15 luglio 2014

Linguistica da strapazzo (32): "Messi non è Maradona"

"Messi non è Maradona": quasi un coro. E, aggiungerebbe volentieri Apollonio, Schweinsteiger non è Beckenbauer né Neymar è Pelé (ragionevolmente, non è nemmeno Zico).
"Un coniglio bagnato" disse l'Avvocato - cui non mancava nell'espressione un'ironica poesia - del Codino, peraltro suo dipendente. Commentò così non brillanti prestazioni del giocatore in momenti topici: le occasioni in cui, come si dice corrivamente, il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare. Della Pulce, in questi giorni, si potrebbe dir peggio, incoraggiati dalla metafora sottesa all'antonomasia, ma se ne taccia. Del resto, un Mondiale da autentiche mezze calzette: partite appassionanti come incontri tra funzionari della WTO o della BCE. Questo passa il convento globale. E la caciara comunicativa della kermesse non basta a coprire, per chi ha un po' di gusto, le invereconde nudità dell'attuale gioco del pallone.
Basta allora "Messi non è Maradona". Che è già tanto, se ci si pensa da linguisti da strapazzo. Perché mai, se i nomi propri fossero ciò che dicono logici e grammatici, Messi dovrebbe essere Maradona? Perché, anni fa, nessuno trovò sciocco, sulla prima pagina di un quotidiano nazionale, il titolo (se la memoria non tradisce Apollonio) "Palermo non è Beirut"? Se stava lì, era una (rilevante) informazione. E che diavolo di informazione sarebbe mai un'espressione del genere se la si prendesse, per dir così, grossolanamente alla lettera? "Messi non è Maradona" e "Palermo non è Beirut", embè?
Non di lettera e di figura, del resto, principalmente si tratta. Si tratta di uno di quei processi funzionali (che vuol dire compositivi, niente altro che compositivi) che soggiacciono, talvolta, a ciò che i retori antichi classificarono come tropi e che non sono cose linguistiche fatte - come di norma vengono ritenuti - ma appunto farsi delle cose della lingua, che è sempre e rigosamente in movimento.
In "Messi non è Maradona", Maradona è un predicato e, come predicato, non solo ha un significato (con buona pace di chi dice che carattere dei nomi propri è appunto d'esserne privi) ma è disponibile (a condizioni variabili, certo, e non sempre in modo neutro: ma non si sta qui a sottilizzare) a combinarsi con una vasta gamma di determinatori e di modificatori: Messi non è un Maradona, non è il Maradona che ci si attendeva, non è né il Maradona del 1986 né quello, già un Maradona minore, a dire il vero, del 1990 e così via.
Chiacchiere da Bar dello Sport, luogo ideale che può essere migliore, quanto a qualità, spirito e intelligenza di chi lo frequenta, di molti rinomati e altrettanto ideali istituti di - soporifera - ricerca linguistica. E contesto socio-culturale appropriato a verificare come gli umani si producano espressivamente in antonomasie (dette da chi se ne intende) vossianiche con la stessa sciolta naturalezza con cui bevono un buon caffè o con cui, per via di un'inesplicabile grazia, Maradona si bevve appunto un imprecisato numero di giocatori inglesi, in occasione di una realizzazione memorabile (anche per Apollonio, al cui cuore meglio ha sempre parlato il razionale piede di Platini) del suo talento intermittente e disordinato:

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (14)

Tutto, agli esseri umani, non è dato. Si sta così al qualcosa. È dono o condanna questo frammento, posto peraltro sotto l'inflessibile dominio del caso? Per colmo d'ironia, capita persino ci si trovi a scegliere. E, nella scelta, baluginano sistema e pertinenza. Dolce, paradossale, preziosa libertà da reclusi: la sola, fragile, di cui si disponga nell'accidentale spezzone esperito da un punto di vista. Ci si guardi dall'avvelenarla, facendone feticcio d'una sostanza e ridicola parodia dell'assoluto.

