30 gennaio 2014

Linguistica candida (12): Cose infinite-1





Favellata ancora e senza fine, la fanfaronata delle frasi infinite ha francamente sfinito la linguistica, se non l'ha definitivamente finita.

29 gennaio 2014

Per Leonardo Sciascia

È la voce Sciascia del Dizionario onomastico della Sicilia di Girolamo Caracausi. Secca, documentata, efficace, informativa: nello stile dell'opera (che porta il sottotitolo Repertorio storico-etimologico di nomi di famiglia e di luogo) e nello stile dello studioso, caro alla memoria di Apollonio per più di una ragione.
L'infanzia dell'alter ego di Apollonio, che ha radici nella Sicilia greca, trascorse quasi per intero in quella araba. Così, quel nome di famiglia gli fu familiare dai suoi primi anni di vita. Ben prima che scoprisse, adolescente, che, in giro per l'Italia e per il mondo, lo portava la fama di uno scrittore di Racalmuto. 
Per il bambino, nella piccola comunità, lo portava invece un giovane collaboratore di suo padre, da suo padre ritenuto peraltro il più sveglio tra i suoi collaboratori. 
"Il signor Sciascia" capitava così fosse frequente nelle conversazioni a tavola, come capitava di sentirsi incaricare di "consegnare questi fogli al signor Sciascia" o di fare due passi, per prendere un gelato, "con il signor Sciascia".
Sciascia, però, con la fricativa palatale scempia, in ambedue le ricorrenze, l'iniziale e l'intervocalica, simile a quella di sciàuru 'profumo, buon odore', di sciumara 'fiumara', di sciuri 'fiore' (trascritto spesso come ciuri e nel Vocabolario siciliano del Piccitto come çiuri) della famosa melodia siciliana finto-popolare: eccone un esempio
Così, del resto, il menzionato signor Sciascia presentava se stesso né, nella piccola cittadina della provincia di Agrigento, a una manciata di chilometri dalla Racalmuto del già celebre Leonardo Sciascia, qualcuno avrebbe mai pensato che di quel cognome esistesse pronuncia diversa: xaxa, trascrivono i vecchi documenti siciliani, come ricorda Caracausi.
Per via di Leonardo Sciascia e della sua fama in Italia e nel mondo, adesso Leonardo Sciascia è invece diventato ciò che si sente pronunciare qui, con due belle fricative enfatiche. Del resto, in italiano, proprio come si deve. Per fare diversamente, gli Italiani cresciuti fuor di Sicilia (e forse, adesso, anche quelli cresciuti in Sicilia, ma esposti ai guasti di un'educazione scolastica) dovrebbero appunto fare uno sforzo e concedersi quel suono morbido e insinuante appunto estraneo alle loro abitudini articolatorie: come esercizio, potrebbero provare a intonare "sciascia, sciascia, sciascia di tuttu l'annu...". 
L'alter ego di Apollonio manca dai luoghi della sua infanza da troppo tempo. Non sa se, anche lì, il giovane signor Sciascia, frattanto - egli si augura - diventato stravecchio, si sia adeguato, presentandosi, agli esiti della notorietà del suo nome di famiglia; se si sia adeguata, per via della crescente comunicazione, la comunità intorno a lui.
Sospetta però, l'alter ego di Apollonio (ed Apollonio con lui), che questa sottile incapacità di dare il suo nome autentico allo scrittore di Racalmuto, questo suo andare per il mondo sotto un nome che è diverso, impercettibilmente diverso ma diverso dal suo proprio, e che quindi, in fin dei conti, lo camuffa e ne fa un altro siano come il marchio di un destino. 
Un destino di ardua comprensibilità, fuori del contesto, di Leonardo Sciascia: non si vuol dire d'incomprensione ineluttabile.

26 gennaio 2014

Primo supplemento al Bollettino ortografico (3): "Che c'azzecca"

