21 febbraio 2015

Sommessi commenti sul Moderno (15): Il diletto del pensiero e la valutazione di Minosse

Il pensiero viene da secoli di professionalizzazione crescente (pur se, talvolta, solo presunta: ma è l'apparenza che in proposito conta).
Philosophes, accademie, stampa, intellettuali (organici e critici), editoria, università, centri di ricerca, think tanks, fondazioni, scuole di eccellenza, e adesso, classifiche, graduatorie, quêtes spasmodiche d'improbabili finanziamenti per ancora più improbabili cacce a fumose pietre filosofali che, col pretesto della scarsità delle risorse, vellicano vanità di gente che, prendendosi molto sul serio (è il pericolo maggiore di chi pensa per lavoro - o dice di farlo), passa con facilità e massima soddisfazione da aule e laboratori (evidentemente mal tollerati, come ambienti) al ruolo di funzionario in panels, comitati e cricche comparabili: comiche repliche, insomma, di quel Minòs che "essamina le colpe ne l'entrata; / giudica e manda secondo ch'avvinghia". Un giro di coda, serie A; B, due giri; tre, C e così via.
Non c'è trovata del Moderno che non si sia del resto progressivamente trasformata in un inferno. Così è appunto accaduto anche alla professionalizzazione del pensiero: povera, illusa, candida anima del buon Wilhelm von Humboldt! In fondo, un dilettante. 
E al fondo di questo inferno, sotto i gironi dei professionisti del pensiero, ci sono appunto i gironi dei dilettanti. Apollonio li frequenta da sempre e, nei limiti delle sue forze, intende continuare. Li consiglia: ci si incontra, tra gli altri, il nominato, appunto. E non solo. E val la pena. 
Si soffre, sì, qualche disagio e c'è sempre qualche diavolaccio arruffone da scansare ma nulla a paragone di quelli che circolano tra i professionisti. E poi, si vuol mettere? Tra i dilettanti, col pensiero, ci si diletta. E il diletto del pensiero, come quello della natura e di molte altre cose evidenti, è ciò che la deriva del Moderno verso uno stato di putrefazione mette in pericolo ogni giorno di più.


