31 maggio 2020

Intolleranze (12): "Borghi"



I centri abitati di provincia, piccoli e medi, spesso antichi, che fuori di poesia un dì si designavano pianamente e con schiettezza come paesi o cittadine, c'è da temere diventino metropoli, se vi si trasferirà, come dice di avere intenzione di fare per istigazione di qualche furbo che ha annusato l'affare, tutta la gente già "zotica" che da qualche tempo ha cominciato a chiamarli borghi, con comica e sussiegosa affettazione.

22 maggio 2020

Linguistica da strapazzo (45): "Abbiamo perso la generazione dei nonni..."

Non c'è morte che non sia degna di considerazione e di rispetto. Come ogni nascita, del resto. Ma non è qui questione di vita o di morte ed è invece futilissima questione di lingua, cioè di espressione e di comunicazione.
"Abbiamo perso la generazione dei nonni..." sente dire sovente e pubblicamente Apollonio da qualche settimana, per via di una vicenda di cui scrivere ancora solo un rigo suonerebbe oltraggioso per i due lettori di questo diario. 
Sotto ogni profilo correlato al contesto (o alla realtà, se qualcuno preferisce), quindi quanto a funzione referenziale, anche tenendo in conto le variazioni diatopiche dell'incidenza degli esiti letali del morbo, l'affermazione e il correlato atto comunicativo sono palesemente destituiti di ogni fondamento. Apollonio incluso, i vecchi e le vecchie ovunque in Italia erano e restano in numero altissimo, non solo in cifra assoluta, ma anche (e più indicativamente) in percentuale. La generazione dei nonni e delle nonne (per designare l'insieme figurativamente, visto che i e le nipoti scarseggiano) presidia le sue posizioni, a ranghi solo molto debolmente rarefatti. E la memoria, del cui destino una nazione sembra d'improvviso tartufescamente preoccupata, è salva (sempre che la demenza senile non l'attacchi). 
Esclusa la pertinenza referenziale, credibile è invece che l'atto prenda valore rispetto alla funzione emotiva e voglia trasmettere, secondo una modalità espressiva tipica dei funerali, una partecipazione molto sentita di chi così si esprime a proposito d'una vicenda che non descrive, ma sulla quale con quelle parole favoleggia. 
Se di favola si tratta o, come usa dire adesso, di racconto e di un racconto emotivamente orientato, diventa opportuno considerare l'atto sotto il profilo conativo, cioè in funzione di chi ne è destinatario o destinataria. Vista la manifesta infondatezza referenziale, a costoro si chiede di sospendere la loro incredulità: di "bersela", in altre parole, senza stare troppo a pensare non tanto alla falsità, quanto persino all'inverosimiglianza della favola.
E si è così al punto. Trattandosi di atto comunicativo che comporta una sospensione dell'incredulità da parte di chi lo riceve, "Abbiamo perso la generazione dei nonni..." è mera letteratura e va valutato con riferimento alla funzione poetica: messaggio che trova la sua ragione d'essere in se stesso. 
Come figura, l'enfasi è la sua cifra, ma nulla più dell'enfasi è da maneggiare con molta cautela per la confezione di un testo di buona qualità letteraria e basta poco per mostrarlo. Basta ricordare, tra i tanti altri comparabili, il caso quantitativamente esemplare di "Otto milioni di baionette", anch'esso infondato dal punto di vista referenziale e fondato invece non tanto sopra una richiesta, quanto sopra un'imposizione di sospensione dell'incredulità. Volgarità, come s'intende: l'enfasi è infatti quasi sempre marca di una letteratura molto scadente e da trivio, anche al di là delle differenze politiche tra richiesta e imposizione, tutt'altro che chiare perlomeno da un secolo a questa parte.
Proprio per rispetto dei morti, pochi o tanti che siano stati, della sguaiataggine delle enfasi bisognerebbe allora fare a meno. Sarebbe però come chiedere di tacere alla temperie ignobile di una modernità ormai putrefatta. Cioè, in fin dei conti, come chiederle di non essere se stessa.

