31 ottobre 2015

San Pier Paolo

Con la rara eccezione di qualche vena marginale o, forse meglio, di qualche figura solitaria, il ceto intellettuale italiano, pur diviso in fazioni, affonda comunemente le sue radici in un humus clericale. Né la qualificazione va qui intesa come se fosse espressa a suo disdoro.
Si tratta del resto di un dato di fatto tanto storicamente evidente e pregnante che è certo inutile prendersi la pena di affermarlo. Meglio, di ribadirlo: è stato infatti già molte volte osservato, da sguardi acuti e autorevoli. 
Capita però che, come di altre ovvietà nazionali (fragilità del territorio, acuta predisposizione al familismo e così via), ci se ne scordi. E capita così che, di tanto in tanto, un campione di tale ceto lo scopra (o faccia sembiante di scoprirlo) a proposito delle conventicole altrui (difficilmente della propria, quasi mai di se medesimo) e ne affetti sorpresa o ne meni scandalo. 
Se Apollonio affettasse sorpresa di tali (simulate) sorprese o menasse scandalo degli scandali connessi sarebbe ancora più sciocco di come egli è. C'è da meravigliarsi infatti dei temporali autunnali? E dare del bipede a un essere umano è oltraggiarlo?
A fare dei chierici italiani ciò che sono è stata una storia millenaria, peraltro piena di pagine culturalmente gloriosissime, oltre che, come tutte le storie, irrefutabile. Secondo regole, essa ha prodotto così i chierici regolari e, regolarmente, anche i chierici regolari che additano, con sorpresa, scandalo e riprovazione, il clericalismo degli appartenenti a un ordine diverso dal proprio. 
Più ragionevolmente e con sorridente rassegnazione, bisogna invece prendere i chierici italiani per ciò che sono. Del resto, come quelli di altre nazioni e come tutti, non hanno solo difetti.
Tra le spie acutissime del persistente habitus moralmente clericale del ceto intellettuale italiano, c'è il suo impulso irrefrenabile alla canonizzazione dei suoi esponenti più eminenti e naturalmente, di preferenza, defunti. 
Solo di preferenza, però, dal momento che non sono rare le canonizzazioni di viventi: l'allungamento medio della vita sta peraltro favorendo il fenomeno. E gli anziani santi in circolazione proliferano, a credere alle gazzette e a quei festival che, ormai capillarmente diffusi sul territorio nazionale, non si può dire non somiglino alle tradizionali e altrettanto diffuse feste paesane del santo patrono. E, dietro l'esempio dei più anziani, una canonizzazione auguralmente prossima prospettano a se medesimi i meno anziani, come obiettivo della loro militanza. L'esempio è del resto un grande motore per la pratica delle virtù eroiche che conducono alla santità.
Correlativamente, si fa intensa (restando tuttavia sempre economicamente modesta) l'attività di stampa e diffusione di immaginette sacre. Beghine e beghini di nuova fattura ma di vecchio conio le collezionano e le commentano con un fervore che la comunione morale e sentimentale così istituita fa crescere sovente a dismisura.
Se sono già santi parecchi vivi, ci si figuri quanto santi sono i suoi defunti, per il ceto intellettuale italiano. Il culto dei santi defunti vi attraversa periodicamente fasi parossistiche. Ne dànno occasione quelle commemorazioni anniversarie che moltiplicano i riti e le pubblicazioni di stile e d'intento agiografici.
Al pari di quanto accade con i santi della religione nazionale tradizionale, anche tra quelli del ceto intellettuale italiano, ci sono del resto i tipi, come specificazione della virtù condotta al suo estremo o della faccetta del passaggio per il mondo da considerare pertinente in funzione della canonizzazione. Non si sa se ci siano, è vero, i vergini ma certamente ci sono (e non si faccia caso al genere: è solo il non-marcato) i papi, i vescovi, gli abati, i dottori, i catechisti, gli eremiti, gli anacoreti, i pellegrini, i fondatori di ordini e altre categorie rilevanti. 
Ci sono naturalmente anche i martiri. Lo ricordano ad Apollonio, proprio in questi giorni, le celebrazioni commemorative di un grande santo del ceto intellettuale italiano, nel cui nome Apollonio trovò, anni fa, un anagramma forse irriverente, ma (gli si creda) irriverente per via di un sorriso oltremodo rispettoso. 
Di tale santo, è impossibile dire che, con acuta intelligenza, non avesse chiaro di qual genere fosse la stoffa morale della società intellettuale in cui ebbe a giocare un gran ruolo. Come è impossibile dire di lui che non fece di tutto per prendervi dimensioni e figura di santo, una volta fattosi perfettamente coerente con tale stoffa, per chiare doti naturali, nella sua regolarissima irregolarità.
In questi giorni circolano appunto tante reliquie di san Pier Paolo. E circolano, per profluvio, le sue immaginette sacre. Difficile trattenersi dal dire che Pasolini ha oggi proprio ciò che allora acutamente immaginò e volle fortemente che il futuro gli riservasse: la fama e il destino di un martire santo.

