"Per isfogar la mente" (se non proprio per ischerzo), si provi a utilizzare schemi procedurali di una linguistica che opera per relazioni e differenze ai fini d'una lettura ingenua e sommaria del De vulgari eloquentia, l'incompiuta operina dantesca che ha apertamente un tema linguistico. La sua struttura di base apparirà subito come composta da due rapporti oppositivi, organizzati in maniera gerarchica.
"Volgare" in opposizione a
"grammatica", per adoperare i termini danteschi, è la prima articolazione contrastiva. Essa è al tempo
stesso concettuale (i due termini sono idealmente definiti in modo
diverso) e sperimentale (si verifica osservativamente che i due termini sono cose diverse). Sotto il primo termine dell'opposizione, si
colloca poi un'opposizione ulteriore, di natura stavolta esclusivamente sperimentale. Per ciò che specificamente concerne il trattato e per farla breve, quanto a tale opposizione seconda, da un lato, c'è la marcatezza del termine costituito dalla lingua del
"sì", che è appunto il fuoco della trattazione dantesca. Dall'altro, c'è la non-marcatezza del
termine costituito cumulativamente dalle lingue d'"oc" e d'"oïl".
Ne segue che la lingua del "sì" è perfettamente delimitata dalla
combinazione delle due opposizioni appena esposte. Questo fondamento
spiega come mai essa sia vista, al tempo stesso, come oggetto tanto unitario quanto variabile, senza che fra i due
aspetti vi sia conflitto. Dante si impegna a esemplificare concretamente le variabili espressioni degli "Ytali,
qui sì dicunt". Sotto il segno di una doppia marcatezza, esse sono però variazioni in quanto appunto riconducibili a un'unità definita concettualmente e
rilevata sperimentalmente.
L'"odorosa
pantera" in cui si realizza l'anima ordinatrice e sistematica di tale varietà sta celata nelle selve intricate delle differenti espressioni, che
sono mille e più di mille, a volerle elencare tutte. Dante non lo fa,
limitandosi a una rappresentazione di massima della pertinenza
culturale: gli interessa (dove si è manifestata) la langue e non la serie infinita delle evenienze della parole.
Per capire l'Italia linguistica e (a dire il vero) non
solo la linguistica, e non solo quella di sette secoli fa ma ancora
quella di oggi, serve allora veramente poco altro. Dante ne ha fornito quadro e
chiave di lettura: für ewig. Una varietà dall'apparente disordine che, per
via di un principio ordinatore plastico e processuale con cui
interagisce di continuo, è in realtà altamente definita nella
complessità dei suoi innumerevoli dettagli. Dante abbandonò la composizione del suo trattato linguistico e l'esposizione della sua ricognizione teorico-sperimentale quando decise di mettere in pratica la sua riflessione nella Commedia.
Da lì egli si mosse per la costituzione di un'espressione nazionale: "illustre", "cardinale", "aulica" e "curiale". E in effetti da lì ci si è mossi, come Italiani, tutte le volte che una lingua di qualità, sulle labbra o sotto le penne più diverse, ha avuto modo di proporsi.
Il De vulgari eloquentia
ha poco da spartire, di conseguenza, con la plurisecolare e arci-italiana questione
della lingua. Ciò non vuol dire che l'opera dantesca non vi
sia stata trascinata dentro, come pretesto. Come Antonio Gramsci
scrisse con la candida precisione dettatagli dalla sua dichiarata faziosità, la questione della lingua è (stata)
principalmente (se non esclusivamente) una contesa politica, in ambiti socio-culturali sovente asfittici. Nelle fasi di tale contesa, diverse fazioni o aspiranti fazioni di un ceto intellettuale collocato ai
margini dell'esercizio del potere e sempre in condizione servile si sono
disputate una parvenza di egemonia (linguistica).
Sulla situazione
linguistica dell'Italia, così bene definita e descritta nei suoi sommi
capi da Dante, i campioni della questione della lingua (da Machiavelli a Pasolini) hanno avuto sempre molto poco da dire. E quel poco che hanno
detto, lo hanno detto soprattutto in maniera indiretta. Riportata almeno in parte ai suoi termini linguistici autentici da Graziadio Ascoli, la questione
della lingua è stata infatti essenzialmente testimonianza di un disagio nel rapporto tra i
ceti intellettuali italiani e la loro nazione e dell'inclinazione di tali ceti a privilegiare,
sul tema della lingua, un'attitudine normativa, rabbiosa e sovente, nei
fatti, velleitaria e impotente.
Dante osservò il mondo e, con amara simpatia, la sua nazione medesima. Pensò di avere qualcosa da dire, in proposito, ritenendo (magari per errore o per illusione) di avere capito l'uno e l'altra. Non
si astenne certo dal giudicarne, a quel punto, e anche con molta
durezza. Ma mentre l'attitudine al giudizio e alla durezza non ha mai
fatto difetto ai ceti intellettuali italiani, a differenza di Dante, essi hanno sempre trovato
la preliminare, modesta e amorevole osservazione del mondo e della loro nazione meno attraente e vantaggiosa del
prescrivere direttamente come l'uno e l'altra dovrebbero presentarsi al loro cospetto
per guadagnarsi il premio d'uno sdegnoso gradimento.
Mirabile sintesi questo post, capace di lasciar chiari gli innumerevoli rivoli di riflessione e di studio che vi confluiscono senza tuttavia provocare alcun offuscamento d'incisività.
RispondiEliminaTorna alla mente, fra molto altro, l'intuizione vivida di un non italiano, che riusciva a gettar luce sul fulcro dell'opera di Dante dal buio più cupo della notte sovietica. Così scriveva Osip Mandel'stam nel 1933, a chiusura del primo paragrafo della sua Razgovor o Dante: "L'opera di Dante è anzitutto un affacciarsi, sull'arena mondiale, della parlata italiana del suo tempo - percepita come globalità, come sistema. La più dadaista delle lingue romanze si insedia così al primo posto in campo internazionale".
Vale la pena di commuoversi per questo lucore, se si pensa alla condizione ambientale e personale del poeta russo, alla precarietà dei mezzi d'apprendimento dell'italiano di cui poteva disporre ed ai rischiosi espedienti cui era costretto per procurarsi i testi danteschi.
Ancor più al cospetto della asfitticità dei campioni italiani della questione della lingua, così ben raffigurata da Apollonio.