29 marzo 2009

Sciaranèra

Non abbiano paura i due lettori di Apollonio. Non sono stati venduti come innocenti vittime sacrificali ad un'agenzia di pubblicità. L'immagine a fianco riproduce l'etichetta di una bottiglia peraltro già bevuta e vale come segnalazione, qui, di lavoro linguistico ben fatto. Chi ha battezzato questo nuovo vino di una tradizionale azienda siciliana, l'ha pensata bene e se gli fosse capitato per caso, ancor meglio. L'esser favoriti dalla fortuna è segno di elezione. 
Il nome Sciaranèra sa di siciliano lessicalmente: ma ciò sarebbe banale. Una sciara è nell'isola un accidentato pendio di detriti, d'elezione vulcanici. Ma il nome sa di siciliano in maniera molto più sottile ed allusiva. In quel modo che ai siciliani piace moltissimo esibire con discrezione quando si trovano ad avere commercio con "continentali" che vogliono sedurre. Apollonio ricorda un illustre clinico siciliano che a casa sua, a Roma (s'era negli anni Sessanta del secolo scorso), nella sua conversazione coi sodali intercalava allusioni linguistiche al modo che ha oggi reso ricco Andrea Camilleri. E la formula: "E chi è siciliano mi capisce...", per rendere a tutti desiderabile, col premio della complicità, il diventare (almeno un po') siciliani.
Ebbene, qui l'allusione sapida e (come tutte le allusioni sapide) a suo modo dotta sta nell'accento. È ovviamente néra in italiano (cioè con e chiusa) la forma dell'aggettivo che l'etichetta del vino siciliano declina come nèra, cioè al modo con cui i Siciliani che s'esprimono in italiano proferiscono tutte le e toniche, facendole aperte. 
Pronunciare Sciaranèra (come l'etichetta invita a fare) invece di Sciaranéra fa insomma italiano in bocca siciliana. Si può chiedere di più alla malìa allusiva del nome commerciale di un vino? Basta proferirlo e si ha la Sicilia sulle labbra.
Lascino allora i suoi due benevoli lettori che Apollonio si illuda che le peregrine nozioni filologiche impartite a qualche discente delle lauree di comunicazione, sotto la forma della costruzione (consapevole o inconsapevole) del nome proprio di un vino, gli facciano l'occhiolino dall'etichetta di una bottiglia: "...sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse..." (G. Verga, Rosso Malpelo).

28 marzo 2009

Quanti anni ha Maurizio Ferraris, filosofo?

"Propongo un esperimento mentale. Immaginiamo che qualcuno ci offra l'alternativa tra: A: vivere fino a centovent'anni, in perfetta salute e giovinezza, una variante di Dorian Gray, ma essere dimenticati da tutti un secondo dopo la nostra morte, e B: vivere sino a settant'anni, magari anche con degli acciacchi, ma in modo tale che tutte le nostre tracce (i ricordi che abbiamo lasciato di noi, i nostri eventuali scritti eccetera) sopravvivano per un tempo ragionevolmente lungo, anche se non necessariamente così lungo come quello che ci separa dal momento in cui la terra finirà dentro al sole, perché a quel punto avremmo a che fare con umanità troppo diverse da noi. Immagino che molti sceglierebbero, con me, la soluzione B. E credo che chi lo facesse avrebbe almeno in parte imparato a morire, cioè, forse, a vivere con filosofia". 
Una nota gazzetta settimanale di libri e cultura ha di recente pubblicato queste note di Maurizio Ferraris, che Apollonio non conosce personalmente. Non sa che faccia né quanti anni abbia. Sospetta sia un molto reputato filosofo italiano d'oggidì, per averne letto più volte il nome nelle pagine dedicate alla filosofia di quella gazzetta, che d'ogni ramo del sapere sceglie come collaboratori specialisti reputati, le cui opere sono destinate a essere ricordate. Così Ferraris pare del resto presumere delle sue, ponendo addirittura la questione in termini di tempi astronomici.
Memore di vecchie parole di suo padre, Apollonio lancia adesso un appello e propone un gioco ai suoi due lettori, a proposito di ciò che scrive Ferraris. 
Ecco più o meno cosa disse un giorno ad Apollonio il padre, che non faceva il filosofo ma l'odioso mestiere di esattore delle tasse, come Matteo. Le affermazioni sul momento in cui preferirebbero uscir di vita, che si colgono sovente sulle labbra degli umani, sono uno dei modi con cui la loro supponente cretineria presume di farsi nobile e bella. A venti anni, molti ti diranno che, godute le gioie della giovinezza, saranno pronti a morire a quaranta. A quaranta che, prodotti i frutti maturi dell'età adulta, saranno pronti a morire a sessanta. A sessanta che, dato al mondo il contributo della loro saggezza, saranno pronti a morire a ottanta. Più avanti, ai tempi dell'aneddoto, era improbabile si pensasse di andare e la salvifica demenza senile, nelle eccezioni, interveniva a riparare i danni della cronica stupidità umana, almeno quanto a dichiarazioni del genere.
Ebbene, Apollonio non sa quanti anni abbia il filosofo Maurizio Ferraris. Scommette però coi suoi due lettori che, dichiarando che settanta anni gli sono sufficienti, egli ne abbia, oggi, circa cinquanta. E se c'è qualcuno che può in proposito dargli notizia certa, Apollonio lo invita a farlo. Fidando in quell'insegnamento paterno, scommette insomma che il momento in cui il filosofo Maurizio Ferraris dichiara nobilmente che preferirebbe morire, lasciando all'umanità il legato della sua opera memorabile, non è proprio per domani. 

