22 maggio 2020

Linguistica da strapazzo (45): "Abbiamo perso la generazione dei nonni..."

Non c'è morte che non sia degna di considerazione e di rispetto. Come ogni nascita, del resto. Ma non è qui questione di vita o di morte ed è invece futilissima questione di lingua, cioè di espressione e di comunicazione.
"Abbiamo perso la generazione dei nonni..." sente dire sovente e pubblicamente Apollonio da qualche settimana, per via di una vicenda di cui scrivere ancora solo un rigo suonerebbe oltraggioso per i due lettori di questo diario. 
Sotto ogni profilo correlato al contesto (o alla realtà, se qualcuno preferisce), quindi quanto a funzione referenziale, anche tenendo in conto le variazioni diatopiche dell'incidenza degli esiti letali del morbo, l'affermazione e il correlato atto comunicativo sono palesemente destituiti di ogni fondamento. Apollonio incluso, i vecchi e le vecchie ovunque in Italia erano e restano in numero altissimo, non solo in cifra assoluta, ma anche (e più indicativamente) in percentuale. La generazione dei nonni e delle nonne (per designare l'insieme figurativamente, visto che i e le nipoti scarseggiano) presidia le sue posizioni, a ranghi solo molto debolmente rarefatti. E la memoria, del cui destino una nazione sembra d'improvviso tartufescamente preoccupata, è salva (sempre che la demenza senile non l'attacchi). 
Esclusa la pertinenza referenziale, credibile è invece che l'atto prenda valore rispetto alla funzione emotiva e voglia trasmettere, secondo una modalità espressiva tipica dei funerali, una partecipazione molto sentita di chi così si esprime a proposito d'una vicenda che non descrive, ma sulla quale con quelle parole favoleggia. 
Se di favola si tratta o, come usa dire adesso, di racconto e di un racconto emotivamente orientato, diventa opportuno considerare l'atto sotto il profilo conativo, cioè in funzione di chi ne è destinatario o destinataria. Vista la manifesta infondatezza referenziale, a costoro si chiede di sospendere la loro incredulità: di "bersela", in altre parole, senza stare troppo a pensare non tanto alla falsità, quanto persino all'inverosimiglianza della favola.
E si è così al punto. Trattandosi di atto comunicativo che comporta una sospensione dell'incredulità da parte di chi lo riceve, "Abbiamo perso la generazione dei nonni..." è mera letteratura e va valutato con riferimento alla funzione poetica: messaggio che trova la sua ragione d'essere in se stesso. 
Come figura, l'enfasi è la sua cifra, ma nulla più dell'enfasi è da maneggiare con molta cautela per la confezione di un testo di buona qualità letteraria e basta poco per mostrarlo. Basta ricordare, tra i tanti altri comparabili, il caso quantitativamente esemplare di "Otto milioni di baionette", anch'esso infondato dal punto di vista referenziale e fondato invece non tanto sopra una richiesta, quanto sopra un'imposizione di sospensione dell'incredulità. Volgarità, come s'intende: l'enfasi è infatti quasi sempre marca di una letteratura molto scadente e da trivio, anche al di là delle differenze politiche tra richiesta e imposizione, tutt'altro che chiare perlomeno da un secolo a questa parte.
Proprio per rispetto dei morti, pochi o tanti che siano stati, della sguaiataggine delle enfasi bisognerebbe allora fare a meno. Sarebbe però come chiedere di tacere alla temperie ignobile di una modernità ormai putrefatta. Cioè, in fin dei conti, come chiederle di non essere se stessa.

3 commenti:

  1. Una nazione che è in larga parte convinta che Mussolini abbia fatto anche cose buone e che i militari italiani in Etiopia/Somalia/Eritrea e in Russia fossero accolti a braccia aperte dalla popolazione locale non mi pare si preoccupi molto della perdita della memoria storica...

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  2. Per non parlare dello slogan "andrà tutto bene", che non è enfatico, ma semplicemente falso: è una dichiarazione di scollamento dalla realtà. E per questo, forse, non c'entra nemmeno con le favole.
    Al limite, i fortunati avrebbero potuto scrivere "per me, andrà tutto bene"

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  3. Apollonio Discolo27/5/20 12:14

    Ha ragione, gentile Lettore o Lettrice senza nome. E, come commento di ogni espressione al futuro, Apollonio prende a prestito dal suo alter ego un pensiero: "Non c'è disperazione più grande di una speranza che non si può perdere" (Foglie di cactus, ETS Edizioni, Pisa 2000, p. 27).

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