Linguistica da strapazzo (36): Sineddoche, pertinenza, senso della misura

Il fatto è esecrabile. 
Il sistema economico dell'intrattenimento di masse di sfaccendati ha tuttavia un fondamentale pretesto: tenerli informati. Tenerli sfaccendati, cioè, ma senza un attimo spiritualmente libero. 
Esso vive allora di partite di pallone: qualcuna ha il gran merito d'essere divertente. Vive però (e forse di più) anche di ciò che accade intorno alle partite di pallone e quasi mai è divertente. Naturalmente, ciò che non è divertente si vende molto meglio di ciò che lo è. E poi, d'una partita di pallone, difficile si parli ancora il giorno dopo. Un fatto esecrabile è invece una piccola rendita. C'è materia per allargarsi: costume, politica, morale e altra varia umanità.
Nel fatto esecrabile, come s'è largamente visto, il sistema dell'intrattenimento di masse di sfaccendati ci ha allora inzuppato il suo pane. E pare deciso a insistere per un po'. Finché rende, perché no?
Chissà quanto inzupparci il pane sia attitudine responsabile, però. Si vivono tempi stupidini. Godere d'un quarto d'ora di notorietà per una propria impresa è quanto desidera tradizionalmente il vandalo da museo. Con un botto mediatico del genere, legato inoltre a un evento sportivo, probabile la pulsione si insinui al di là della cerchia ristretta dei frequentatori di istituzioni culturali e ispiri atti comparabili a habitués, peraltro più ingenui, di curve Sud. Sarebbe un guaio, ma non per il sistema economico dell'intrattenimento di masse di sfaccendati, che avrebbe modo di inzupparci nuovamente il suo pane.
Questi però son discorsi seri (e, tratti fino in fondo, portano a riflessioni serissime). Apollonio se ne ritrae immediatamente e chiede scusa ai suoi cinque lettori: non è roba per lui; per trattarne, bisogna avere la taglia appropriata; a scriverne, lui, rischia di farci la fine della rana della celebre storiella di Fedro. Insomma, serve senso della misura.
Il fatto è esecrabile, allora; il sistema economico dell'intrattenimento di masse di sfaccendati ne ha fatto occasione d'una sua bella e redditizia produzione; ciò che qui preme sono però tipiche questioni da linguista da strapazzo. Di taglia (e di taglio) del resto si tratta.
Tanti anni fa, ricorda Apollonio, una cara amica lo divertiva, istruendolo: L'esercito svizzero ha invaso il Canada, osservava (l'esempio non era in italiano, ma la faccenda è irrilevante), sarebbe descrizione ineccepibile del relativo evento anche nel caso in cui le bandiere rossocrociate avessero appena varcato l'immaginario confine tra i due stati. E, quindi, del Canada, la parte effettivamente invasa potesse dirsi se non irrisoria, certo non preponderante. 
In questi giorni, la cronaca permetterebbe di trovare esempi meno irrealistici: proporre un esperimento linguistico di pensiero ha tuttavia come buona norma che si evitino le interferenze e i temi caldi non sono in proposito i più acconci: donde una qualche insipidezza della lingua che circola negli studi grammaticali (e non, come pensano i maligni, perché i linguisti hanno poco cervello e ancor meno fantasia). 
Sul tema di questo "tutto" per "la parte", del resto, l'amica di Apollonio scrisse poi con acume, determinando anche un amico comune, e altrettanto caro, a farlo dietro il suo indirizzo.
Come sempre quando si tratta di lingua (e se ne tratta bene), l'esperienza è disponibile a chiunque e senza bisogno di ricorrere a temi bellici. 
L'espressione Migliaccio tocca duramente Pirlo, si ponga, sarà certamente capitato d'udirla (e di trovarla perfetta) quando i tacchetti dello scarpino del giocatore dell'Atalanta hanno aderito con una certa rudezza alla caviglia (e solo alla caviglia, destra o sinistra) dello juventino. 
E, un tempo a un adolescente bastava aver posto la sua mano sulla mano o, ancor di più, sul ginocchio d'una Maria per vederlo ritirarsi in estasi: Maria... t'ho toccata...
Ecco. Tutto lì, e si lascino pure da parte le parolone adoperate nel titolo di questo frustolo, per dargli un tono: sineddoche e pertinenza. 
Tuttò lì, però: sineddoche e pertinenza. E l'importante è averne un po' di consapevolezza. È, per accidentale campione, la naturale retorica della lingua, se retorica la si vuole ancora chiamare. Questa vecchia designazione, come grammatica, si porta dietro infatti tante di quelle inestirpabili implicazioni che l'uso naturale ne risulta forse impossibile.
Con qualsiasi nome la si chiami, per chi vuole stare sveglio e autenticamente sfaccendato, averne consapevolezza è tuttavia indispensabile, perché ogni giorno, più volte al giorno, può capitare di incontrare cose come "Jan, l'imprenditore ultrà del Feyenoord che ha devastato Roma", sapendo perfettamente di qual genere d'atto esecrabile si sta parlando ma, aderendo visceralmente chissà come, chissà perché, alla sua adeguata (ci mancherebbe, perfettamente adeguata) messa in scena linguistica e perdendo così una cosa preziosissima e irrecuperabile, a lungo andare: il senso della misura.

Vocabol'aria (14): "Contro" (o, se si preferisce, "vs")




Montano da ogni dove e per ogni occasione espressioni reboanti e muscolose. Sui loro scudi guerrieri, portano in genere incisa una cara, vecchia divisa nazionale: "Armiamoci e partite".

14 febbraio 2015

Generazione-"A me preoccupano..."

