionale sono tipiche ormai da ben più di mezzo secolo e rendono riconoscibili i quattro ventenni anche a un pubblico che, anagraficamente, ha l'età dei loro nonni e delle loro nonne. 
"Rock and roll never dies" è divenuta nell'occasione del trionfo la loro peraltro non nuova divisa e, anche con riferimento al loro sound, al loro stile musicale (al di là di ogni giudizio qualitativo), in tale posizionamento ultra-generazionale, più che inter-generazionale, sta con ogni ragionevolezza un importante fondamento del loro trionfo sanremese, propiziato da un pubblico ben avanti con gli anni, come è quello della manifestazione canora nazionale. Un pubblico anziano, ma sensibile al ricordo nostalgico d'essere stato giovane e, almeno a musica, inquieto, se non ribellista. Proprio come il rock è per definizione.
A Rotterdam e sugli schermi di molta Europa, poche sere fa i Måneskin sono andati ben oltre il loro bacino linguistico, tuttavia. Ed è ovvio che le parole in italiano e il correlato "messaggio" della loro canzone, "Zitti e buoni", non possono averli aiutati o, se lo hanno fatto, lo hanno fatto molto poco. 
L'accreditamento dell'italiano come lingua compatibile col rock sopra quel palcoscenico non deve essere quindi avvenuto in riferimento al significato, forse nemmeno in riferimento al senso, se non in un senso che di semantico non ha quasi nulla. 
Deve essersi trattato soprattutto d'una compatibilità locutiva e di un "recitar cantando", per dire così, che il frontman dei Måneskin ha reso strettamente funzionale al tessuto musicale del pezzo (quale che sia la sua qualità), confutando nei fatti e in quattro minuti il luogo comune globale che in italiano si possano cantare solo opere liriche e canzoni d'amore. Insomma, mera funzione poetica.
Di rimbalzo, c'è forse da chiedersi se ciò non sia vero, per intendere cosa valga il successo dei Måneskin, anche nello stagno dell'italofonia e se quindi spiegare, a proposito di "Zitti e buoni", "cosa vuole dire il poeta" non sia solo l'ennesimo esercizio di quell'inguaribile morbo ermeneutico che in Italia si contrae regolarmente a scuola e che colpisce le migliori intelligenze.
È rock, quello dei Måneskin. Come ha perfettamente inteso, per una serata, un pubblico internazionale, cosa si vuole dicano le parole della loro canzone se non che è rock?


   

Metamorfosi taorminesi


Fu nell'ottavo secolo a. C. che i Calcidesi sbarcarono a Naxos e vi fondarono la prima colonia greca di Sicilia. Dall'alto di quella che non molto tempo dopo, fattasi anch'essa siceliota, sarebbe divenuta Tauromenio e poi Taormina, i Siculi videro arrivare certamente quegli immigrati. Chissà se li considerarono regolari. Certo è che, presto, anche Taormina si grecizzò. A tal punto da pretendere (in concorrenza con Siracusa) di avere dato i natali, secoli dopo, a Timèo, il più importante storico di quella ondata migratoria, tanto decisiva per l'antica civiltà del meridione della penisola italiana (dettο dai civilissimi colonizzatori Μεγάλη Ἑλλάς e dai Romani Magna Græcia) e della maggiore isola del Mediterraneo (Σικελία, per i Greci, o Τρινακρία).
Certo, è passato tanto tempo da allora. Non si può pretendere che nella ridente Taormina qualcuno tenga oggi memoria della lingua di quegli antichi immigrati, come però pare si sia fatto (e con onore) ancora fino a qualche tempo fa. Non c'erano però i festival culturali e di conseguenza la cultura languiva, poverina. Ora no. Ora fiorisce e se ne coglie, per esempio, questa graziosa corolla:


