Utile per mettere a fuoco l'ambiguità in questione è forse un esempio peregrino, nel contesto, ma piuttosto semplice e intuitivo, ci si augura.
Si ponga di assistere alla reciproca spulciatura di due scimmie. Si descriverà appropriatamente la scena dicendo Le scimmie si stanno spulciando. Si metta a questo punto che, dopo averlo fatto vicendevolmente, ciascuna delle due scimmie continui con la spulciatura di se stessa. Si descriverà la scena dicendo di nuovo Le scimmie si stanno spulciando.
Ecco: sotto condizioni sintattiche che qui non mette conto di enumerare pedantescamente, per non rendere il frustolo ancora più indigeribile, l'italiano ha forme che non distinguono tra diatesi reciproca e diatesi riflessiva. E se si vuole renderle diverse formalmente si deve dire più di ciò che capita di proferire di solito e per brevità, confidando in proposito nella chiarezza che viene dal contesto e da conoscenze pregresse.
Sulla falsariga dei primati e delle pulci (o della pulce del primato), di nuovo, un paio di esempi, forse oggi ancora più semplici e intuitivi. Il Matteo padano e il Matteo toscano si disprezzano: per renderne esplicita la reciprocità, si può aggiungere un vicendevolmente (o un reciprocamente, un l'un l'altro). Ma non si finisce così per essere ridondanti, in funzione del contesto? Sapendo un po' come i due Mattei oggi si presentano, a chi mai verrebbe in mente, ascoltando quell'espressione, che 'il Matteo padano disprezza se stesso e il Matteo toscano disprezza se stesso' e quindi un'interpretazione riflessiva?
In modo converso, aperte ragioni contestuali escludono si intenda come reciproca Il Matteo padano e il Matteo toscano si piacciono. Si sa benissimo infatti che ciascuno piace a se stesso e pochissimo o per nulla l'uno piace all'altro. D'altra parte, con simili esempi cervellotici, delle attitudini dei due personaggi evocati, ci si guarda bene dal fare una spicciola psicologia del profondo.
I valori implicati nell'ambiguità formale del titolo del film di Ettore Scola dovrebbero essere chiari, a questo punto.
C'eravamo tanto amati ha infatti un'interpretazione reciproca. Si tratta dell'interpretazione che sta più in superficie, della più evidente e corriva in funzione di un plot narrativo tanto noto da rendere superfluo che qui lo si riassuma. Di essa sola si sono del resto dovuti accontentare coloro ai quali titolo e film si sono presentati in lingue che, quanto al rapporto tra funzioni e forme, impongono in proposito il cilicio dell'univocità. E se ne sono accontentati, probabilmente, senza sapere che stavano perdendo qualcosa.
C'è poi infatti l'altra interpretazione, quella in virtù della quale l'espressione C'eravamo tanto amati dichiara, in chi la proferisce e associa al medesimo sentimento altri di cui si fa araldo, un amore riflessivo.
Che l'interpretazione riflessiva sia di norma oscurata dalla reciproca non deve ingannare né deve farla prendere per minore o accessoria. Al contrario e a ben vedere, la riflessiva pare avere una portata maggiore della sua concorrente, quando ci si propone di capire qual senso abbia l'opera di Scola.
La reciproca copre il plot, la vicenda narrata. Al di là del semplice plot, la riflessiva vale come descrizione rivelatrice dell'attitudine che ispira l'atto medesimo di narrarlo. Un atto che dichiara un sentimento riflessivo che si qualifica come narcisista, còlto pure che sia in un suo momento passato (l'imperfetto è il modo narrativo per eccellenza, d'altra parte).
In altre parole, lo specchio sarà pure invecchiato, ma belli e buoni come ci si sembrava, ci si sembra ancora. E, se si è stati buoni e belli tanto da innamorarsi riflessivamente, di amarsi è difficile si smetta. Nessuno ignora peraltro che i sentimenti riflessivi sono i più solidi, persistenti e affidabili. Chissà perché non è ancora venuto in mente di rivendicarne il valore in un opportuno quadro normativo. Se non ha giustamente genere, perché l'amore dovrebbe infatti avere un numero? Per giunta, un numero necessariamente plurale? L'amore ha anzitutto diatesi. Ma di ciò e dei curiosi risvolti etici e teoretici, (Apollonio lo promette) un'altra volta.
Narrando allora una storia di amori reciproci, C'eravamo tanto amati, con le persone della sua enunciazione, con chi se ne fa enunciatore e con chi se ne fa enunciatario, dice anche, se non soprattutto, di un amore riflessivo. E chi non ha amato quel film, amandosi anche per questo? Chi, tra i suoi estimatori, non vi si è riconosciuto con morbido e nostalgico sentimentalismo, certo, per le qualità fatte oggetto di narrazione, ma anche, se si vuole, per i difetti?
E oggi, con la triste notizia della morte del regista, il sentimentalismo ritorna. Unanime, stavolta, e nostalgico al quadrato, si potrebbe dire, perché nostalgico dei tempi in cui un film rivendicava nostalgicamente i tempi passati di un amore narcisista mai perento.
Con il suo titolo ambiguo e con i suoi intenti emblematici, peraltro perfettamente giunti ad effetto, il film di Ettore Scola è allora spia acutissima se non della psicologia profonda, certo dei modi con cui una parte di rilievo della nazione italiana si atteggiò sin dal principio della storia politica unitaria, continuò a fare in alcune cruciali circostanze storiche e dei modi con cui ancora oggi, stancamente, si atteggia: un sentimentalismo narcisista. Lo stesso meno sottilmente riflesso nel recente Noi credevamo il cui titolo e la cui fonte d'ispirazione condividono e non per caso, con C'eravamo tanto amati, persona grammaticale, la tremenda quarta, e tempo verbale, il fantasioso imperfetto. La parte in questione è quella che, della nazione, si pretende, se non è proprio, la culturalmente preminente e che ha tentato, a tratti, di farsene l'egemone, politicamente e socialmente.
Si tratta di un ceto forse per essenza narcisista. Così paiono dire (impossibile sapere quanto consapevolmente) l'ambiguità del titolo del film di Scola e, se ci si pensa un po', il film nella sua interezza, una volta si sia in possesso dell'appropriata chiave di lettura.
Concettualizzare l'esistenza di un tale amore narcisista, perduto a più riprese (vien fatto di dire con un filo di ironia) ma mai completamente abbandonato, dovrebbe indurre a riflettere chi prova a capire come sono andate e come vanno le faccende nazionali, anche attraverso le opere d'arte che la nazione esprime e in cui la nazione si riconosce.
Una consapevolezza del genere potrebbe d'altra parte sviluppare la capacità di uno sguardo finalmente critico (autocritico? Improbabile: di narcisismo si tratta), al di là del dolore che suscita il sapere morto chi ha dato voci e immagini artistiche a un morbido amore di tal fatta, creando appunto le ambiguità sentimentali di uno splendido specchio.
[A sera, in poltrona, tra le mani il Corriere. "Una battuta è l'ultimo regalo di Scola", taglio basso di prima pagina, la rubrica è Padiglione Italia, la firma è di Aldo Grasso: lo si può leggere qui.]
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