La forma dell'acqua, Il cane di terracotta, Il ladro di merendine, La voce del violino, La gita a Tindari, L'odore della notte, Il giro di boa, La pazienza del ragno, La luna di carta, La vampa di agosto, Le ali della sfinge, La pista di sabbia, Il campo del vasaio, L'età del dubbio, La danza del gabbiano, La caccia al tesoro, Il sorriso di Angelica, Il gioco degli specchi, Una lama di luce, Una voce di notte, Un covo di vipere, La piramide di fango, La giostra degli scambi, L'altro capo del filo, La rete di protezione, Il metodo Catalanotti, Il cuoco dell'Alcyon. E per chiudere con il commissario Salvo Montalbano, adesso, Riccardino, annunciato già da un quindicennio.
Andrea Camilleri è sempre stato un fenomeno, in più d'uno dei valori che ha la parola fenomeno: umanamente fenomenale, ma anche fenomenico, manifestazione osservabile di uno stato della lingua (letteraria) nazionale e, quanto al ceto intellettuale d'espressione italiana, della tendenza ad allinearsi ai luoghi comuni (deriva che, quando si verifica in politica, viene detta populismo).
L'alter ego di Apollonio, è stato un lettore di Andrea Camilleri se non costante, lungamente fedele e divertito, ma divertito solo fino a un certo punto. Qui, qui e qui, per chi vuole, ancora tre testimonianze, la prima risalente all'inizio di questo secolo. Un lettore sempre distante, perché convinto che lo sguardo da lontano appreso in una stagione ormai perenta di una formazione umanistica, preserva dall'appiccicaticcio di plausi zuccherosi e dalle pacchiane enfasi di apoteosi fuori misura. Anche quando tale sguardo è affettuoso, anzi tanto più quando è affettuoso, come non può non essere per via di un'infanzia e di una parte dell'adolescenza trascorsa dall'osservatore proprio nei pressi di Vigata e di Montelusa.
Per distante affetto, Apollonio vuole crederlo, come lo crede il suo alter ego: gli zuccheri e le enfasi della tardiva, sbardellata fortuna di Camilleri non potevano del resto non sembrare comici e, a tratti, proprio ridicoli al figlio di un uomo che ogni mattina sentenziava "Accuminzamu cu nova prumissa sta gran sulenni pigliata pi fissa", avendone ben donde, quell'uomo, perché attivamente partecipe, tanto in gioventù quanto più avanti negli anni, a solennissime, ventennali turlupinature ai danni di una nazione intera mandata conseguentemente a remengo.
E, a segnalare un'adesione sardonica (sardonica, come a una sortita del genere l'adesione non può non essere), Camilleri trasferì pari pari il motto dal padre reale alla propria creatura letteraria: Salvo Montalbano. Ne ha così fatto, tra le righe, l'ammiccante portabandiera della sua poetica in atto: la poetica del tragediatore, in tal modo Camilleri qualificò la sua funzione, al suo esordio, qualificazione cui mise in séguito e opportunamente la sordina. Funzione, il tragediatore, tanto più beffarda quanto meno lo pare. E funzione lontana da quella poetica consolatoria piattamente dichiarata e dichiaratamente richiestagli per glorificarlo da una temperie conformista e ostentatamente sentimentale come la presente che, come stanno mostrando circostanze anche recentissime, non solo vuole essere spudoratamente presa per i fondelli, ma non tollera che qualcuno le segnali anche solo la possibilità che lo sia.
Dopo Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia, non c'è stata più peraltro una figura pubblica della scena letteraria e intellettuale italiana capace di andare di bolina. Si rimprovererà a Camilleri, giunto già anziano e per onesta fortuna alla fama e ai correlati agi per sé e famiglia, di avere da quel momento dedicato la giusta attenzione a garantirsi il vento in poppa?
Dopo Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia, non c'è stata più peraltro una figura pubblica della scena letteraria e intellettuale italiana capace di andare di bolina. Si rimprovererà a Camilleri, giunto già anziano e per onesta fortuna alla fama e ai correlati agi per sé e famiglia, di avere da quel momento dedicato la giusta attenzione a garantirsi il vento in poppa?
Con l'uscita a breve di Riccardino, si vedrà allora cosa il tragediatore, con una lunga preparazione e una premeditazione molte volte dichiarata, ha escogitato per congedare post mortem la sua popolarissima creatura, cui deve tutto a conti fatti, liberato soprattutto il campo dalle larve di alcune sue patenti velleità sciasciane e manzoniane. Le si dicono velleità a ragion veduta. Sono infatti frutti di una vena elegiaca. E l'elegia è l'opposto della consapevolezza del tragico che sta sul fondo di ogni commedia umana e che, in misure diverse, ispirò Manzoni e Sciascia. A chi vuole, una semplice misura del genere serve anche a comprendere quanto in realtà l'opera di Camilleri sia spiritualmente (oltre che formalmente) lontana da quella di Georges Simenon, anche lui autore tragico.
