"Yes, We Can": Apollonio ebbe un sussulto, quando, or sono tre anni, sentì quel motto come chiave della campagna di Barack Obama per le elezioni presidenziali statunitensi.
Si sa. Chi fa politica ha commerci costanti col noi. Si può dire infatti senza timore di sbagliare che noi sia la parola politica per eccellenza. Appena un noi è proferito, chi l'ha proferito l'ha già buttata in politica. Chi ascolta un noi dovrebbe perciò sapere che il discorso cui partecipa rischia di prendere una certa piega, sovente per lui pericolosa. Di conseguenza, un noi di Obama, un noi del candidato alla presidenza di una nazione la cui legge fondamentale comincia appunto col pronome noi ("We the People of the United States...") non aveva ragione di stupire.
A mettere in ulteriore allarme Apollonio, però, fu la combinazione con un verbo servile, di modo che quel noi diventava un possiamo. E lo diventava così, in maniera tronca e allusiva, come apparente risposta affermativa a una domanda implicita e imprecisata. Ma possiamo cosa? Egli si chiedeva.
Si disse però di nuovo che non c'era nulla di cui veramente stupirsi. Come il poeta, usa restare nel vago chi fa politica. Usa alludere. Risponde magari a una domanda che nessuno ha fatto e la sua abilità consiste nel lasciare credere che al contrario quella domanda prema e che, come tutte le domande, imponga che le si dia una risposta. E, come risposta, dice noi e vuole potere; cosa, non importa. Anche perché, a dire il vero, sapere in anticipo cosa si possa non è privilegio umano. E la politica, è stato detto, è l'arte del possibile, in senso limitativo ovviamente.
Ammesso d'altra parte che si faccia seguire apertamente al servile potere ciò che chi lo pronuncia vorrebbe far seguire all'altro servile, l'implicito volere, non è detto che la precisazione sia proprio la più gradita a tutti coloro che si intende convincere ad imbarcarsi in quel noi. E quando si vuole essere eletti a una carica politica, ciò che segue (o precede implicitamente) possiamo conta veramente poco. Conta invece moltissimo che ci sia tanta gente illusa d'essere inclusa in quel noi e convinta di conseguenza a delegare la propria parola all'io che lo proferisce. A noi, la cosiddetta prima persona plurale, manca infatti proprio il carattere che, nella lingua, fa di qualcosa una prima persona autentica: il contingente possesso della parola, che non è mai plurale.
Complicato? Perché? C'è qualcuno che crede "Yes, we can" un'espressione semplice? Afferma: cosa? Dice noi: chi? E dice potere: cosa? Tutto fumo, niente arrosto. Per chi ama il genere, si può pretendere di avere di meglio?
A comporre la sua interiore sinfonia linguistica di interrogativi, la nota decisiva venne però ad Apollonio da un'ulteriore osservazione. Apprese infatti che "Yes, we can" non era il solo motto della campagna di Obama e che, progredendo verso le elezioni, esso era stato affiancato da altri, tra i quali "The Change We Need".
In apertura, allora, prima persona plurale e verbo servile e, in progressione, di nuovo prima persona plurale, bisogno e cambiamento. Insomma, mutatis mutandis, parve ad Apollonio di sentire echeggiare, oltre Atlantico, la famigerata sentenza che comincia con un verbo servile alla prima persona plurale e si conclude con "...bisogna che tutto cambi". Una sentenza spacciata per sicilianissima e passata così, miracolosamente e per segmenti, nella bocca di un avvocato nero di Chicago candidato alla presidenza degli Stati Uniti d'America.
Come il proferitore di quella sentenza, costui faceva mostra di impadronirsi della parola in nome di una modalizzazione del noi e proclamava la necessità, per la conservazione, di un cambiamento. Per la conservazione di cosa? Dell'impianto oligarchico che regge "la più grande democrazia del mondo" e, di conseguenza, dell'imponenza globale, forse periclitante, di cui intendono tuttavia continuare a godere le oligarchie, dietro la messa in scena di un esercizio democratico del potere.
Come il proferitore di quella sentenza, costui faceva mostra di impadronirsi della parola in nome di una modalizzazione del noi e proclamava la necessità, per la conservazione, di un cambiamento. Per la conservazione di cosa? Dell'impianto oligarchico che regge "la più grande democrazia del mondo" e, di conseguenza, dell'imponenza globale, forse periclitante, di cui intendono tuttavia continuare a godere le oligarchie, dietro la messa in scena di un esercizio democratico del potere.
Sembrò di conseguenza ad Apollonio che, se per qualche strano disegno della storia costui stava diventando "l'uomo più potente del pianeta", stava forse avviandosi a diventarlo sotto il segno loquace e rivelatore di espressioni simili a quelle che uno sparuto librino di un vecchio principe siciliano, scritto mezzo secolo prima, aveva messo in bocca a una perfetta rappresentazione del nulla, a Tancredi Falconeri.