18 maggio 2020

"Riccardino"

La forma dell'acqua, Il cane di terracottaIl ladro di merendine, La voce del violino, La gita a Tindari, L'odore della notte, Il giro di boa, La pazienza del ragno, La luna di carta, La vampa di agosto, Le ali della sfinge, La pista di sabbia, Il campo del vasaio, L'età del dubbio, La danza del gabbiano, La caccia al tesoro, Il sorriso di Angelica, Il gioco degli specchi, Una lama di luce, Una voce di notte, Un covo di vipere, La piramide di fango, La giostra degli scambi, L'altro capo del filo, La rete di protezione, Il metodo Catalanotti, Il cuoco dell'Alcyon. E per chiudere con il commissario Salvo Montalbano, adesso, Riccardino, annunciato già da un quindicennio. 
Andrea Camilleri è sempre stato un fenomeno, in più d'uno dei valori che ha la parola fenomeno: umanamente fenomenale, ma anche fenomenico, manifestazione osservabile di uno stato della lingua (letteraria) nazionale e, quanto al ceto intellettuale d'espressione italiana, della tendenza ad allinearsi ai luoghi comuni (deriva che, quando si verifica in politica, viene detta populismo).
L'alter ego di Apollonio, è stato un lettore di Andrea Camilleri se non costante, lungamente fedele e divertito, ma divertito solo fino a un certo punto. Qui, qui e qui, per chi vuole, ancora tre testimonianze, la prima risalente all'inizio di questo secolo. Un lettore sempre distante, perché convinto che lo sguardo da lontano appreso in una stagione ormai perenta di una formazione umanistica, preserva dall'appiccicaticcio di plausi zuccherosi e dalle pacchiane enfasi di apoteosi fuori misura. Anche quando tale sguardo è affettuoso, anzi tanto più quando è affettuoso, come non può non essere per via di un'infanzia e di una parte dell'adolescenza trascorsa dall'osservatore proprio nei pressi di Vigata e di Montelusa.
Per distante affetto, Apollonio vuole crederlo, come lo crede il suo alter ego: gli zuccheri e le enfasi della tardiva, sbardellata fortuna di Camilleri non potevano del resto non sembrare comici e, a tratti, proprio ridicoli al figlio di un uomo che ogni mattina sentenziava "Accuminzamu cu nova prumissa sta gran sulenni pigliata pi fissa", avendone ben donde, quell'uomo, perché attivamente partecipe, tanto in gioventù quanto più avanti negli anni, a solennissime, ventennali turlupinature ai danni di una nazione intera mandata conseguentemente a remengo. 
E, a segnalare un'adesione sardonica (sardonica, come a una sortita del genere l'adesione non può non essere), Camilleri trasferì pari pari il motto dal padre reale alla propria creatura letteraria: Salvo Montalbano. Ne ha così fatto, tra le righe, l'ammiccante portabandiera della sua poetica in atto: la poetica del tragediatore, in tal modo Camilleri qualificò la sua funzione, al suo esordio, qualificazione cui mise in séguito e opportunamente la sordina. Funzione, il tragediatore, tanto più beffarda quanto meno lo pare. E funzione lontana da quella poetica consolatoria piattamente dichiarata e dichiaratamente richiestagli per glorificarlo da una temperie conformista e ostentatamente sentimentale come la presente che, come stanno mostrando circostanze anche recentissime, non solo vuole essere spudoratamente presa per i fondelli, ma non tollera che qualcuno le segnali anche solo la possibilità che lo sia.
Dopo Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia, non c'è stata più peraltro una figura pubblica della scena letteraria e intellettuale italiana capace di andare di bolina. Si rimprovererà a Camilleri, giunto già anziano e per onesta fortuna alla fama e ai correlati agi per sé e famiglia, di avere da quel momento dedicato la giusta attenzione a garantirsi il vento in poppa?  