La si trova da qualche giorno nella rete. Fa bella mostra di sé nella presentazione della manifestazione che vi è a un certo punto nominata: una manifestazione consacrata, dicono, "alle belle lettere" (se fosse alle "brutte", non si osa immaginare cosa capiterebbe di leggere...).
Ah! Apollonio dimenticava: saputo di quel "morphos, forma", a loro attribuito, pare che gli aspri spiriti degli antichi colonizzatori, vivi anche dopo quasi tre millenni, abbiano raccolto le loro povere cose e, montati sulle navi, abbiano volto le prue lontano dalla Sicilia, dichiarando che, se con i Siculi di un tempo non era spiacevole intrattenere commerci, con Siciliani e Siciliane di adesso e con i loro festival culturali, loro, non vogliono avere proprio nulla da spartire e che, in ogni caso, non sanno proprio da dove diavolo questa ridicola barbarie sortisca. Inutili i tentativi di fermarli e di sottrarli alla convinzione che ormai, in quell'isola disgraziata, fatte salve le chiacchiere, sia tutto perduto. 

[L'immagine in testa a questo frustolo: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=33066815]

5 maggio 2021

A frusto a frusto (130)






L'insipienza è vorace e non c'è idea che, buona o cattiva che sia, crescendo in forza e popolarità, non la ingrassi. 

16 aprile 2021

A frusto a frusto (129)


Il presuntuoso sogno di essere capaci di cambiare il mondo si è mutato, ed era peraltro ovvio avvenisse, nel fosco incubo di essere addirittura in grado di mandarlo in malora. 

[l'immagine: Paul Klee, Siesta della sfinge]

7 aprile 2021

Leggere tanto, poco, nulla

Capita ad Apollonio di intercettare, ormai quasi solo virtualmente, gente che non solo legge, ma dice di sé di leggere molto e se ne vanta. Fin qui, nulla di male. Dopo l'invidia, la vanità è forse il tratto umano più diffuso e, rispetto all'invidia, più ridicolo ma meno ripugnante. 
Accade però che chi si magnifica così accompagni talvolta la manifestazione di vanagloria con note di disprezzo per chi non legge o legge poco (o, si dice, male): campione, quest'ultimo, di una forma d'umanità deteriore, meritevole di scherno e di derisione, degno d'una discriminazione ideale. La reale? Potrebbe seguire. Perché no? Non manca chi ipotizza in proposito limitazioni all'espressione o al godimento di diritti di cittadinanza: esagerazioni, naturalmente, ma, come sempre le esagerazioni, rivelatrici di modi di pensare e di attitudini forse soltanto momentaneamente repressi.
Qualche pagina, nella sua vita, Apollonio l'ha letta. Osa dire perciò di non essere completamente digiuno, nel campo. Giusto quel po' che gli è bastato per trarne vaghe cognizioni, forse mere impressioni. 
Ebbene, nei pochi libri che ha avuto sotto gli occhi, non gli è sembrato di trovare sostanziali incoraggiamenti a disprezzare chi non legge. Gli è al contrario parso che, in un modo o nell'altro, i libri che ha letto dicano che c'è un fondo insopprimibile di umanità che fa tutti e tutte simili: che abbiano letto tanto, poco o niente. Umanità né buona né cattiva. Umanità senza qualificazioni. 
I libri letti da Apollonio saranno certamente solo una piccola parte di quelli letti da coloro che dicono di sé di leggere tanto e che ritengono di conseguenza che leggere tanto, da un lato, o leggere poco o nulla, dall'altro, basti come criterio a qualificare positivamente o negativamente gli esseri umani. 
E la soluzione di ciò che pare misterioso ad Apollonio deve stare lì. Tra i tanti libri letti da costoro e i pochi capitati sotto i suoi occhi, ci saranno di certo quelli che giustificano e incoraggiano quel loro modo di condursi che egli non comprende semplicemente perché ha letto poco ed è ignorante.