Santo Cielo, Barack Obama, il futuro capo della nazione guida dell'Occidente, un nulla?
Santo Cielo, Barack Obama, il futuro capo della nazione guida dell'Occidente, un nulla?
Quel libro aveva inoltre un succo, in proposito. Diceva che quando, in politica, è il tempo dei nulla, dei Tancredi Falconeri, significa che, per l'oligarchia che li esprime, sono proprio gli ultimi fuochi, che ha decisamente imboccato la via che, pur lentamente, conduce il suo potere verso una ridicola fine: una progressiva impotenza. Ciò non garantisce ovviamente migliore il futuro della società né l'assetto del potere che, preparandosi, si trova già virtualmente in atto.
E dunque Barack Obama, come Tancredi Falconeri, emblema vivente di un ineluttabile declino?
Certo che no, si rispose perentorio Apollonio, forte del coro che si sentiva unanime intorno. Barack Obama concreta speranza dell'Occidente, segno del suo rinnovamento, prova della positiva inesauribilità del modo americano di vivere, cui sarebbe peraltro bene la vita politica e sociale si ispirasse in ogni angolo di questo vecchio mondo.
Mise così a tacere le sue fantasie da anziano linguista e filologo che, a forza di stare sui libri e di badare con accanimento alle parole, crede troppo (o forse solo) a ciò che esse dicono, anche quando nelle intenzioni di chi se le trova in bocca paiono dire altro o negare di dirlo.
E dunque Barack Obama, come Tancredi Falconeri, emblema vivente di un ineluttabile declino?
Certo che no, si rispose perentorio Apollonio, forte del coro che si sentiva unanime intorno. Barack Obama concreta speranza dell'Occidente, segno del suo rinnovamento, prova della positiva inesauribilità del modo americano di vivere, cui sarebbe peraltro bene la vita politica e sociale si ispirasse in ogni angolo di questo vecchio mondo.
Mise così a tacere le sue fantasie da anziano linguista e filologo che, a forza di stare sui libri e di badare con accanimento alle parole, crede troppo (o forse solo) a ciò che esse dicono, anche quando nelle intenzioni di chi se le trova in bocca paiono dire altro o negare di dirlo.
[Concepito tre anni fa, questo post esce intempestivo, quando di tutto ciò non cale più a nessuno. Ma, or sono tre anni, l'andazzo era l'andazzo, come si diceva. E, secondo la nota osservazione del Sacchetti, chi può pretendere di andare contro l'andazzo? Certo, non Apollonio che di politica se ne intende quanto se ne intende di teologia e, in proposito, azzardò solo un timido "Nome, non me!" il 12 novembre 2008.
Oggi molto clamore è cessato e quasi tutti i comici entusiasmi di allora si sono spenti (una ricerca negli archivi dei quotidiani di questa allegra provincia dell'impero assicura a chi la fa risate gustose). Apollonio che, come molta gente di lettere, non è un cuor di leone teme ancora tuttavia che questo post stia lo stesso gravemente disattendendo l'insegnamento di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a parere del quale "bisogna sempre lasciare gli altri nei loro errori".]
Oggi molto clamore è cessato e quasi tutti i comici entusiasmi di allora si sono spenti (una ricerca negli archivi dei quotidiani di questa allegra provincia dell'impero assicura a chi la fa risate gustose). Apollonio che, come molta gente di lettere, non è un cuor di leone teme ancora tuttavia che questo post stia lo stesso gravemente disattendendo l'insegnamento di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a parere del quale "bisogna sempre lasciare gli altri nei loro errori".]
Tanto inglese quanto in italiano - trattandosi di semantica - si usa distinguere - Lei insegna, Apollonio - tra un noi inclusivo e un noi esclusivo;
RispondiEliminaal primo fa ricorso chi, proferendolo, intende includere lui medesimo e chi lo ascolta, al secondo ricorre chi, proferendolo, intende riferirsi a lui medesimo e terzi momentaneamente assenti, diversi da chi ascolta;
le scelte dunque sono:
- Obama, con quel we include il popolo americano;
-Obama, con quel we esclude il popolo americano ma include lui medesimo e i suoi (probabilmente) sponsors;
quanto alla distinzione tra i servili potere e volere, è necessaria farla solo in italiano, in quanto l'inglese già fa distinzione tra can, potere in virtù della volontà del soggetto, e may, potere che prescinde la volontà del soggetto;
ecco che il nostro posso aiutarla?
rende così nel may i help you inglese;
di tutto ciò, think tankers e policy makers della propaganda politica americana sono abilissimi virtuosi;
.....altra lingua, altro effetto, altro potere, altro potere volere non volere, altro "Noi"... altro che americano: "Non possumus"
RispondiEliminaBlak