Con l'uscita a breve di Riccardino, si vedrà allora cosa il tragediatore, con una lunga preparazione e una premeditazione molte volte dichiarata, ha escogitato per congedare post mortem la sua popolarissima creatura, cui deve tutto a conti fatti, liberato soprattutto il campo dalle larve di alcune sue patenti velleità sciasciane e manzoniane. Le si dicono velleità a ragion veduta. Sono infatti frutti di una vena elegiaca. E l'elegia è l'opposto della consapevolezza del tragico che sta sul fondo di ogni commedia umana e che, in misure diverse, ispirò Manzoni e Sciascia. A chi vuole, una semplice misura del genere serve anche a comprendere quanto in realtà l'opera di Camilleri sia spiritualmente (oltre che formalmente) lontana da quella di Georges Simenon, anche lui autore tragico.   
La lettura del primo capitolo del tanto atteso Riccardino procurata l'altrieri in rete, come anticipazione, da Antonio Manzini promette un Camilleri autentico, non quello posticcio che la discutibile delega alla scrittura imposta all'autore dalla cecità e da esigenze editoriali aveva fatto circolare con le ultime uscite della serie del commissario. Al bravo e volenteroso Manzini e ai suoi ascoltatori non siciliani va marginalmente segnalato che filinie suona filìnie e non filinìe e Inzolia suona Inzòlia e non Inzolìa. Si sorvola, per non risultare ulteriormente pedanti, sull'accentazione di qualche infinito. Del resto, al camillerese in bocca romana si è ormai largamente accostumati: a suo modo, è spezia indispensabilmente costitutiva della burla.
Ciò che è certo (e già da un po') è che, con Riccardino, la foggia del principale elemento della soglia (per dirla con Gérard Genette) muta. L'elenco in apertura è loquace, con le sue scarse eccezioni al modulo Articolo + Nome + Preposizione (articolata) + Nome. Dopo tanti titoli costruiti insomma come nessi nominali complessi a echeggiare non di rado frasi fatte e luoghi comuni, ecco apparire, secco e misterioso, il vezzeggiativo di un nome proprio, privo inoltre di connotazioni regionali: Riccardino, appunto. Bisognerà attendere di avere sotto gli occhi il libro per intero, per provare a capire, ove non fosse apertamente spiegata dal tragediatore, una frattura così palese, così drammatica.
Il pensiero corre tuttavia liberamente a quel Riccardin (dal Ciuffo) che, per tradizione italiana, corrisponde al Riquet (à la Houppe) della fiaba popolare francese ripresa da Charles Perrault. La fiaba narra di un principino brutto e pieno di spirito, destinato, per compensativo dono di una fata, a trasmettere la sua intelligenza a colei che amerà. E narra di una vicina principessa bellissima e tonta, destinata, per complementare dono della medesima fata, a trasmettere la sua bellezza a colui che amerà. Dice infine del loro innamorato incontro e delle rispettive metamorfosi, per reciproco e fatato influsso. Incanto? Niente di più di quanto non faccia quotidianamente l'amore, chiosa l'ironico autore francese. Agli occhi dell'innamorato, una svampita pare colma di spirito e uno sgorbio pare un adone, agli occhi dell'innamorata: "Tout est beau dans ce que l'on aime, tout ce qu'on aime a de l'esprit". 
Ecco, appunto: una grande, fiabesca storia d'amore è quanto c'è stato tra il tragediatore faceto e la sua plaudente e affollata piccionaia.