6 marzo 2021

Sommessi commenti sul Moderno (28): Dell'esperimento

Or sono quattro secoli,
l’esperimento inaugurò una nuova fase della storia, che non si sbaglierebbe a definire evo sperimentale. L'esperimento fu rito non solo teoretico, ma anche etico e come tale esso è stato ideologizzato. L'ideologia dell'esperimento ha caratterizzato l’evo tanto nelle sue grandezze, quanto nelle sue miserie, e ne ha determinato lo sviluppo
In questo sviluppo, come comprese precisamente Primo Levi, ci fu Auschwitz. Il toponimo Auschwitz è qui adoperato (com’è ormai uso) in chiave tanto metonimica, quanto antonomastica. Da un lato, il luogo per ciò che vi accadde e, per sineddoche, ciò che vi accadde come parte di un tutto. Dall’altro, ciò che vi accadde come evenienza esemplare. Esemplare fu anche Hiroshima, in correlazione temporalmente stretta, oltre che sistematica con Auschwitz. Hiroshima è un altro toponimo, nell'uso appena descritto, che combina antonomasia e metonimia.
Auschwitz e Hiroshima furono traguardi per l’evo sperimentale, proprio in quanto furono esperimenti. Non importa chiedersi se tali mete furono toccate programmaticamente, perché era proprio lì che l'ideologia dell'esperimento intendeva arrivare, o perché occorsero come accidenti dell'evo sperimentale: pertinente è infatti che tali mete siano state attinte. Se lo sono state, vuole infatti dire non tanto che, banalmente, esse fossero mete potenziali, quanto che fossero latenti, pronte a farsi patenti, come sono divenute, quando ce n'è stata occasione. 
Una volta toccati quei traguardi, caso mai prima ci fossero stati dubbi, divenne lecito escludere sul fondamento di lampante evidenza che, con la modernità, l’umanità o, meglio, quella parte di essa che se n'è arrogata la guida, avesse cominciato a procedere verso una maggiore ragionevolezza.
Fu invece chiaro che, sotto pretesa di razionalità, l'evo mirava diritto verso forme di non ragionevolezza estreme e parossistiche, con riflessi reiterati se non permanenti di intolleranza, di violenza e di prevaricazione, oltre che di manifesta stupidità. 
Non è escluso, al proposito, l'ambito socio-culturale della scienza, pertinente tanto nell'esperimento di Auschwitz, quanto in quello di Hiroshima. Anche, se non soprattutto, nell'affermazione di presunte buone pratiche e di migliori principi, divenne ancora più chiaro che tabe insopprimibile dell'evo moderno e sperimentale è non potere volere (il) bene, senza fare (il) male.
Ragionevole sarebbe stato, fin dal principio, non prendere l'esperimento come rito dal valore assoluto, da mettere all'opera a qualsiasi costo. Ragionevole sarebbe stato relativizzare anche l'esperimento, come si disse di avere fatto o di dovere fare per ogni altro precedente rito. Ragionevole sarebbe stato farvi convergere ogni sguardo critico atto a determinarne le eventuali pertinenze. E ciò non solo e non tanto da una prospettiva etica, come adesso sentimentalmente capita di sentire affermare, ma anche e soprattutto da una prospettiva teoretica. Non c'è conoscenza che discenda da una sola fonte né che dipenda assolutamente da uno specifico metodo, perché metodo è anzitutto una ragionevole messa in discussione dell'unicità della via.
In tal senso, è palesemente stupido mettere in atto esperimenti in àmbiti morali, come la tempra e, si vorrebbe dire, la natura umana. Per i loro caratteri, essi si prestano male ai modelli di esperimento concepiti senza ragionevolezza. Da un lato, in proposito se non si sa già tutto, si sa abbastanza. Dall'altro, di quanto si sa non si è ancora fatto abbastanza tesoro (né è ragionevole che ciò mai accadrà) e la ricerca di nuovi presunti dati (ma "dati"?) serve a coprire, in chi li cerca, l’inettitudine a lavorare con quelli di cui si dispone, se non cose ben peggiori.