30 ottobre 2015

Nomen, non me (13)







SANNO LE ZIZZANIE DI GAIA MORTADELLA? NO!






[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta.]

Parabole (3): "Ma il cielo è sempre più blu"

Estrapolando una frase dal suo contesto - lo si dice sempre ed è quasi un adagio - si può far dire a chiunque qualsiasi cosa. 
Un'illustrazione lampante dell'evenienza è disponibile in questi giorni. "Ma il cielo è sempre più blu" dice il ritornello di una canzonetta degli anni Settanta del secolo scorso di Rino Gaetano, cantautore della cui vena amara e ironica (se non disperata, come si incaricò di confermare tristemente la sua giovane vita spezzata) è difficile dubitare. Del resto, per rendersene conto o per ricordarsene, non sarà necessario ai due lettori di Apollonio ascoltare per intero gli otto minuti della menzionata canzonetta:



Fuori del contesto di cui faceva parte e inopinatamente depurato da ogni valore di sarcasmo e di contrapposizione (come si diceva, forse anche di una disperazione autentica), un lacerto della parola di un tormentato cantautore, attivo peraltro in un decennio italiano tormentatissimo cui egli non sopravvisse, oggi accompagna e conclude gli annunci (qui raggiungibili) con i quali la Rai celebra i fasti di chiusura e il commendevole successo di Expo. E "Ma il cielo è sempre più blu" vi fa da proiezione espressiva di gloriosa speranza e di speranzosa gloria.
L'anziano filologo quotidiano può solo sorriderne dolceamaramente, pensando a quel povero ragazzone e alla parabola della sua parola distorta. E qui contraddicendosi apertamente, "Il silenzio, il silenzio..." (ma nemmeno quello assicura).

28 ottobre 2015

Linguistica da strapazzo (40): - "La fauci?" - "Io sì, da quando son nato. E tu?"


Ecco una spassosa applicazione, ispirata alla Gnòsi delle fànfole di Fosco Maraini, della proprietà dei nomi propri di non aver senso. Meglio (per non incorrere nell'aporia in cui incorrono i filosofi, cui del resto di capire come funziona la lingua giustamente poco cale), di non avere senso come si trovano ad averlo le parole comuni, pur restando i nomi propri titolari (e come si potrebbe diversamente?) di una forma pronta a fare da vettore, con le sue proprietà manifeste, di associazioni segniche fantasiose ma, si badi bene, tutte rigorosamente sistematiche: metasemantica, propose Maraini di definire la tecnica.
Chi direbbe che Paceco non è un impeccabile aggettivo? E perché in un discorso (in)sensato Frazzanò non dovrebbe poter figurare da perfetta terza persona singolare del passato remoto di un verbo formalmente ineccepibile come l'ipotetico frazzanare? Anzi, visto lo stato in cui si trovano, per via di annosa incuria, il territorio nazionale e il siciliano in particolare, Apollonio propone che un verbo del genere entri nei dizionari, con il significato di 'subire danni, essere diventato impraticabile per via di movimenti del terreno': "È (o "ha"? Decideranno i grammatici) frazzanato di tutto, questo autunno, in Sicilia".  
Nella divertente performance, il gioco a tratti si fa troppo facile e scoperto. Ci sono infatti toponimi (ancora) chiaramente correlabili a quei nomi comuni, corredati sovente da attributo, da cui li ha tratti un'antonomasia: Belpasso.
A rendere opachi anche tali toponimi, come ha fatto con tutti gli altri, penserà il tempo ma non c'è da illudersi in proposito che, pur realizzandosi i voti più fausti, Apollonio e i suoi due lettori vedranno quel momento. Quei nomi propri diventeranno solo allora materia per i cacciatori di etimi, gustosa selvaggina linguistica che non ha mai difettato di amatori raffinati, tra i quali si sono sempre contati, ovviamente, anche molti esilaranti millantatori (è la non rara attitudine di chi pratica certi sport).
Solo una nota pedante, in conclusione, ma dai riflessi morali. Al giovane performer, ma non a lui solo né gliene si può fare una colpa, sfugge che Giancaxio, testimone d'una antica grafia, andrebbe pronunciato come fosse Giancascio, al pari di Muxaro, Xaxa (caso già menzionato in questo diario) e Craxi.
Dove ognun vede come ci siano appunto errori inestirpabili e come sia appunto una "fànfola" che la verità finisce sempre per affermarsi: testardi, irredenti e irriducibili consultino, in proposito, il prezioso Dizionario onomastico della Sicilia del compianto Girolamo Caracausi (naturalmente, "Per combinare il pranzo con la cena, io girolamo come una trottola e tu, sfaccendato incosciente, caracausi per casa in mutande tutto il santo giorno").

