Un viaggiatore (che presumibilmente gode di un titolo di viaggio di favore, per via dell'appartenenza a una corporazione) in treno, da Brescia a Milano, con grande ritardo e qualche scomodità. Contributo alla mitridatizzazione dell'espressione linguistica italiana, il giorno dopo scrive sul suo giornale che il suo trasferimento da casa al lavoro (o viceversa) è stato "un'odissea".
È un fatto di lingua e sono fatti di lingua (lo si sa) quelli di cui si diletta questo blog, dove non ci s'indigna e non si stigmatizza. Si sorride, al massimo, perché ci sono poche cose che fan sorridere più dei fatti linguistici (e forse nessuna: ma non val la pena d'essere assoluti in proposito, per non diventare ridicoli). E dove, soprattutto, quando sembra si parli d'altro, è solo per farne pretesto di un rinnovato incontro galante con la musa di Saussure, perché nulla è più divertente di corteggiarla, di tanto in tanto, in modo obliquo.
Se dunque i due lettori di Apollonio chiedessero a un filologo come mai quel viaggiatore s'esprime come fa (muovendoli al sorriso col collasso concettuale di una peripezia decennale ridotta a designare la meschinità oraria che designa), si sentirebbero rispondere che lo fa per via d'antonomasia.
Il nome comune odissea, per dire "viaggio pieno di incomodi e di contrattempi", passa infatti (e giustamente) per un'antonomasia, allo stesso titolo con cui passano per antonomasie un mecenate, un ercole, una messalina e così via.
Sono nomi divenuti comuni a partire dalla qualità di propri. Ed è naturalmente un nome proprio il modo con cui si designa un'opera dell'ingegno, come l'Odissea, sia o non sia tale modo quello decretato come titolo dal suo eventuale autore.
La risorsa, lo si capisce, è preziosa. Alla bisogna, serve a far crescere la dotazione dei nomi comuni di una lingua. La mole dei dizionari parrebbe dire che sono già tanti. Ma, si sa, non sono mai abbastanza, per le esigenze dell'espressione umana, soprattutto per quelle che si pretendono "intelligenti", avrebbe detto Musil: e non è piena di "intelligenza" la prima pagina di un giornale?
E poi immaginino i due lettori la soddisfazione che procura il dire, mettiamo, "Presepe o non presepe, non facciamo per favore di queste feste un nataleincasacupiello", "La vita familiare di quella poveraccia fu un livido seipersonaggincercadautore" o, più piccante, "Ferrando ama Dorabella? Si prepari a vivere un delizioso cosìfantutte".
L'aspetto di gustosa bizzarria della questione su cui Apollonio vuole richiamare l'attenzione non consiste tuttavia nel cogliere, dietro la stantia corrività di antonomasie come un'odissea, il fresco straniamento del nuovo conio antonomastico.
Consiste invece nel fatto che, se di nuovo si interrogasse lo stesso filologo a proposito di la (Divina) Commedia, chiedendogli ragione di questo nome con cui si designa il poema dantesco da molti secoli (ma senza che l'autore si sia mai pronunciato in proposito), ci si sentirebbe ancora una volta rispondere che lo si fa per via d'antonomasia.
È un'antonomasia infatti quel nome comune, come appunto una commedia, che prende le proprietà designative del nome proprio: la Commedia (per antonomasia). E, per passare da un'opera dell'ingegno a un essere umano, è un'antonomasia, per es. , il Cavaliere: il modo con cui (alternandolo col nome proprio) la stampa oggi designa il Presidente del Consiglio dei ministri italiano: da un cavaliere a il Cavaliere (per antonomasia).
Il circuito dell'antonomasia, l'ha chiamato allora Apollonio, in un lavoretto comparso tempo fa, sotto il nome (vero o falso?) con cui egli circola per il mondo.
Col determinante favore della sintassi (lo testimonia la presenza di alternanti articoli), un circuito di nomi propri che diventano comuni (l'Odissea che diventa un'odissea) e di nomi comuni che diventano propri (una commedia che diventa la Commedia). Un circuito, i cui percorsi conversi la scienza del linguaggio designa con lo stesso termine: l'uno e l'altro, antonomasie.
Una terminologia da incoscienti, parrebbe di dovere dire, e senza cura per gli incidenti che procura la contraddizione, che è mortale per chi non sa capirla, feconda altrimenti. Perché nulla ha più potere rivelatore di un'incoscienza e d'una contraddizione terminologica. Apollonio ha il sospetto infatti (e qui lo ribadisce) che la ragione di un termine unico ci sia.
Le converse antonomasie sono infatti e semplicemente le due corsie dell'unica strada su cui, con moto perpetuo, la lingua spedisce i suoi nomi propri verso il destino di comuni e i suoi nomi comuni verso il destino di propri: un'incessante trasformazione di un punto di partenza in punto di arrivo e di un punto di arrivo in punto di partenza. Nel moto e nel processo, crea così (e da sempre) tutti i nomi, propri e comuni, che mette poi in bocca a quell'essere vivente "intelligente" che, senza capirla, la parla.
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