Galleggiando come un relitto (a volere essere clementi), il frustolo di qualche giorno fa ha un tema dalle molteplici faccette, certo meritevole di una (piccola) monografia. Ne è stato sollecitato un benevolo lettore che a quel tema ha dedicato attenzione e che, per le vie brevi, ha segnalato all'alter ego di Apollonio (di quel lettore, fedele sodale) un paio di necessarie integrazioni. 
Si tacerà qui, per il momento, della seconda. Merita un approfondimento. Se ad Apollonio riuscirà di farlo, ne riferirà in un'occasione futura. 
Si dirà della prima, da subito molto gustosa, sotto il titolo di "Sic transit gloria mundi". 
Qualche anno fa, ricorda appunto il lettore, l'emblema dell'uso grafico chiamato in causa dal frustolo era "E che c'azzecca?": ne faceva largo uso un protagonista della scena pubblica italiana, dall'espressione orale non convenzionale e tenuta allora per sapida. 
È vero. Apollonio l'aveva rimosso. D'improvviso, all'apparire di quel personaggio, i cronisti avevano dovuto confrontarsi con la trascrizione di ciò che diceva. Ma anche voluto confrontarsi con il suo modo di esprimersi, e voluto parecchio: insomma, "c'avevano" inzuppato il biscotto, in quel "c'azzecca". Esso emergeva in un contesto a tratti drammatico, a tratti da "Un giorno in pretura", anche per via di uscite del genere. Questa è, del resto, l'impagabile e insuperabile tradizione nazionale: la vita pubblica vi prende sempre coloriture farsesche. E il diacritico era stato generalmente adottato, in proposito, come soluzione. 
Ci si pensi tuttavia un momento. Con il suo aspetto innovativo di forzatura (se non di violenza) sulla tradizionale norma grafica, il "Che c'azzecca?" si candidava come emblema naturale di un'epoca: l'uscita dalla cosiddetta Prima repubblica. Riassumeva di tale uscita, con un semplice apostrofo, il suo modo d'accadere spiccio e popolare. Spiccio e popolare solo in apparenza, però. In realtà, si capì dopo (e si capisce meglio ogni giorno che passa), vischiosissimo e mandarino.
All'aria dei tempi, insomma, non sfugge nemmeno un apostrofo: è la conclusione che se ne può trarre. Del resto, volatile come è, come potrebbe? Divertito, Apollonio, lo smemorato, esprime la sua gratitudine al buon amico del suo alter ego.

24 gennaio 2014

Linguistica da strapazzo (24): "...yeee yeee il sale della terra"