[Apollonio non è in grado di eliminare dalle immagini gli eventuali inserti pubblicitari: se ne scusa.]

25 ottobre 2015

Farse in due battute (14)





- ...del resto, se a farlo non ci fossi io, ci sarebbe certo qualche altro...
- Proprio così. Ed è esattamente la ragione per cui è significativo che, a farlo, ci sia appunto tu e non un altro.

11 ottobre 2015

Caratteri (20): Il fine intenditore dell'intelligenza


È un narcisista sofisticato chi, qual fine intenditore dell'intelligenza, ne distribuisce regolari lodi pubbliche, a dritta e a manca. Sa infatti che tutte gli verranno rese, con gli interessi, dall'umana vanità: chi ammetterebbe mai che a procurargli lode d'intelligenza è uno sciocco? Lo stagno, come uno specchio, gli confermerà così, amplificata nei suoi molteplici riflessi, la convinzione che è lui senz'altro il più intelligente del reame.

9 ottobre 2015

A frusto a frusto (99)





Alla credibilità morale dell'affermazione, consolatoria e autoassolutoria, che chi vale finisce prima o poi per imporsi (e, così, per sopravvivere) gioverebbe molto che, anche solo di tanto in tanto, a proferirla fosse un "sommerso" e non un "salvato", come capita invece con regolarità.

La bolla speculativa della parola edificante

C'è un gran proliferare di parole edificanti nell'ambiente intellettuale degli ultimi decenni e non c'è più quasi nessuno che apra bocca o prenda una penna, senza che si atteggi a farlo per nobili fini di costruzione e di elevazione morale dell'umanità (o di ogni altra porzione dell'umano consorzio). 
Per similitudine, il caso materiale dell'intensa edificazione del territorio dovrebbe mettere in guardia.
Dovrebbe insinuare il sospetto che, anche a fondamento di un'edificazione morale frenetica come è la presente, ci sia anzitutto un'attitudine speculativa (a rischio di rivelarsi una bolla, quindi) e che chi edifica e, sul già esistente, prospetta elevazioni, per ipocrisia o per insipienza e in barba al bene comune, persegua in realtà privati tornaconti, consensi facili e plaudenti, modeste prebende e premi che, date le ristrettezze dei tempi, sono necessariamente miseri. 
Le sue edificazioni ed elevazioni morali devastano frattanto l'ambiente spirituale, che in essenza è invece vario e composito e da cui spontaneamente, senza che nessuno voglia, sappia o possa indurla, nasce l'intelligenza, come del resto dal materiale e naturale (e non dalle speculazioni edilizie) nasce la vita.
E con l'intelligenza, salvandosi da edificazioni ed elevazioni, sbocciano come profumati fiori di campo anche pensieri probi e, talvolta, persino quella buona letteratura che appunto non è mai stata, non è né mai sarà parola edificante. 

Cronache dal demo di Colono (37): Ancora esiti dell'abbaglio di Porta Pia


La storia, quella vera che intreccia rigorosamente vita e civiltà di comunità umane complesse, non fa sconti e presenta per secoli il conto di atti sconsiderati e violenti. Quando dell'avere dimenticato tutto si fa vanto paradossale, con pretesa che sia buona condizione per vivere bene il presente e guardare al futuro, ci si chiede allora il perché di piaghe purulente e resistenti a cure in realtà solo velleitarie e immaginarie. Al primo errore, che aprì la breccia, si aggiungono errori in serie infinita. E non si capisce che, centocinquanta anni fa, Roma la si sarebbe dovuta lasciare amministrare al Papa, che vi signoreggiava, sebbene temporalmente, da ben più di un millennio, con qualche non trascurabile successo. E forse, come sola via di riparazione, sarebbe il caso di chiedere al Papa, rivolgendogli molte scuse, la cortesia di riprendersela, più guasta di come gliela si prese e come la si è frattanto ridotta.

