20 giugno 2021

Sopra un "tardivo approdo alla cattedra"

"Non ho mai pensato che il tardivo approdo alla cattedra del professor Umberto Eco, all'età di quarantatré anni, per quanto paradossale, possa avere costituito per lui un problema": così un importante amico di Umberto Eco scrive dell'amico, in un libro comparso qualche tempo fa. È un pensiero affettuoso ed è certo un ricordo degno di fede. Ma perché qualificare come "tardivo" quell'approdo? 
Si parla della prima metà degli anni Settanta del secolo scorso e, allora, professore universitario voleva dire professore ordinario. Di professori universitari a pieno titolo non ce n'erano altri: gli altri erano "incaricati interni" o "esterni" e, al massimo, "stabilizzati". Eco prestava già la sua opera all'università da alcuni anni, appunto come incaricato. 
C'era certo chi arrivava alla cattedra prima dei quaranta anni: ma ciò accadeva raramente. Rarissimamente, c'era chi ci arrivava persino molto prima. Meno raramente, c'era chi ci arrivava dopo i quaranta anni e, talvolta, molto dopo. A occhio, si può dire insomma che, per un fresco ordinario, un'età di circa quaranta anni, l'età cioè in cui Eco fu innalzato alla cattedra, era tutto fuorché tarda. E che se a Eco accadde così, si può dire che nel suo caso si rimase nella norma.
Si obietterà però che fuori della norma era Umberto Eco. Ed è vero, verissimo. Si continuerà dicendo che a una personalità eccezionale come la sua il massimo riconoscimento accademico andasse tributato prima. E anche con ciò non si può non concordare. È del resto quanto il vecchio amico di Eco oggi vuole lasciare intendere. 
Ma di ciò che oggi si sente come vero, perché lo è umanamente, la storia se ne impipa. E c'è allora da fare una precisazione storica, perché forse di certe condizioni sociali di un tempo nemmeno troppo lontano si è già persa la memoria e c'è chi pensa che il mondo sia sempre andato come pare che vada oggi.
Si era agli ultimi fuochi, ma allora, la società contava ancora un certo numero di "corpi separati", per usare una metafora politico-diplomatica. Anche quanto all'area umanistica, l'università era ancora largamente un "corpo separato". Di cosa avvenisse all'interno delle sue mura, l'università era chiamata a rendere il minimo conto. Di cosa avvenisse fuori delle sue mura, non si può dire se ne infischiasse (non lo ha mai fatto), poteva però rimanergli a lungo indifferente. Talvolta, indifferente per sempre. Successo e fama mondani erano appunto mondani. Dentro le abbazie accademiche, ne giungeva certamente l'eco, ma spesso poco ci si badava. Talvolta, se ci si badava, era perché lo si riteneva un fastidioso rumore di fondo.
Fosse bene, fosse male che in linea di massima all'università si procedesse così non è qui in discussione. Ma non avere sempre come parametro il presente (o il senno del poi) e avere idea di come le cose andassero in passato può essere utile. 
Del resto, a dire quanto Umberto Eco fosse consapevole del modo con cui funzionavano l'università e i suoi cosiddetti concorsi sta il suo Trattato di semiotica generale. È la sua opera più accademica e certamente la più barbosa e fu pubblicata, come si doveva, in correlazione con la sua cooptazione nell'allora ancora ristretto sinedrio dei professori universitari di ruolo.

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