11 maggio 2020

Cronache dal demo di Colono (64): Paideia, in caricatura

Ora che in TV, reti sociali e media comparabili la cultura umanistica straripa e spesseggiano le sue maschere del momento, è tempestiva e divertente la personificazione che ne ha fatto Corrado Guzzanti, con una maschera ideale: l'umanista da videocamera. Ecco un suo fresco intervento in una trasmissione televisiva di infotainment al momento molto fortunata.
Gli sproloqui talvolta sussiegosi, talaltra piacioni dei personaggi di questa giostra e le sesquipedali corbellerie del Lorenzo di Guzzanti hanno in comune molti tratti: perentorietà dell'approssimazione, brama di stupire, furbesco ammiccamento, presenzialismo compiaciuto, mozione dei sentimenti, gusto per l'iperbole, evocazione di luoghi comuni e loro incessante rimescolamento.
Guzzanti ha fiuto, come si sa, e la sua caricatura coglie caratteri pertinenti del tipo umano e della situazione comunicativa. Li amplifica e li porta verso il comico e il morale, come del resto usa da sempre la satira.
Prima di andare in video, molti e molte guadagnerebbero in consapevolezza, se fossero capaci non solo di guardarsi, ma anche di riconoscersi in questo specchio. Lungi dall'essere deformante, esso traccia con esattezza qual è la forma in cui entrano, qualunque cosa siano eventualmente in grado di dire.

3 maggio 2020

"Verbi servili"

Potere, dovere, volere: "verbi servili". Al di là della vizza terminologia grammaticale, chissà se allo spirito di coloro che sono usi designarli così si è mai presentato il sospetto che la qualificazione suoni invece molto appropriata al loro uso discorsivo. Potere, dovere, volere: servili perché ne abbondano la parola di chi si fa servo e, naturalmente, quella di chi volentieri lo asservisce.

1 maggio 2020

"...non perché vogliamo sostituirci alla scuola che c'è..."