8 ottobre 2015

Sommessi commenti sul Moderno (19): Grand Tour


Andare a vedere, anzitutto. Con pretesa, talvolta, di capire. Come se andare bastasse o fosse necessario per vedere. Come se vedere bastasse o fosse necessario per capire. 
La catastrofe antropologica contemporanea che va sotto il nome di turismo ha una ragione morale - l'economica ne è solo un riflesso. È una rovinosa mancanza di immaginazione, combinata ovviamente con la disponibilità di mezzi che, ritenuti atti a sopperirvi, la incoraggiano e ne amplificano gli effetti. 
Non va taciuto però che la velenosa linfa che nutre il turismo viene dal cuore del Moderno. Anche per questo aspetto, malgrado le sue pose e le sue pretese, il Moderno si rivela per ciò che veramente fu: il ritorno di una civiltà ormai più che matura verso una nuova infanzia improvvida e pericolosa, l'esordio conclamato di quel rimbambimento che oggi si vive in forme già più che macroscopiche. Minacciose di non essere ancora le piene, però, visto che crescono gli strumenti con cui questa vecchiaia demente e generalizzata può dilettarsi a rompere il giocattolo, per andare a vederlo, con risibile pretesa di capirlo. 

5 ottobre 2015

Lo strambo paradosso della rivendicazione di utilità (sociale) dell'otium

Affiora qui e là in questi giorni, anche in scritti peraltro commendevoli di sodali di Apollonio, la rivendicazione dell'utilità (sociale) dell'otium. L'intenzione è buona ma di buone intenzioni, dice l'adagio, è lastricata la via dell'inferno. E ricondurre anche l'otium all'utile, con la scusa di giustificarne l'esistenza e di redimerlo così nella considerazione del mondo, è per sostanziale paradosso condannarlo all'inferno di un assoluto ideologico e alle sue pratiche perverse e diaboliche.
Dell'esistenza umana nel mondo, fin dal momento in cui essa ha lasciato tracce intellegibili, non si può dire che non sia stata, in un modo o nell'altro, orientata da fini di (apparente) utilità e da fini che, chi li aveva (perché non c'è fine che non risieda in un soggetto che se lo pone come tale), immaginava coincidessero con i propri interessi (interesse al benessere, alla sopravvivenza e a ogni altro agio: per es. a godere dell'ozio; si badi bene, dell'ozio; l'otium è altro). 
Messa pure da parte ogni considerazione sulla frequente fallacia di simili prospettive (i disegni umani non sbagliano sempre, che sarebbe pure una certezza; sbagliano senza che si possa sapere con certezza quando sbaglieranno e i conti si fanno impietosamente quando l'imponderabile errore è ormai fatto), la pacifica, onesta, condivisibile constatazione dell'orientamento umano all'utile diventa ideologia (e pericolosissima ideologia) nel momento in cui fa dell'orientamento a tale fine il principio unico non solo dell'agire degli esseri umani nel mondo (che sarebbe già esagerato) ma della loro intera esistenza. Esistere sarebbe concepire, avere il fine del conseguimento di un utile e orientarsi verso esso. E l'essere umano una macchina conseguente, come se l'utile come fine fosse in fin dei conti l'essenza e il fine dell'umanità.
Come tutte le idee che assolutizzano un aspetto dello sfaccettato insistere dell'umanità sulla terra, anche questa è perniciosa e funesta, oltre che di rara volgarità. Può capitare che talvolta, agghindata per le feste e avanzando con sussiego tra cortine fumogene, essa frequenti i raffinati salotti delle due culture, tanto l'umanistica quanto la scientifica, e che sia faticoso smascherarla. Uno stato delle cose tale da ispirare, insomma, il rovesciamento teoretico di un vieto luogo comune morale. Non "il fine giustifica i mezzi" ma gli scarsi mezzi di cui dispone, di norma, l'ingegno di chi prova a farsi una ragione dell'esistenza e dell'agire umani giustificano l'incontrollato proliferare dei fini e dei fini orientati all'utile, in solo presunti tentativi di spiegazione.
L'otium (come altro che qui non si elenca, per evitare corrività e soggettivismi, e che i due lettori di Apollonio potranno integrare come a loro piacerà) non è dunque utile perché non è riconducibile alla categoria dell'utile. La delimita anzi, come il termine marcato e positivo di un'opposizione, il cui altro termine è appunto, come negazione della sua marcatezza, il negotium. Qui, e non in riferimento all'otium, l'utile e le prospettive che mirano al suo conseguimento hanno un ruolo importante. Non da sole, peraltro.
Ed è dunque per una ragione teoretica (o di etica della conoscenza, se si vuole), prima che per banali ragioni morali (e ce ne sono molte, banalissime, che parlano al suo cuore ma che qui è giusto tacciano), che Apollonio non condivide le argomentazioni, pur commendevoli nelle intenzioni, di quei suoi sodali (e di altri, che Apollonio teme meno puri di cuore) quando capita che difendano come infine utili le manifestazioni dell'otium contingenti e, attualmente, in via di grave deperimento nella considerazione universale.
Di ciò che non serve a nulla va invece detto apertamente e con onestà che non serve a nulla e che proprio in questa assenza d'utile risiedono forse per la gran parte il suo valore e il suo pregio.