La lettura del primo capitolo del tanto atteso Riccardino procurata l'altrieri in rete, come anticipazione, da Antonio Manzini promette un Camilleri autentico, non quello posticcio che la discutibile delega alla scrittura imposta all'autore dalla cecità e da esigenze editoriali aveva fatto circolare con le ultime uscite della serie del commissario. Al bravo e volenteroso Manzini e ai suoi ascoltatori non siciliani va marginalmente segnalato che filinie suona filìnie e non filinìe e Inzolia suona Inzòlia e non Inzolìa. Si sorvola, per non risultare ulteriormente pedanti, sull'accentazione di qualche infinito. Del resto, al camillerese in bocca romana si è ormai largamente accostumati: a suo modo, è spezia indispensabilmente costitutiva della burla.
Ciò che è certo (e già da un po') è che, con Riccardino, la foggia del principale elemento della soglia (per dirla con Gérard Genette) muta. L'elenco in apertura è loquace, con le sue scarse eccezioni al modulo Articolo + Nome + Preposizione (articolata) + Nome. Dopo tanti titoli costruiti insomma come nessi nominali complessi a echeggiare non di rado frasi fatte e luoghi comuni, ecco apparire, secco e misterioso, il vezzeggiativo di un nome proprio, privo inoltre di connotazioni regionali: Riccardino, appunto. Bisognerà attendere di avere sotto gli occhi il libro per intero, per provare a capire, ove non fosse apertamente spiegata dal tragediatore, una frattura così palese, così drammatica.
Il pensiero corre tuttavia liberamente a quel Riccardin (dal Ciuffo) che, per tradizione italiana, corrisponde al Riquet (à la Houppe) della fiaba popolare francese ripresa da Charles Perrault. La fiaba narra di un principino brutto e pieno di spirito, destinato, per compensativo dono di una fata, a trasmettere la sua intelligenza a colei che amerà. E narra di una vicina principessa bellissima e tonta, destinata, per complementare dono della medesima fata, a trasmettere la sua bellezza a colui che amerà. Dice infine del loro innamorato incontro e delle rispettive metamorfosi, per reciproco e fatato influsso. Incanto? Niente di più di quanto non faccia quotidianamente l'amore, chiosa l'ironico autore francese. Agli occhi dell'innamorato, una svampita pare colma di spirito e uno sgorbio pare un adone, agli occhi dell'innamorata: "Tout est beau dans ce que l'on aime, tout ce qu'on aime a de l'esprit".
Ecco, appunto: una grande, fiabesca storia d'amore è quanto c'è stato tra il tragediatore faceto e la sua plaudente e affollata piccionaia.
Illustre Apollonio,
RispondiEliminain questi tempi grami di strage delle colpevoli, cioè delle intelligenze, sono contento che lei abbia trovato il modo di tenere bene la la sua fuori dallo stagno e dedicarla con rigore all'interessante, al saputo sapere, senza mutarsi in pericoloso epidemiologo. Doppiamente contento sono per tanta e bella e affettuosa, perché non minata da scempia ammirazione, disanima di qualcosa che è nell'aria; parlo di Camilleri che ho sempre consigliato agli studenti come compendio al Manzoni e insieme a Simenon e Sciascia, che lei con grande acume cita. Di Pasolini umano mi pare di poter dire che commise l'errore da scrittore, di volere il quattrino e si mise a fare un mestiere che non conosceva e per il quale non aveva attitudini, il cinematografaro. Da tale finì cinematografato. E come dice qualcuno, l'omicidio fu per lo più regi(sti)cidio. Punirne uno per educarne cento. Non servì e oggi il cinema italiano è afflitto dalla sua sterile adolescenza. Perdoni il volo e si abbia il mio sentito grazie per l'elogio funebre di un grande. Che babbiò alla grande. Fu vera gloria.
Grazie dell'attenzione e del lungo commento, gentile Lettore e Collega Blogger. C'era un che di giocoso, di improbabile, di burlesco nel tragediatore o, meglio, nel tragediaturi della fine del secolo scorso e degli inizi del nuovo che non ha retto - e come avrebbe potuto? - non tanto al successo, quanto all'istituzionalizzazione del successo e alle correlate derive. A quel punto, la burla ha corso il rischio di farsi imbroglio, perché "farci" per scherzo è una cosa e una cosa completamente diversa è "farci" sul serio, come comanda questo presente che non solo privilegia l'apparire sull'essere, ma pretende che l'apparire sia l'essere. Per andare contro il proprio tempo, bisogna però avere anima comica o tragica e il tragediaturi, a conti fatti, era d'anima e di penna elegiache. Impossibile chiedergli più di quanto ha dato, con un impegno, del resto, fenomenale nella messa in circolazione di prodotti stereotipici, se non proprio in serie. Da un certo momento in avanti, infatti, non solo si sarebbe potuto dire in anticipo cosa il tragediaturi avrebbe scritto, ma anche cosa, di fronte a qualsiasi evenienza, Andrea Camilleri avrebbe pensato o dichiarato. Peccato che né l'uno né l'altro si siano fermati prima di quel momento.
RispondiElimina