Nel mondo, quasi tutto è apparenza e, se c'è una cosa che appare, è appunto un gol. Alla visione del gol, spesso iterata e proposta da ogni angolazione fino al disgusto, si riduce ormai il godimento effimero, si direbbe aoristico più che perfettivo, dei cosiddetti appassionati del gioco del calcio. La durata, l'aspetto imperfettivo dell'attività agonistica - trasparente per chi si interroga criticamente sul valore di gioco e del prestito sport - non è roba per il presente, dove tutto è un accadimento frammentario, misurato in centimetri (o in caratteri) e privo d'una coerenza narrativa: collocato - eventualmente - nelle prospettive fantastiche, al meglio immaginarie ma forse ridicolmente e solo oniriche, delle storie interminabili, delle predestinazioni, dei complotti.
Fu, sotto altro clima, Gianni Brera a teorizzare - se Apollonio non s'inganna - che il gioco del calcio avesse come prova di una partita ben giocata, se non perfetta, uno zero a zero: valesse insomma più per il gustoso e lento percorso che per i suoi eventuali esiti. E fu di nuovo Brera ad affermare che, a fondamento della realizzazione di un gol, eventualmente propiziato da una prodezza, ci fosse sempre un errore.
Prospettiva umanissima, a pensarci bene, e che oggi si dovrebbe correre ad abbracciare, se i presenti fossero tempi di vera ed esperiente pratica di quanto a ogni angolo si predica: moderazione, rispetto, minimo impatto e così via.
Non altro merito infatti è da tenere nel conto degli umani, fatta la tara della fortuna, del provare a non demeritare troppo di esserci: sul campo, naturalmente.
Nell'espressione di chi raccontava il calcio o di chi, a qualsiasi titolo, ne parlava, provvido o improvvido che sia, l'errore che genera l'exploit aveva un dì parecchie designazioni: lo si diceva distrazione, disattenzione, sbadataggine, svista, sbaglio, abbaglio, topica, toppata, granchio e così via.
Oggi, su tutte, prevale dormita, un'innovazione, come designazione ovviamente figurata: il chiasso è tale, sugli spalti, da escludere ogni valore letterale all'espressione, quanto ai protagonisti in campo. Apollonio confessa invece che di dormite - quando assiste, da lontano, a una partita - gli è capitato di farne qualcuna (ed è forse la circostanza cui va messo in conto questo frustolo).
Il dormita specialistico entrato nel lessico sportivo (ipotizza Apollonio, nell'ultimo lustro: ancora una volta e opportunamente, nessuna registrazione lessicografica) prende ragionevolmente origine da discorsi condotti su registri bassi e colloquiali: quelli nei quali si può apostrofare con un "Che fai, dormi?" un qualche sottoposto (in casi come questi, come si sa, di correttezza politica, quanto al genere, si può fare a meno) giudicato colpevole di uno sbaglio, nell'applicazione di una procedura.
Se capita così che un attaccante faccia un gol, è perché un difensore "s'è fatto una dormita". E "la dormita" - che succede sia "gigantesca", oltre che "inspiegabile" - può riguardare, se è il caso, un intero reparto: naturalmente, quello delegato alla "fase difensiva".
Del resto, sempre più la figura di chi gioca a calcio è associata a quella di un addetto a procedure standardizzate che hanno appunto "fasi"; ma, di ciò, anche per l'interesse sintattico della questione, Apollonio parlerà forse un'altra volta.
Gli basta, qui, d'avere scovato tra le pieghe di espressioni correnti alimento sistematico a una scusa (improbabile) per non ammettere che, delle sue già menzionate dormite, responsabile è soprattutto - e tristemente - l'età.
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