2 ottobre 2015

Lingua nostra (9): "Disfando"

"...in un contesto che si sta disfando" dice il simpatico e garbato conduttore del programma televisivo d'un canale culturale della RAI, al cospetto del professore d'università di turno che, forse anche perché straniero, non fa una piega. 
E dopo pochi secondi, di nuovo: "...si sta disfando". Per lui, evidentemente, è questa, con naturalezza d'espressione, la forma del gerundio di disfare. Gliene si vorrà per questo? Si sarebbe ingenerosi, oltre che insopportabilmente pedanti. Se lo si interrogasse in proposito, quel conduttore, certamente sarebbe capace di compitare la forma che le grammatiche riferiscono come corretta e, informato della ragione dell'interrogazione, direbbe stupefatto: "Io, disfando? Ma quando mai...". E invece sì. Testimone Gilles Pécout, il professore foresto, tra il ventisettesimo e il ventottesimo minuto della trasmissione (tema, quel pericoloso scavezzacollo di Gioacchino Murat) peraltro molto ben fatta, divertente e istruttiva.
Un'interrogazione grammaticale è però cosa ben diversa dell'attività di parola. Spesso i censori se ne scordano. Non sono i soli, del resto; ci sono scienziati che dicono di studiare appunto scientificamente come son messe le parole nel cervello umano giocando a farne dire un po' alle loro cavie, secondo vari stimoli, e ci sono filosofi che li prendono sul serio. Ma s'è mai visto qualcuno che, fuori degli esperimenti scientifici organizzati scientificamente da quegli scienziati, abbia simili comportamenti? Cosa studiano allora scientificamente quegli scienziati? La lingua? C'è da dubitarne. Una deliziosa fantasia, loro e dei filosofi che ci credono, piuttosto.
Appunto, con la funzione metalinguistica in primo piano (e in un primo piano distorto da un esplicito insegnamento e apprendimento normativo o da un'esplicita richiesta) un'interrogazione grammaticale è però cosa ben diversa dell'attività di parola, dove non è che la pratica valga più della grammatica (come dicono i grossolani) ma la grammatica - rigorosissima - ha vie sistematiche che il grammatico (quello delle regole) conosce poco (o capita che nemmeno conosca).
A chi, del resto, non è venuto fatto, parlando, di disfare un'eccezione: da bambini, e prima di venire traviati da maestre e maestri, a bizzeffe. E Apollonio ricorda sempre con struggente tenerezza un "Aspettami papà, vieno" che, lanciato da un verone del paterno ostello, carezzò le sue orecchie sono ormai forse troppi anni. Disfare è poi più di un'eccezione, è una collezione di eccezioni. Come quel fare su cui è fatto ma che tutti si rispetta perché se si disfa fare come si fa?
Nel caso specifico, poi, non c'è da farla lunga, come la sta facendo Apollonio. La faccenda del "disfando" si fa lungo linee chiare e ben note ai filologi: tendenziale regolarizzazione del paradigma come riflesso particolare dell'analogia. Gran motore del mutamento linguistico, l'analogia. Una forza che - i parlanti che ne vengono "agiti" raramente se ne rendono conto - le lingue (soprattutto in superficie), le disfa e le fa. Con il tempo e nella storia.

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (21): Complicità


C'è la convergenza d'interessi, ordinaria e bottegaia. All'opposto, rarissima e preziosa al pari d'una grazia, c'è la complicità, non di rado accidentata, come ha da essere, se è tra persone autentiche. Fuori di ciò che la natura rende un obbligo, forse non c'è niente meritevole d'esistere il cui valore domandi imperativamente il concorso di più d'un essere umano. Ma se c'è, si tratti di una grande impresa, di un amore, di un crimine, della compagnia per un tratto di vita, per realizzare il suo valore potenziale, ciò che merita di esistere, a quegli esseri umani, altrettanto imperativamente domanda la complicità.

A frusto a frusto (98)





Prova di virtù eroica (forse la sola): resistere alla tentazione di proclamare che il mondo non va nel verso giusto solo perché non va in un verso che piace.