14 luglio 2014

Linguistica da strapazzo (31): Antonomasie sfacciatamente metalinguistiche

"La Mannschaft", "la Seleção", "la Selección": sono antonomasie e da qualche settimana sono state sparse con larghezza in un discorso pubblico italiano per nulla sofisticato, fatto al contrario di lingua popolare e con appello a processi figurati trasparenti: il discorso sportivo.
Le antonomasie sostituiscono opportunamente i nomi propri. Per esempio, "il Codino" non suona formalmente come "(Roberto) Baggio", ma quando si tratta di imbastire un (celere) discorso sul celebre attaccante italiano che fallì un decisivo rigore nel 1994 (e questa è una descrizione definita), l'antonomasia (quella in questione, peraltro, su base metonimica) e il nome proprio fanno egregiamente lo stesso lavoro. Aiutano inoltre alla realizzazione di quella variatio che funge forse da principale musa ispiratrice dell'espressione italiana di chi si vuol dare comunque uno stile.
Appunto, nel recente discorso sportivo italiano, "la Mannschaft", "la Seleção", "la Selección", come antonomasie, sono strumenti di evocativa variatio ma si segnalano, rispetto alle molte altre, per una loro particolarità.
Per un italiano o un'italiana davanti a un apparecchio televisivo, "la Mannschaft" vale quanto vale "la Germania", ovviamente intesa, questa, come rappresentanza sportiva nazionale (santo Cielo, come sono complicate, a volerle rendere esplicite, le chiacchiere più semplici). E vale "la Germania" in virtù del fatto formale che il suo cuore è una parola tedesca (sia o non sia tale parola trasparente, nel suo significato. Piuttosto: col genere, qui, come la si mette?).
"La Mannschaft" è, in altre parole, un'antonomasia-prestito e identifica i rappresentanti calcistici degli elargitori del prestito per via del loro codice d'espressione.
Si astengano a questo punto i cinque (maligni) lettori dal delirante pensiero che, se in questione è un prestito agli Italiani, tali elargitori, presane coscienza, pretendano presto di avere indietro l'antonomasia e col noto differenziale d'interesse.
Lo stesso del resto, mutatis mutandis, si può dire per "la Seleção" e per "la Selección", ma con l'aggiunta, nel caso della seconda, di qualche distinguo, qui negletto, perché Apollonio l'ha già fatta troppo lunga. Vuol solo precisare che il distinguo non riguarda, come di nuovo stanno certo pensando i soliti cinque, la prospettiva economica del prestito, anche qui delicata, ma per ragioni inverse alle sopra alluse.
Per essere efficaci quanto lo sono i nomi propri che esse sostituiscono, per riferirsi nel discorso italiano in modo univoco a ciò che designano, come appunto fanno, "la Mannschaft", "la Seleção", "la Selección" innescano insomma una sorta di cortocircuito sfacciatamente metalinguistico: 'per antonomasia, la squadra sportiva che rappresenta coloro che, quando vogliono designarla, nella loro lingua la dicono per antonomasia...'.
A ogni ricorrenza di tali antonomasie, il linguista da strapazzo ha gongolato. Del resto, a dire il vero, lo spettacolo non è mai stato un granché. Gli ha lasciato il tempo di farsi attraversare la mente da ogni sorta di corbelleria, oltre che da un grato pensiero per l'anima cara di Roman Jakobson. L'aveva detto: codice su codice. Sante parole.

6 luglio 2014

Realismo e figure






Il discorso realista è condannato alla metonimia e se, per riscattarsene, prova a procedere per metafore, ha già intonato, senza ammetterlo, la sua palinodia.

Lingua nostra (4): "canizza" o "canèa"

Parole venute allo scritto di livello da poco più di un secolo, se ci si può fidare dei dizionari. Immaginare che nel parlato, nella lingua speciale dei cacciatori, in particolare, non ci fossero da molto prima (esse o loro varianti localmente atteggiate) è difficile. 
È ovvio, d'altra parte, che, in giro per il mondo, lingua ce ne sia sempre stata molto più di quanto qualsiasi artifizio di memoria possa mai essersi sognato di fissare. La scrittura - soprattutto quella di livello - è e resta, in proposito, tecnologia principe.
Donde, la scelta. Chi scriveva non aveva evidentemente tenuto canizza o canèa come degne e le due parole se ne erano state buone, a fare il loro onesto lavoro fin quando (appunto tra fine Ottocento e inizi Novecento, a quanto pare: difficile si tratti di un caso) a qualcuno che di scrittura se ne intendeva devono esser più che venute utili (come direbbero i bottegai della lingua), parse degne di memoria e certo non solo nel loro denotativo valore venatorio. Insomma, pertinenti non tanto a designare un referente quanto a testimoniare l'esistenza di una relazione tra un significato e un significante. Relazione pronta appunto a divenire figura.
Canèa o canizza valgono allora "muta di cani che insegue la selvaggina; il suo abbaiare insistente e furioso", ma, nelle loro attestazioni più degne di rilievo, già forse prima, "schiamazzare di folla inferocita; clamore di campagne di stampa, di proteste contro idee, affermazioni che provocano scandalo, e le persone che le sostengono" e "Grida violente e scomposte, rumore alto e confuso; furia cieca e rabbiosa (ma anche abietta, un po' vile)".
Così emergono nello scritto, canizza o canèa, ad opera di Carducci e di D'Annunzio e poi di Bacchelli e di Pasolini. Lista modesta ma, forse, significativa.
Oggi, canizza o canèa le si legge e le si sente molto raramente. E come si diceva tempo fa per americanata, tale rarità di ricorrenza dimostra che è una fola la comune idea (a dire il vero, già a prima vista, molto ingenua) che presenza di parole e loro frequenza di apparizione nei discorsi di un momento storico siano in rapporto diretto con la presenza, in quel momento storico, di ciò che esse designano e con la sua banale ordinarietà. La banalità cela, talvolta (o sempre?), molto più dell'assenza. Dovrebbe essere banale dirlo. E c'è ideologia in ciò che si dice quanta ce n'è in ciò che non si dice, perché ci si scorda persino che vale la pena dirlo e si finisce per perdere anche le parole per dirlo.
In un'epoca di americanate sesquipedali, nessuno più dice americanata. Allo stesso modo, in un'epoca la cui comunicazione è per intero canizza o canèa (tra le futilità, per es., fa di recente da cinghiale cui corre dietro una canizza o una canèa il famigerato piuttosto che in uso "disgiuntivo", secondo quelli che se ne intendono: di ciò, però, un'altra volta), oggi che, si diceva appunto, è tutto un prodursi per iscritto e per orale in canizza o canèa non si trova nessuno che, notandolo, chiami col suo nome ciò che è canizza o canèa. 
Forse perché appunto nessuno più lo nota e come ci si è assuefatti all'americanata, assumendone dosi giornaliere sempre più massicce, così ci si è assuefatti alla canizza o canèa. E beate son state le orecchie di chi disponeva ancora delle parole appropriate a fare differenze e a marcare pertinenze (sui dizionari se ne ha testimonianza, come si diceva, fino a Pasolini: sarà un caso?). Parole indispensabili appunto per dire, oltre che vino al vino, anche cane al cane.

