"Ho scritto un libro. Quel che un amico mi rimprovera, con dolcezza e anche simpatia, è che il dettato sia chiaro. Si capisce tutto. «Non devi aver faticato molto» mi dice con indulgenza. Rispondo che, al contrario, ho faticato moltissimo, che ho scritto e riscritto pagine infinite volte, poiché se avessi dato ascolto alla mia natura tutto sarebbe rimasto nel vago e nell’oscuro. «Non ami gli esperimenti» insiste l’altro. «No,» dico «l’operazione sperimentale, ogni italiano, colto o no, la compie sempre naturalmente, ‘parlando’». Non è un mistero che noi, oltre all’accento del dialetto natìo, mai abbandonato, siamo propensi ai modi gergali, agli anacoluti, al rovesciamento delle proposizioni, a creare (secondo il senso che vogliamo dare al discorso: placido, sentenzioso, indignato, perentorio, eccetera) una sintassi particolare. È ciò che fa il sale delle nostre conversazioni, dove spesso cinque o sei persone parlano tutte assieme e «si capiscono». Raramente terminiamo una frase stimando a un certo punto che il resto sia superfluo. Parliamo da impressionisti, sempre esagerando per farci capire meglio, sempre rinculando per saltare meglio l’ostacolo logico, aiutandoci con tutto fuorché con la sintassi."
Sono parole di Ennio Flaiano: del 1970. E sono gustose, come un'acquavite che invecchia bene: ma invecchia e ci dice di tempi dell'italiano e dell'espressione italiana che, a loro modo, sono mutati. Chissà come reagirebbe oggi Flaiano ai Camilleri e ai Baricchi, accorgendosi che, anche a proposito di modi gergali e di sintassi particolare, viene sempre un momento in cui la realtà supera la fantasia del satiro, soprattutto se solitario. E che ci si può pascere, contemporaneamente, di modi gergali, di illogicità compositive e di una sintassi che, col pretesto di diventare piana, ha finito per essere piatta.
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