Dire o scrivere A me preoccupano queste vicende è testimoniare uno sviluppo sintattico ormai consolidato dell'espressione italiana. Qui, del fenomeno, si è fatta più volte questione e non si vuole annoiare ancora con i suoi triti aspetti normativi e grammaticali chi benevolmente legge questo diario. La grammatica dei grammatici è del resto solo la scorza (a volte indigeribile) di una lingua che invece, a saperla spremere, dà succhi gustosi.
Come accade con i veri mutamenti linguistici, per i parlanti che sono portatori dell'innovazione si tratta ormai di comportamento automatico e irriflesso, a proposito del quale, testimoniano un bassissimo livello di consapevolezza. Insomma, fanno qualcosa senza sapere ciò che fanno. 
"Perché? Come dovrei dire altrimenti?", ci si sente rispondere con fastidio se si ha l'improntitudine o il candore di interrogare in proposito chi così s'esprime.
Per servirsi allora d'un concetto di Edmund Husserl (la cui anima corrucciata si spera non fulmini chi osa evocarla in una sede tanto ignobile), si può dire che la Meinung del tipo A me preoccupano queste vicende è sprofondata nei recessi più silenziosi dell'incoscienza di chi ne proferisce ricorrenze. Ripescarla per farne oggetto di una riflessione, sempre alla buona, come usa qui, può essere divertente.
Lo straripante successo del tipo A me preoccupano queste vicende dice, da un lato, di una semplificazione (o, se si vuole, di un depauperamento) nello spettro delle risorse grammaticali che danno forma alla messa in prospettiva del ragionamento, dall'altro e correlativamente, di un aumento dell'ipocrisia nel rilievo che la prima persona grammaticale ha, in modo nuovamente crescente, dopo un periodo di maggiore controllo, nella parola italiana contemporanea.
Queste vicende mi preoccupano (cioè preoccupano me, si badi bene, non a me) è la piana forma cui fare corrispondere intuitivamente la più marcata A me preoccupano queste vicende. Con la sua semplicità, la prima dà tuttavia poca salienza alla prima persona: la particella atona mi è tutto quanto la lingua, formalmente, le concede. Poco, bisogna ammettere. Basta o, meglio, può bastare se chi parla non vuole stare troppo al centro dell'attenzione.
Un misero mi non basta certo, invece, a una intentio focalizzata da chi s'esprime su se stesso. Alla bisogna e nel caso specifico, risorsa tradizionale sarebbe allora il passivo: Sono preoccupato da queste vicende. 
Il passivo ha però qualche difetto: un tempo, lo si sarebbe magari detto pregio ma, come si sa, valutazioni del genere cambiano con le epoche: l'ingresso, locale d'attesa e di disimpegno, pregio dei vecchi appartamenti di civile abitazione, è tenuto ancora come tale? 
Anzitutto, il passivo comporta che, nella testa di chi se ne serve (e di conseguenza anche di chi l'interpreta) qualche rotella giri e qualche ingranaggio si metta in moto. Rispetto all'attivo, comporta insomma un calcolo grammaticale supplementare. Non si tratta infatti d'un semplice spostamento di pezzi; si tratta d'una rivalorizzazione di rapporti. L'oggetto ha da diventare soggetto. Il soggetto deve mettersi da parte e capita pure che sia invitato a uscire dalla comune. Come forma concettualmente più elaborata, il passivo alza inoltre il livello dell'espressione; infatti, di preferenza, lo si scrive (e lo si legge). 
Col passivo, insomma, c'è da faticare. E a qual pro? Vale la pena se, poi, in italiano (che, non lo si può negare, è in proposito una lingua molto elegante), per fare venire fuori in maniera esplicita l'io che preme dire, bisogna fare ancora uno sforzo? Perché, si badi bene, una volta fattosi soggetto, il pronome personale si tace, nel caso comune. D'abitudine, è solo la morfologia verbale a dare segnale di esistenza e natura della persona grammaticale del soggetto. 
Sparato in un discorso, fuori di una riconosciuta esigenza, Io sono preoccupato da queste vicende, con quell'io spudoratamente ridondante, fa megalomane o appena post-infantile. Trattandosi di passivo, ovviamente, più megalomane che post-infantile: bimbe e bimbi ci mettono del tempo a realizzare cosa mette a loro disposizione la bella risorsa delle diatesi.
