"Multa senem circumveniunt incommoda, vel quod / quaerit et inventis miser abstinet ac timet uti, / vel quod res omnis timide gelideque ministrat, / dilator, spe longus, iners, avidusque futuri, / difficilis, querulus, laudator temporis acti / se puero, castigator censorque minorum" (Molti incomodi assediano il vecchio: cerca qualcosa ma, meschino, si astiene da ciò che trova e teme di farne uso, fa ogni cosa timidamente e freddamente, rimanda, spera lungamente, sta inerte, è avido di futuro, difficile, lamentoso, loda il tempo andato, quando era un fanciullo, fustiga e censura i giovani).
È (di nuovo) Orazio e un celebre passaggio dell'Ars poetica. Apollonio se lo ripete, come tacita e laica orazione, appena gli vien voglia di pensare (e, il Cielo non voglia, anche solo di accennare) alla decadenza del presente (e, siccome è vecchio, la voglia gli viene spesso).
Usa Orazio per scacciare la tentazione di imboccare la scorciatoia che la vita apre alla pigrizia dei vecchi: e lui pigro è sempre stato, vecchio, appunto, quando meno se l'aspettava, è diventato. E sta lì, sempre in procinto di prendere la via che conduce al baratro della rinuncia a capire. Non a condannare e a indignarsi né a giustificare e ad approvare: a tali attitudini ha volentieri rinunciato da gran tempo, non appena ha capito che sono quelle tipiche dei pigri di tutte le età. Chi non vuole fare lo sforzo di capire, condanna, s'indigna o, conversamente, approva e giustifica. Provare a capire è del resto la cosa che, al mondo, richiede la fatica maggiore e rende di meno: roba che si può fare solo per diletto, giammai per mestiere. Si passerebbe giustamente per matti. Bisogna quindi essere comprensivi con chi condanna e s'indigna, giustifica e approva: è gente che, come sa e può, cioè pigramente e cercando di scansare la fatica, lavora. E bisogna capire i vecchi, allora, quando, comprensibilmente, se mai l'hanno fatto, smettono di provare a capire e, in rapporto al presente, cominciano a condannare e a indignarsi. E a lodare il tempo che fu.Cosa che Apollonio tenta di non fare (e che Orazio, come diceva, l'aiuta a non fare) anche perché lasciarsi andare alla lode del tempo andato e al correlativo dispregio per il presente finirebbe per confliggere con qualche sua personale e radicata convinzione sulla decadenza.
Egli è fortemente convinto infatti che la decadenza sia tra le poche cose al mondo che non decadono mai. Essa è permanente. C'è sempre stata. La pensa così non tanto perché Shakespeare non sapeva il greco e Omero non sapeva l'inglese, come ricordava Ennio Flaiano a chi gli faceva notare i guasti culturali e l'ignoranza del suo tempo: lo stesso che, essendo andato, oggi si sente lodare spesso. Quanto perché essere è niente di più e niente di meno di decadere. Sei? Pensa Apollonio. Allora non ci son santi: decadi.
Ne segue (sempre a parere di Apollonio) che non c'è tempo andato che non sia decaduto esattamente come decade il presente.
Questa è la premessa di fatto. Si venga adesso all'effetto percettivo. I giovani d'ogni epoca non s'accorgono in genere della decadenza del loro tempo. Perché? Perché essi decadono alla sua stessa velocità e al suo stesso modo. Si tratta insomma di puro effetto relativistico. Essi stanno sul vettore del loro tempo, ne fanno pienamente parte, quindi fanno parte della sua decadenza, del suo essere.
Rispetto al tempo, i vecchi, invece, perdono velocità, provano a inseguirlo, arrancano, cadono, si rialzano ma quello se n'è già andato. In loro, nasce quindi la percezione soggettiva del decadimento del tempo che vivono, in funzione della memoria di quello che hanno vissuto, col quale, da giovani, decadevano ovviamente in perfetta sintonia e della cui decadenza, quindi, non hanno serbato alcuna memoria. Non c'è mai stato, non c'è, mai ci sarà quindi un presente che non sia decadimento per i vecchi che lo vivono e che, semplicemente, non capiscono di esser stati loro medesimi, festosamente inconsapevoli, ad avere accompagnato il mondo sulla soglia di quel baratro che vedono improvvisamente spalarcarsi davanti ai suoi piedi, davanti ai loro medesimi piedi.
Tutto là. Del resto, è naturale che sia così. La perdita di velocità del vecchio è anticipo del suo definitivo fermarsi, del suo uscire dalla decadenza e dall'essere: un'uscita che mette fine a quella disarmonia, a quella cacofonia e la sposta verso altri lamenti, verso altre querimonie: in eterno.
Ottimo commento, grazie.
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