4 luglio 2014

Vito Catozzo, con l'aiuto di Roland Barthes

Sì, di Roland Barthes e della sua implacata e contrastata libidine di discernere. Scrittori e scriventi, dunque. Scrivere come funzione e scrivere come attività. Scrivere come un fare che si scioglie intero nella lingua, senza lasciar residui, e scrivere come un fare che attraversa la lingua (diversamente non potrebbe) per andare altrove (ma un altrove c'è? Si pone ci sia e la cosa deve bastare). 
Insomma, scrivere intransitivo (meglio sarebbe stato dire "in uso assoluto": ma si può fare il pedante con Barthes? Sì. E forse si deve, visto che ha avuto un codazzo) e scrivere transitivo.
Niente moralismi. Valori funzionali. Rapporti. Roba da valutare, certo, ma da non confondere nelle valutazioni. Né da confondere in relazione con il gusto e, soprattutto, col piacere. Discernere insomma: fino al limite, amoroso, di ciò che non pare più discernibile. E forse non lo è.
Ebbene, la parola di Vito Catozzo, e di altre maschere linguisticamente vere perché strampalate in modo rigorosamente sistematico, era espressione d'uno scrittore. La taglia? Che importa? Con Barthes, non è mai questione di taglia.
Poi, c'è stata l'espressione d'uno scrivente. E, stavolta, di taglia. Lo dicono numeri e fatti che rendono superflua ogni discussione e sospetto di invidiosa malevolenza ogni esibito spregio. 
Ma, come Barthes insegna e come si dice di pere e mele, scrittori e scriventi non possono essere gettati nel medesimo mucchio, nemmeno quando un caso del primo tipo e uno del secondo sono i modi con cui è accaduto d'esprimersi alla medesima persona. Una persona che, in modo infine non discernibile e dalla sua lontana Citera, Apollonio ha sempre trovato simpatica, forse non solo per via di un semplice legame generazionale.

Vocabol'aria (11): Riciclaggio di "università"

Con università fu designata un'istituzione moderna destinata a fingersi fatua e che così ha prosperato al tempo dei suoi ormai lontani fasti. Fingersi fatua era pregio non tra gli ultimi di tale ironica istituzione e, del resto, era proprio il suo tratto istituzionale distintivo. 
Poi, per seguitare l'andazzo, quando il livello di tolleranza sociale nei confronti della fatuità scese al di sotto anche della soglia di una sua ironica finzione, all'università toccò di cominciare a fingersi seria. Fu appunto l'inizio della fine. 
Da sempre, infatti, fingere serietà è tratto tipico di altre istituzioni, che all'uopo son venute alla luce (alcune da tempo immemorabile, altre più di recente: la fabbrica sociale ne è sempre all'opera) e sotto tale segno sono cresciute: chiese, magistrature, organismi politici. 
Esse riempivano il valore di finzione di serietà in modo ben più efficace di quanto facesse un'istituzione concepita invece, e poi nata, e sviluppatasi per fingersi fatua. Ovvio si sia a quel punto concluso non valesse più la pena di tenere in vita l'università. 
Come è facile rendersi conto, il nome università non è stato però abbandonato. Opportunamente riciclato, secondo lo spirito del tempo, sta appunto ancora risultando molto utile (senza sprechi lessicali di sorta) a designare qualcosa non facilmente definibile, in essenza. Affatto incapace di fingersi fatua per ironia, consegnata dalla storia, peraltro, all'inutilità paradossale della sua troppo scoperta finzione di serietà, l'istituzione oggi designata con università è forse, in conclusione, fatua soltanto e, stavolta, sul serio.