Col passivo e quanto a fare mostra di sé, rispetto al mi che le concede l'attivo, la prima persona si trova in altri termini davanti a un'alternativa. O ottiene l'effetto paradosso (per quanto elegante) d'abbassarsi e d'intrupparsi così col resto (tempo e modo) che trova posto nella morfologia verbale. O esce sfacciatamente allo scoperto e si espone a quel punto al rischio che chi ascolta pensi (o addirittura dica) "Io sono preoccupato? Embè? Perché quell'io? Ti fossi montato la testa? Ma stiamo parlando di te? A chi vuoi che importi che tu sei preoccupato!".
Dal punto di vista della Meinung espressiva di una prima persona che vuole parlare di sé, il tipo A me preoccupano queste vicende è allora un uovo di Colombo. La forma che, senza troppa fatica (ché, di lavorare, e chi ne vuol più sapere?), risolve ogni problema per tutti gli io che, come si diceva, parlando di qualsiasi cosa, vogliono stare in primo piano, restando tuttavia abbastanza accorti (perché non si sa mai) nel darlo a vedere. 
Come livello di elaborazione funzionale, A me preoccupano queste vicende è infatti attiva e, a produrla e a interpretarla, c'è da fare solo il calcolo di base: è disponibile a ciascuno e, per dirla semplicemente, è "parlare come se magna", senza incartarsi in improbabili passivi. 
Con me in apertura, sottolineato inoltre dalla preposizione (la forma pronominale sola, poverina, non ce la farebbe), la prima persona ci fa la sua bella figura. Sta lì in primo piano. Non s'impegna, d'altra parte, a comparire come io, cioè, per dir così, in pompa magna. Me è l'abito che la prima persona indossa quando è retta, quando (non solo apparentemente) non fa da protagonista. Ma protagonista, nel caso specifico, pretende ipocritamente di essere. 
Non volesse fare da protagonista o non fosse ipocrita, direbbe, con diversi gradi di decenza e di esplicito rilievo, Queste vicende mi preoccupano o, con un po' di luce su se stessa, Sono preoccupato da queste vicende, o ancora, in un crescendo, Queste vicende preoccupano me e Io sono preoccupato da queste vicende. Allo stato, questa bella varietà espressiva, con le sue luci e le sue ombre, è sommersa dal tipo, conformisticamente dilagante e generalizzato, di A me preoccupano queste vicende. Ed ecco, quindi, la risposta che Apollonio suggerirebbe di dare a chi opponesse un "Perché? Come dovrei dire altrimenti?". In almeno quattro modi differenti, graduati quanto a effetto discorsivo. Peraltro (il che non guasta) tutti normativamente corretti, a differenza della forma che oggi va per la maggiore e che, come ogni innovazione, è sottilmente violenta (e volgare anzi che no).
Poi, però, Apollonio si ferma a riflettere. E intende che, alla fine, ancora una volta è forse solo una questione di generazione: generazione intellettuale, non anagrafica. Che c'è, insomma, una generazione-A me preoccupano queste vicende, riassunta e qualificata in questa forma, quanto alla sua profonda Meinung espressiva, cui semplicemente egli non appartiene. E pensa che tale generazione ha tutto il diritto di essere inconsapevole di ciò che dice e di non voler sentirsi dire, da chi la guarda da lontano, cosa le forme di ciò che dice dicono di lei. Ha tutto il diritto, in altre parole, di venire avanti, di nuovo e anch'essa, in prima persona, giustamente incurante delle sciocche elucubrazioni di un Apollonio qualsiasi, allattato sotto un cielo di Meinungen espressive differenti. 
Meno giustamente incurante, però, del tremendo giudizio (Apollonio non lo sposa ma lo tiene a mente, come un monito) che, come succo di un'altra epoca di fasti linguistici della prima persona, ebbe a dare un mirabile esperto: "l'io, io!... Il più lurido di tutti i pronomi!... I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi... e nelle unghie, allora... ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona".