"...yeee yeee il sale della terra" canta in questi mesi Luciano Ligabue (eccolo, su YouTube) e snocciola, intorno a questo refrain, una maliarda litania di proposizioni a predicato nominale: "Siamo la sorpresa dietro i vetri scuri | siamo la risata dentro il tunnel degli orrori | siamo la promessa che non costa niente | siamo la chiarezza che voleva molta gente [...] Siamo il culo sulla sedia, il dramma, la commedia | il facile rimedio | Siamo l'arroganza che non ha paura | Siamo quelli a cui non devi chiedere fattura".
Nell'espressione del rocker di Correggio (ivi inclusa la musicale, naturalmente), noi è un concetto formale che ha spesso funzione di fulcro. Questa è una delle ragioni che rendono tale espressione parecchio diversa da quella, per es., di Vasco Rossi, dove, a dare il tono all'insieme, è forse piuttosto io.
Se io è molteplice (ogni linguista da strapazzo lo sa), ci si immagini quanto lo sia noi, che è sempre un'operazione fatta a partire da un io, con l'aggiunta di numerosi variabili valori. Si potrebbe così giocare a cercare quanti e quali noi abbia costruito fin qui Ligabue e proposto di abitare a chi lo ha ascoltato, offrendogli in uso momentaneo la sua immaginazione al prezzo del biglietto d'ingresso (com'è giusto: l'immaginazione è sempre stata bene prezioso). 
E chissà che una volta o l'altra quel perdigiorno dell'alter ego di Apollonio non ci si metta a enumerarli e a farne sistema, dei noi e delle altre persone grammaticali di Luciano Ligabue, come può e come sempre a lui piace (c'è ormai tanta folla di giovani interpreti, pronti alle sintesi, intorno alle canzonette però che è forse meglio che i vecchi, coi loro vecchi metodi analitici, se ne stiano in platea).
Qualunque cosa faccia l'alter ego e senza la sua noiosa pretesa (che sempre va a vuoto, peraltro) di dire cose sensate, Apollonio, di noi di Ligabue, oltre al menzionato, ne vorrebbe indicare ai suoi lettori un altro, di venti anni fa: contrastivamente. Si sa che ad Apollonio piacciono i contrasti: pensa del resto, appunto un po' all'antica, che solo contrasti e differenze permettano di vedere baluginare qualcosa della trama del mondo. Capire? Suvvia, non si scherzi.
"Non è tempo per noi" cantava allora Ligabue, sull'onda degli Ottanta e agli inizi dei Novanta: "...che non ci adeguiamo mai | abbiam donne pazienti rassegnate ai nostri guai | Non è tempo per noi e forse non lo sarà mai". E, il noi di quelle parole e di quella musica era ed è enunciativamente non-inclusivo del voi che appare nel testo, a un certo punto: "non vestiamo come voi | non ridiamo, non piangiamo, non amiamo come voi": per rinfrescare la memoria, eccolo su YouTube.
Al livello dell'enunciato, appunto, perché, se si tratta di enunciazione, non uno di coloro cui musica e parole di quella canzone sono indirizzate, e quindi ascolta quel voi, in esso si sente né è chiamato a sentirsi incluso: anzi, è invitato a fare esattamente il contrario. Voi è personaggio della rappresentazione scenica di un atto enunciativo. Coloro che assistono alla rappresentazione (il voi, si dica, reale: quelli che pagano il biglietto, insomma) sono chiamati a farsi insomma co-proferitori del voi rappresentato. Sono invitati da quel noi che gioca a fare il noi tra enunciazione ed enunciato. Voi, in realtà, è allora un loro. E voi è incluso nel noi
Il modulo e il gioco sono tradizionali della canzone antagonista (illustri precedenti nella produzione musicale d'ispirazione sociale) e con pretese di protesta: il "ma che colpa abbiamo noi" confezionato anni prima da Mogol per Shel Shapiro e compagni d'avventura ne fu paradigma, a dire il vero parecchio lagnoso (tratto che non si attribuirà mai né alla musica né alle parole di Luciano Ligabue: sempre corroboranti). Ma era lo spirito dei tempi: gli scanzonati Ottanta che andavano verso la fuffa meglio degli impegnati Sessanta che andavano verso il nulla? Magari, un'altra volta.
 "...yeee yeee il sale della terra" canta invece, nel pieno della fuffa, Luciano Ligabue in questi mesi: "Siamo il capitano che vi fa l'inchino | Siamo la ragazza nel bel mezzo dell'inchino | Siamo i trucchi nuovi per i maghi vecchi | Siamo le ragazze nella sala degli specchi [...] Siamo l'opinione sotto libro paga | Siamo le riunioni qui nel retro di bottega | Siamo le figure dietro le figure | Siamo la vergogna che fingiamo di provare". Il noi è diverso da quello suo antico e ricordato, anche perché in un universo (testuale) diverso. È un noi, stavolta, occupatore di tutto lo spazio della persona. Nella canzone, c'è la non-persona, ovviamente, e ci sono anche un devi e un ti, a un certo momento: ma si tratta di seconda persona-fantoccio, quella che anche nei discorsi di tutti i giorni fa appunto da impersonale. Non-persona, appunto: quanto a persona, solo noi, che si mangia naturalmente anche l'io di "con cui ti faccio fuori". 
Venti anni dopo (maturità?), tempo del noi deve essere chiaramente diventato: noi ovunque, infatti, come "sale della terra", senza che mai compaia in superficie, prerogativa dell'italiano e diversamente da venti anni prima, la parola "noi", un po' volgare, perché di norma stucchevole o violenta. 
Noi inclusivo dei paganti biglietto, del voi? Di nuovo, sì. Come diversamente? Altrimenti, addio a Campovolo. A momenti, costoro sentono però che farebbero volentieri a meno, magari, di tale compartecipazione: ove ci fosse, naturalmente. Il dubbio che ci sia c'è. Né viene univocamente fugato: la favola, di chi parla? Aiuta allora, come sempre, l'ambigua illusione che, stavolta, a essere un loro sia proprio quel noi, che insomma noi non sia un noi ma solo un noi: il personaggio d'una rappresentazione. 
La musica, così semplice, di Luciano Ligabue è però tanto maliarda e tanto maliarde sono, così semplici, anche le sue parole. Come si fa, noi, a non cantare tutti insieme? "...yeee yeee il sale della terra". 

