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"Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l'odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull'altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d'un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti".
Le città invisibili s'apre con la negazione d'un passivo senza agente di dire che, idiomaticamente, vale come presa di distanza dell'enunciatore da ciò che sta enunciando: un fenomeno di quella categoria che, nelle grammatiche delle lingue (di norma esotiche) ove passa per manifesta, viene designata come "evidenzialità".
E s'apre coi due protagonisti, alla pari, alla terza persona, sebbene l'uno preceda l'altro, non solo nell'ordine sintagmatico, ma anche nella gerarchia ipotattica. Kublai Kan funge infatti da soggetto della subordinata di primo grado che ingloba come argomento il pronome cui si attacca la subordinata relativa in cui finalmente Marco Polo compare come soggetto di dire.
Del resto, la parità dei due sotto il segno della non-persona (la terza fu così acutamente definita da Benveniste) è rivelata subito apparente e il brano, il primo della cornice di quest'opera al tempo stesso asciutta e magnificente, ha anch'esso una cornice, costituita dal primo e dall'ultimo periodo: i due soli caratterizzati dai protagonisti, e nel caso specifico da Kublai Kan, alla terza persona.
Nel cuore, tutto uno scorrere della cosiddetta prima plurale. Sanno i suoi cinque lettori quanto Apollonio non ami il "pronome di vigliaccheria" (definizione di Manganelli) ma eccone una pratica, peraltro nel suo altrove miserabile - e pericoloso - valore inclusivo, eccone una pratica, si diceva, che scioglie quell'odio e mostra come non c'è veramente nulla, nella lingua, che la probità, o meglio quel probo commercio linguistico della falsità rappresentato per antonomasia dalla letteratura, non sia capace di riscattare dalle infamie che quotidianamente se ne fanno.
E nel cuore di questo incipit, con il 'noi' che getta la comune croce dell'umanità su chi legge e su chi scrive, c'è la lampante rivelazione che è sempre la lettura, l'ascolto, è sempre il "re in ascolto" la prospettiva profonda di Italo Calvino, come la gerarchia ipotattica della preterizione d'esordio ha sottilmente già lasciato intendere.
L'espressione di Calvino come scrittore fu pretesto per la sua espressione come lettore (di se stesso). E non è detto che il lettore Kublai Kan abbia creduto allo scrittore Marco Polo mentre lo ascoltava con curiosità e attenzione.
Del resto, è solo occasione per il suo proprio ascolto l'espressione d'un essere umano saggio e consapevole, come istintivamente saggio e consapevole egli pare nel momento in cui viene esplicitamente al mondo e, per dare un segno al suo orecchio della sua esistenza, s'esprime nel pianto.
L'ascolto si esercita dubbioso, se non incredulo, con un'espressione che gli ritorna. Per aprirsi così poi "disperato" alla altrui, con solidale compassione per lo sfacelo, la corruzione, la rovina e l'imbroglio di cui, nascendo, noi si è divenuti orgogliosamente e felicemente eredi.
Noi, cioè lui che l'ascolto della comune espressione appende a una filigrana tanto sottile da far coltivare l'illusione che, ingannando per quanto sia possibile il tempo, essa sfuggirà al morso delle termiti.