[Alcuni precedenti: aprile 2010gennaio 2014ottobre 2014, con un commento che anticipa questo frustolo e rende conto del suo insorgere conclusivo.]

13 febbraio 2015

A grande richiesta... Trucioli di critica linguistica (2): San Valentino



Tra le giornate celebrative inventate dalla modernità putrefatta, solo alla festa della mamma si potrà concedere d'essere più stucchevole della festa degli innamorati. Anche in occasioni del genere, guizza tuttavia l'inquietante fiamma dello spirito e se ne fa occasione, salvifica, l'angelica presenza del danaro, segno ammonitore del mercato connaturato con ogni commercio tra gli esseri umani. Ovviamente, di quello dell'eros ma, quando è il caso, anche di quello dell'amore materno. Il mercato più diabolico è infatti quello che fa di tutto per nascondere di esserlo e spaccia a prezzi stracciati buoni sentimenti e migliori intenzioni, merce insomma velenosa e perversa.
Del mercato e del danaro, come è noto, la pubblicità fa letteratura. Come se ne fa mercato, si può fare infatti letteratura di ogni aspetto della vita. E al pari d'ogni altro prodotto dell'attività umana, la letteratura che la pubblicità fa del mercato e del danaro si distribuisce sopra i diversi gradi di una scala di valori. La gran parte della letteratura che secernono i creativi delle agenzie di comunicazione si addensa naturalmente su quelli più bassi, melensi e corrivi. Ma si dirà diversamente di quella che si deve a poeti (il povero Prévert incluso) e romanzieri?
Non è forse questo il caso della campagna 2011 di una multinazionale rappresentata in Italia da un'azienda cioccolatiera che fa tradizionalmente buoni affari per il giorno di San Valentino. O meglio, non è forse questo il caso del pay-off di tale campagna, osservato dalla modesta specola di chi si occupa di lingua.
Esso suona "Chi ama, Baci." e ha l'asseverativa andatura dei proverbi e delle massime di comportamento. L'enfatica menzione del nome del prodotto, Baci, vi lascia occhieggiare la modalità imperativa caratteristica di tal genere di comunicazione. Lo fa in maniera oltremodo accattivante e che suscita una speciale attenzione. La sollecita infatti al livello generale (e quasi irriflesso) della nativa competenza (meta)linguistica dei suoi destinatari.
L'effetto di straniamento è sottile. L'ingenua credenza che, in italiano, nomi e verbi siano sempre ben distinti ne viene sommossa e si rivela (senza che di necessità ce ne sia finale piena consapevolezza) che le parole hanno sì significato e forma ma che ambedue dipendono da valori combinatori e funzionali.
In corpore vili, la spiegazione viene dal creativo di un'agenzia di comunicazione. E a darla, lo ha spinto il danaro di un committente che intende così lucrare ancor meglio sulla stupidità della festa degli innamorati. Apollonio non si sente di escludere che l'uno e l'altro siano non solo epistemicamente ma anche eticamente più commendevoli di molti tra coloro che riempiono di corrività dottrinali i libri che occupano scaffali interi di biblioteche e di librerie.

[14 febbraio 2011]

Lingua loro (33): "Porre in essere"

Realizzare un piano... o (con perifrasi da lungo tempo praticate) mettere in atto un piano...dare vita a un piano... e così via: in tal modo si può comunemente e variabilmente dire, nel presente stato dell'espressione italiana.
Forme del genere devono essere però parse di poco pregio a chi, quando parla o scrive, vuole distinguersi. Ne è sorta da un po' e ormai dilaga la locuzione porre in essere.
Porre in essere è tra i massimi indici lessicali di un registro espressivo che, per brevità, è definibile come lingua da assessore. Sotto qualunque veste si presenti, chi dice o scrive porre in essere svela così d'essere un assessore. Assessore, eventualmente, alla cultura e, si desse un caso ancora più raffinato, assessore alla difesa della bellezza dell'italiano, alla regolamentazione del suo traffico e alla manutenzione dei relativi metaforici semafori.
A conferma, si trova appunto un esempio istruttivo e spassoso di porre in essere seguendo questo link (e Apollonio chiede scusa ai suoi cinque lettori se saranno esposti così a un paio di brevi annunci pubblicitari: è il prezzo che capita di pagare per documentarsi). 

