"La semiotica ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere ASSUNTA come segno. È segno ogni cosa che possa essere assunto come un sostituto significante di qualcosa d'altro. Questo qualcosa d'altro non deve necessariamente esistere, né deve sussistere di fatto nel momento in cui il segno sta in luogo di esso. In tal senso, la semiotica, in principio, è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire".
Sono celebri e sovente citate parole di Umberto Eco, tratte dalla pag. 17 del suo Trattato di semiotica generale (Bompiani, Milano 1975; maiuscolo e corsivo, si precisa, sono nell'originale).
Non si ha qui titolo per dire se esse, a loro volta, mentano o dicano il vero, anche perché ragionevole è il sospetto che, proprio al loro riguardo, l'alternativa non si ponga e che, anche se paiono teoria, siano narrazione. Bella, efficace, seducente narrazione, va detto.
Utile è invece osservare il modo con cui, grazie a esse, Eco propone non di delimitare né di determinare, ma di qualificare lo sterminato, si direbbe appunto ecumenico campo di intervento di cui si proclama proprio in quegli anni letteralmente guardiano ("gatekeeper", disse nel 1974, in chiusura del primo congresso della Associazione internazionale di studi semiotici). Lo fa tirando in ballo la menzogna, con un effetto superficiale di straniante anticonformismo. Per correlazione ineluttabile, a essere però chiamata in causa è così la verità. E la brillante sortita appare allora parlante manifestazione di una forma mentis e del conio che l'ha prodotta: da quel conio è sortito il pensiero di Eco.
Uno sguardo che lentamente si allontana ne individua i tratti portanti e comincia così a intendere chi sia stato e cosa abbia rappresentato Umberto Eco nella secolare tradizione della cultura (nazionale).
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