PS. Al modesto ex-esattore delle tasse l'idea della morte, peraltro, risultava e ancora risulta indigesta: forse perché sapeva e sa che è difficile che si possa contare sui richiesti canonici venti anni per accostumarsi "filosoficamente" a essa e che, in ogni momento della vita, può accadere d'improvviso di doversene fare una ragione (e talvolta, neanche quella).

1 marzo 2009

4 marzo 1943

"...per la gente del porto mi chiamo Gesù Bambino" cantava Lucio Dalla, fresco di gioventù, dal palco del Teatro Ariston di Sanremo quaranta anni fa. E non cantò "...per i ladri e le puttane io sono Gesù Bambino". Così gli imponeva la bigotta TV di allora. Apollonio è lungi dal menarne scandalo: se Dalla avesse voluto che non glielo si imponesse, bastava che andasse via e rinunciasse agli agi che gli son venuti dall'esserselo fatto imporre. Tutto ha un prezzo nella vita: la libertà, quello più caro. Ma stava poi in quel verso la libertà? Qualche sera fa, carico d'anni e di successi, perciò libero nel mondo libero di adesso, lo stesso Lucio Dalla, dallo stesso palco, ha celebrativamente cantato in TV "...per i ladri e le puttane io son Gesù Bambino". Mentre lo faceva, aveva l'aria di chi sta finalmente rivendicando la sua libertà, la libertà di tutti di dire cose del genere in TV. Ma le parole, come s'è già ricordato su questo blog, non hanno sempre lo stesso valore e, oggi, dal palco dell'Ariston, cantare quella canzone come fu cantata nello stesso luogo quaranta anni fa avrebbe suonato certo più elegante e filologicamente corretto, forse anche più sottilmente scandaloso del cantarla col verso dei ladri e delle puttane allora censurato. Ma si tratta in fondo solo di un peregrino esempio di una verità che Apollonio sente che si applica anzitutto a se stesso. Dentro ogni essere umano sta acquattato un tremendo nemico. Se non si ha la sfortuna di morire giovani, ingaggiare una lotta senza tregua contro tale nemico è una delle responsabilità più pesanti dell'età che avanza e che è di crescente debolezza (soprattutto con se medesimi). E che tende di conseguenza a rifuggire alla responsabilità (soprattutto verso se medesimi). Ne segue che alfine e nella stragrande maggioranza dei casi quel nemico celebra i suoi trionfi e porta a giro, come trofei, i capi mozzi sui peraltro avvizziti corpi decapitati di gente che un dì parve pure avere una testa e parve, per brevi momenti, saperla adoperare.
La vecchiaia: supplementare pena cui è condannato chi non ha scontato quella tremenda di morir giovane, usufruendo però così dei vantaggi del rito abbreviato.