11 febbraio 2015

Cronache dal demo di Colono (30): Rome

Cosa sono le cose che i nomi propri denominano? La questione incarta i logici da gran tempo e Apollonio si guarda bene dall'aggiungervi motto. Del resto, non ne sarebbe capace: la realtà - lo ha confessato più volte - per lui è veramente troppo. 
Quindi che posto sia Roma, quel luogo del mondo che per più di duemila e settecento anni ha risposto allo stesso nome (enorme, eccezionale bizzarria, se ci si pensa un attimo), cosa sia quel luogo, Apollonio dichiara appunto di non saperlo. E di non sapere se Rome e Roma siano o no lo stesso posto.
Da modesto osservatore dell'espressione (porzione della realtà anch'essa, forse; altamente fantasmatica però), da analista delle chiacchiere o (come affermano quelli che si voglion dare importanza) del discorso, insomma, da praticone della lingua, assicurerebbe però, a chi glielo chiedesse, che Roma e Rome non sono la stessa cosa. E che dicendo Roma o Rome non si dice la stessa cosa. E che una cosa è presentarsi come Roma, una cosa diversa è farlo come Rome.
Poi, naturalmente, si è liberi di scegliere. E sin dalla più tenera età, Apollonio ricorda del resto il caso di qualche Maria che, di punto in bianco, cominciava ad andare in giro pel mondo dicendo di chiamarsi Mary. 
Le Maria-Mary, le Addolorata-Dolores e, in un crescendo di fantasia, le Vincenza-Cynthia, le estrose Nancy che per i nonni rispondevano invece al delizioso nome di Nunzia e così via, Apollonio le ricorda peraltro senza scandalo, ci mancherebbe. Poveracce, però. Meritevoli di un filo di tenera compassione. 
La medesima che da oggi suscita appunto Roma. Pardon! Rome, come Roma pretende di chiamarsi, poveraccia, per darsi un tono, andando in giro pel mondo.

[Per chi fosse all'oscuro, ecco il fatto.]

10 febbraio 2015

Febbraio a S. Cono

La "Parte quinta" del Gattopardo non se l'è mai filata nessuno qui Apollonio forse l'ha già scritto. Altrove, anche in rete, certamente l'ha fatto, e con futili pretesti, il suo alter ego
Sarà perché nella "Parte quinta" non circola Don Fabrizio. E nessun'altra delle belle figure di facciata, Tancredi e Angelica, soprattutto, che gli fanno da corte nel romanzo. Vi viene invece in primo piano quel padre Pirrone, il gesuita etimologicamente parassita, che non ha mai acceso la fantasia di critici e lettori. 
Sarà perché alla "Parte quinta" non fa da sfondo la Palermo delle ville, dei conventi e dei palazzi, né l'arsa e mitica Donnafugata, che i notabili di molti borghi siciliani giurano ispirata allo scrittore dalla loro ridente cittadina (sempre con larghezza di prove e, pretende ciascuno, innegabili coincidenze). Tutto si svolge invece nell'oscura "S. Cono, un paese piccino piccino", la cui realtà, grazie al Cielo, nessuno rivendica.
Sarà perché, delle otto che compongono l'opera, la "Parte quinta" (chissà se qualcuno l'ha mai notato) è l'unica che si svolge in inverno: "Febbraio 1861". E in un'epoca di scritture e di letture irrimediabilmente piccolo-borghesi (esattamente come le complementari vacanze), d'inverno, in Sicilia, si dica la verità, che ci si va mai a fare?
Per questo, la "Parte quinta" del Gattopardo (che Apollonio, da vecchio "strutturalista", si guarda bene dal dire che è la migliore o la più importante dell'opera: la relazione, la relazione è ciò che conta e che dà valore al sistema e ai dettagli!), per questo, si diceva, la "Parte quinta" è così divertente da percorrere, andando distesamente a spasso, come in un'oasi naturale protetta non da volontà umana ma dalla sua miracolosa (e ricercata?) irrilevanza.
Andarci a spasso sicuri di non incontrare nessuno, se non, nella parola del narratore, padre Pirrone, la sua famiglia e qualche altro abitante di S. Cono, godendo inoltre di scorci, annusando gli odori, udendo voci e rumori.
Ecco, solo questo. Questo frustolo compita allora "in una soleggiata Domenica di febbraio sonora di venti che sfogliavano i fiori dei mandorli". E lo fa forse solo per nostalgia di un febbraio vissuto in una S. Cono che è un luogo precisissimo dello spirito e, come tale, indeterminabile e irrivendicabile.