"...non perché vogliamo sostituirci alla scuola che c'è...", dice più o meno così una voce autorevole di Radio 3 nel corso di un sermoncino mandato in onda in questi giorni, a cadenze regolari. Il discorsetto illustra l'offerta di trasmissioni cui l'emittente radiofonica annette un valore didattico. 
Come si sa, nella presente temperie, si è prontamente individuato nella scuola che c'era un istituto sociale (e morale) da sottoporre a una restrizione rigidissima: la si è chiusa. Sia chiaro: lo si è fatto con le migliori intenzioni. 
Se un atto di portata sociale è accompagnato da un discorso, si dica però cosa nel mondo non si sia fatto con le migliori intenzioni, perlomeno da Costantino il Grande in avanti, con qualche retorica verecondia. E, con parole prive di remore, dalla Rivoluzione francese in avanti: migliori intenzioni a volontà. 
Poi, se le intenzioni sono veramente le migliori o, migliori o no che siano, cosa da esse sortisce sono faccende di cui ai sedicenti meglio intenzionati cale di norma pochissimo. Chi vivrà vedrà e, fatte buone, anzi, migliori le intenzioni, cosa altro c'è da fare per avere la coscienza a posto? Andasse male (capita più spesso di quanto ci si immagini), c'è sempre, assolutorio, un "noi credevamo...". 
E va detto: se in una fase perigliosa la scuola che c'era è stata forse il primo e l'unico istituto sociale (e morale) a essere destinato a uno schianto, è difficile pensare che, per i criteri correnti, non meritasse uno schianto. Quando c'è il rischio di affondare, ci si libera anzitutto di ciò che si giudica zavorra. La scuola com'era aveva un compito? Certo. Lo dice il dibattito corrente: quanto al graduale ritorno verso la normalità, permanendo chiusa la scuola, emerge chiaro un solo problema. Rappresentato dalla domanda "E allora i pupi, a noi, chi ce li tiene?", cui con fantasia apertamente disneyana risponde la promessa di un generalizzato bonus Mary Poppins. 
Per sopravvivere nella procella "del tempo del Coronavirus", secondo una formula oggi vieta, le migliori intenzioni hanno così avviato la scuola che ci sarà verso pratiche massimamente omogenee e standardizzate, se non nei contenuti, certo nelle procedure: "Bisogna si fronteggi un'emergenza". Alla bisogna, ecco pronti radio, TV e media diversi. E siccome - lo si sa - questi non sono certo ecosistemi favorevoli alla sobrietà delle litoti, è tutto un fiorire di sgargianti iperboli: "maestri" discesi direttamente dalle accademie più esquisite, contenuti avvincenti e "imperdibili", lezioni come "eventi". Così racconta la propaganda. Altro che la misera scuola dei banchi rotti, della precarietà di professori e professoresse con titoli avventurosamente acquisiti, dei muri scrostati e delle improbabili aule di scienze, delle biblioteche con quattro libri da quattro soldi tenuti per giunta sotto chiave e dei bagni generalmente sudici. Futura (quindi finta), ecco la migliore tra le scuole possibili in un mondo che magari buono non sarà, ma è il presente che prefigura il futuro e sarà certo il migliore dei mondi possibili. Non buono, appunto, ma il migliore dei possibili.
Che l'operazione didattica stia andando bene o male non è il punto. In proposito, va detto con un amaro sorriso che talvolta il torpore, l'inattitudine, la vischiosità sono i soli modi naturali con cui l'umanità fa resistenza a un'ideologia degradante che fa dell'efficienza un valore morale assoluto e dell'efficacia un esclusivo criterio di giudizio. E, tra gli altri, Zygmunt Bauman ha mostrato quali possono essere e, fuori delle ipotesi, storicamente furono e ancora sono le velenose fonti a cui si abbevera un credo siffatto. 
Del resto, in un momento che è difficile dire sia crepuscolo, alba o (più credibilmente) né l'uno né l'altra, alla luce in ogni caso radente del pensiero critico della modernità matura e tarda, tutto quanto sta accadendo è così chiaro e scontato, che Apollonio ha a tratti il sospetto di sognare, tante e tali sono le ipotesi elaborate da quel pensiero che la realtà sta adesso corroborando. La stupidità non può fare nulla per non somigliare al volto protervo che, in ogni tempo, ne ha illuminato il flash di qualche rado e fulmineo apparire dell'intelligenza.
Quando si sente della scuola e delle sue nuove procedure che, se ne può stare certi, sopravviveranno alla contingenza, banalmente "il medium è il messaggio" si avrebbe allora voglia per esempio di ricordare a chi pensa o fa sembiante di pensare che scuola "in-praesentia" e "dal-vivo" e scuola "non-in-praesentia" o "non-dal-vivo" vadano considerate varianti della medesima istanza sociale e morale o (che è lo stesso) a chi si esercita dottamente nel comico gioco di dire quale è meglio e quale è peggio, cosa è e sarà più pregevole nell'una e cosa nell'altra.
A sua volta, l'apertura di un celebre scritto del 1925 di Sigmund Freud reca un'ottima chiave per intendere le parole in esordio del presente frustolo. I due lettori di questo diario avranno già capito: è Die Verneinung, titolo che, sia detto di passaggio, ad Apollonio parrebbe reso con La denegazione forse meglio di quanto non lo sia con il corrente La negazione.
Nella traduzione di Elvio Fachinelli, quell'apertura suona così: "Il modo in cui i nostri pazienti presentano le loro associazioni durante il lavoro analitico ci fornisce lo spunto per alcune osservazioni interessanti. «Ora Lei penserà che io voglia dire qualche cosa di offensivo, ma in realtà non ho questa intenzione». Comprendiamo che questo è il ripudio, mediante proiezione, di un'associazione che sta or ora emergendo. Oppure «Lei domanda  chi possa essere questa persona del sogno. Non è mia madre». Noi rettifichiamo: dunque è la madre. Ci prendiamo la libertà, nell'interpretazione, di trascurare la negazione e di cogliere il puro contenuto dell'associazione". 
"...non perché vogliamo sostituirci alla scuola che c'è...". Ecco: in una formula che, ripetuta meccanicamente centinaia di volte, si vuole evidentemente penetri nelle teste di chi la ascolta, come un mantra, basta appunto si trascuri la negazione. Si saprà così quale intenzione abbia il futuro, quello cui l'espressione appartiene veramente e che mette le sue parole sulla bocca di un portavoce crudo e forse inconsapevole. Proclamando presente una scuola che manifestamente non c'è, questo dichiara appunto che non la si vuole sostituire. Dichiara che non si vuol fare, insomma, ciò che si sta evidentemente sognando di fare e che in parte si è già fatto.