6 luglio 2014

Lingua nostra (4): "canizza" o "canèa"

Parole venute allo scritto di livello da poco più di un secolo, se ci si può fidare dei dizionari. Immaginare che nel parlato, nella lingua speciale dei cacciatori, in particolare, non ci fossero da molto prima (esse o loro varianti localmente atteggiate) è difficile. 
È ovvio, d'altra parte, che, in giro per il mondo, lingua ce ne sia sempre stata molto più di quanto qualsiasi artifizio di memoria possa mai essersi sognato di fissare. La scrittura - soprattutto quella di livello - è e resta, in proposito, tecnologia principe.
Donde, la scelta. Chi scriveva non aveva evidentemente tenuto canizza o canèa come degne e le due parole se ne erano state buone, a fare il loro onesto lavoro fin quando (appunto tra fine Ottocento e inizi Novecento, a quanto pare: difficile si tratti di un caso) a qualcuno che di scrittura se ne intendeva devono esser più che venute utili (come direbbero i bottegai della lingua), parse degne di memoria e certo non solo nel loro denotativo valore venatorio. Insomma, pertinenti non tanto a designare un referente quanto a testimoniare l'esistenza di una relazione tra un significato e un significante. Relazione pronta appunto a divenire figura.
Canèa o canizza valgono allora "muta di cani che insegue la selvaggina; il suo abbaiare insistente e furioso", ma, nelle loro attestazioni più degne di rilievo, già forse prima, "schiamazzare di folla inferocita; clamore di campagne di stampa, di proteste contro idee, affermazioni che provocano scandalo, e le persone che le sostengono" e "Grida violente e scomposte, rumore alto e confuso; furia cieca e rabbiosa (ma anche abietta, un po' vile)".
Così emergono nello scritto, canizza o canèa, ad opera di Carducci e di D'Annunzio e poi di Bacchelli e di Pasolini. Lista modesta ma, forse, significativa.
Oggi, canizza o canèa le si legge e le si sente molto raramente. E come si diceva tempo fa per americanata, tale rarità di ricorrenza dimostra che è una fola la comune idea (a dire il vero, già a prima vista, molto ingenua) che presenza di parole e loro frequenza di apparizione nei discorsi di un momento storico siano in rapporto diretto con la presenza, in quel momento storico, di ciò che esse designano e con la sua banale ordinarietà. La banalità cela, talvolta (o sempre?), molto più dell'assenza. Dovrebbe essere banale dirlo. E c'è ideologia in ciò che si dice quanta ce n'è in ciò che non si dice, perché ci si scorda persino che vale la pena dirlo e si finisce per perdere anche le parole per dirlo.
In un'epoca di americanate sesquipedali, nessuno più dice americanata. Allo stesso modo, in un'epoca la cui comunicazione è per intero canizza o canèa (tra le futilità, per es., fa di recente da cinghiale cui corre dietro una canizza o una canèa il famigerato piuttosto che in uso "disgiuntivo", secondo quelli che se ne intendono: di ciò, però, un'altra volta), oggi che, si diceva appunto, è tutto un prodursi per iscritto e per orale in canizza o canèa non si trova nessuno che, notandolo, chiami col suo nome ciò che è canizza o canèa. 
Forse perché appunto nessuno più lo nota e come ci si è assuefatti all'americanata, assumendone dosi giornaliere sempre più massicce, così ci si è assuefatti alla canizza o canèa. E beate son state le orecchie di chi disponeva ancora delle parole appropriate a fare differenze e a marcare pertinenze (sui dizionari se ne ha testimonianza, come si diceva, fino a Pasolini: sarà un caso?). Parole indispensabili appunto per dire, oltre che vino al vino, anche cane al cane.

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