[A beneficio e per soddisfazione degli eruditi: San Cono è il santo patrono di Naso, cospicuo comune dei Nebrodi, affacciato sopra uno splendido panorama del Tirreno meridionale, che si raggiunge, rimontando la bella Strada Statale 116, dalla - ormai, purtroppo, degradata - Capo d'Orlando dei Piccolo di Calanovella: il fondamento biografico è quindi assicurato.] 

7 febbraio 2015

Parole che parlano (6): "Contenuti"



Li si chiama contenuti, oggi, forse perché sono sovente la prova che chi li conteneva non ha saputo contenersi.

3 febbraio 2015

Vocabol'aria (13): "Ai miei tempi"

Chiunque può dire "ai miei tempi...". È vero tuttavia che immaginare che lo proferisca chi è sotto i venti anni è duro.
Tra gli "studiati" (bella designazione riapparsa fausta nella memoria d'Apollonio), basta però avere varcato la soglia del second'anno d'università - non essere più matricole (altra vecchia parola!) - basta poco, insomma, per sentirsi autorizzati a dire "ai miei tempi...".  
E lì, prendendo i toni vissuti dell'uomo o della donna di mondo e in malcelato dispregio di un presente decaduto e, caso mai, da restaurare, narrazioni di epiche marachelle, di insegnanti severissimi o beffati, di "studio matto e disperatissimo", di programmi formativi di qualità, di antichi valori culturali, di letture e traduzioni di migliaia di irte pagine, di amicizie cementate nei bagni della scuola e così via. 
"Ai miei tempi...": oggi capita d'ascoltarlo sulle labbra o di coglierlo sotto la penna di chi, navigando, felice lei o lui, nei suoi anni migliori (e certamente non vetusti), già (o ancora?) vi indulge pubblicamente. E, come dettaglio espressivo, è deliziosa e coerente nota di una temperie morbidamente reazionaria e nostalgicamente post-adolescenziale.

2 febbraio 2015

Linguistica candida (26): La mirabile versione del Barone di Munchausen

L'opinione che in un modo o nell'altro saremmo "noi", gli esseri umani, a esserci costruiti la lingua circola nel Moderno - è anzi quasi un luogo comune, a diversi livelli di consapevolezza intellettuale e di sofisticazione scientifica. 
Ogni volta che ad Apollonio capita di coglierla, gli si forma, incoercibile, un sorriso, talvolta solo interiore, per via di decenza ma anche di un rispetto che cresce in modo inversamente proporzionale all'autorità sociale di chi lo riscuote.
Lo riconosce: è il medesimo sorriso che da bambino gli provocò la lettura del fulmineo e fanfaronesco rendiconto di una delle celebri avventure del Barone di Munchausen.
Eccolo, nella traduzione di Maria Luisa Agosti: "Ero ancor dentro le nuvole per più di tre chilometri, quando il canapo si spezzò e io caddi al suolo con tanta violenza che, ripresi i sensi, mi ritrovai tutto stordito dentro una buca profonda quindici metri dalla quale non riuscivo a immaginare come sarei venuto fuori. Non c'era altro mezzo che andare a casa, prendere una vanga e scavarmi dei gradini: la qual cosa riuscii a portare a termine prima che il castaldo si fosse accorto della mia assenza".