21 gennaio 2014

Bollettino ortografico (3): Il diacritico in motoscafo Riva

"Quindi ben venga l'esibizionismo di Lele e che Iddio c'assista": sta in Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno, che qui si cita dalla prima edizione negli "Oscar contemporanea".
Un refuso, non può essere (al posto di cosa?). Tanto meno un errore. In quel c'assista, come scelta di stile, c'è un'intenzione (che sia tra le migliori o le peggiori, poco importa). E un pronunciamento per l'introduzione nell'ortografia italiana dell'apostrofo come diacritico, se combinato con la lettera c: in tal caso, messa lì a valere non per un'occlusiva - quella di Carla, per intendersi - ma per un'affricata - quella di ciarlac'arla, in prospettiva e procedendo nell'innovazione, come possibile alternativa grafica.
Sul confine di parola, peraltro, una novità già largamente installata in scritture basse o nelle volutamente mimetiche del parlato: installata ma non ancora codificata (se Apollonio non si sbaglia).
In tali scritture, a dire il vero, essa ricorre di preferenza (se non esclusivamente), per combinazioni di ci pleonastico e verbo avere: c'ha ragione lei, non lui; c'hai il mio numero, no? Chiamami, allora; C'ho una fame nera, stasera; Dicono che c'hanno avuto un problema e oggi arrivano tardi: a chi non è capitato di leggere cose del genere? A molti, anche di scriverle.
Ancora rari (ma sarà difetto di informazione di Apollonio) i c'avanza un biglietto per ci avanza un biglietto o i c'amiamo tanto per ci amiamo tanto. Sui muri, questi ultimi? In rete? Apollonio non ha - anzi, per stare in tema, non "c'ha" voglia di far controlli: veda, integri, corregga chi vuole.
Piperno (ed è un'eccezione nel panorama attuale) ha scrittura controllata e attenta ai dettagli. L'impressione è dunque che abbia un po' esagerato, nel caso specifico, e che si sia prodotto in un "iper-scorrettismo". Ma c'è tratto di distinzione di classe più socialmente marcato del potere permettersi d'essere "iper-scorretto"? Insomma, a differenza di quelli degli altri, che remano sui canotti e pedalano sui pedalò, il diacritico di Piperno naviga a bordo d'un motoscafo Riva.

19 gennaio 2014

Farse(oh!)logia (2): Un maestro assoluto


Un maestro, un artista, un campione assoluto.

Anche chi, anzi, soprattutto chi fa lusso di opinioni relativiste ha bisogno di certezze. S'esprime così, di conseguenza, sparpagliando l'assoluto (o l'Assoluto) un po' a casaccio (al posto di, si ponga, indiscusso, indubbio che, portando tracce dell'operare umano - discutere, dubitare -, sempre un po' relativi sono). 
D'altra parte, etimologicamente, assoluto è forse adoperato anche come manifestazione del proprio titolo, come chierico, ad assolvere chi viene qualificato dall'attributo: Ego te absolvo... (un performativo, quindi). Col valore di 'assolto', opposto a quello di chi, non qualificato come assoluto, resta sub iudice, pronto a finire all'inferno, tra i sommersi, o, dandosi il caso, al purgatorio, tra i salvabili. Non ancora certamente dei 'nostri', nel paradiso dei salvati. 
Espressione quindi di gran peso per intendere meglio la temperie presente. Adattissimo a suscitare, con un sorriso, il sommesso commento (ove lo si udisse) del più sciocco luogo comune: "Ma sa... tutto è relativo".

[Puramente deittica (o quasi), una nuova rubrica, sempre che la pigrizia non impedisca ad Apollonio di farne una rubrica, dei suoi scatti di riso. Combinazioni tipiche dell'andazzo (o, come appunto dice l'andazzo, collocazioni), farsi di frasi fatte (quindi fatte in fieri, con fatte, come l'intendono i cacciatori), modi di dire del dire del mo (ma non di necessità del mo, visto che Apollonio quasi sempre sonnecchia), che, quando gli cadono sotto gli occhi o nelle orecchie, non sa dir perché, forse perché lo solleticano sotto le meningi, lo muovono al riso. Farse(oh!)logia, appunto. Ognuno, del resto, avrà la sua].

18 gennaio 2014

Linguistica da strapazzo (23): Sbagliata, la creazione

Sempre alle frequentazioni delle reti sociali da parte del suo alter ego, Apollonio deve le due righe esposte qui accanto. Sono un cinguettio e ne hanno fatto oggetto di scherno, riferisce appunto l'alter ego, i custodi dei buoni modi che affollano un gruppo di discussione sulla lingua. L'alter ego vi si è trovato iscritto non sa come. D'ufficio? È possibile? Giura di esserne ignaro. Ben venuta, comunque, tale iscrizione, se, in questo modo, capita che egli possa poi passare ad Apollonio reperti come questi.
Spazzatura? La considerano tale forse quelli che vanno a rovistarvi per procurarsi la dose giornaliera di indignazione. Al linguista da strapazzo, invece, quel cinguettio piace. Non per ciò che dice, che (si faccia attenzione) nemmeno gli dispiace. Il fatto è che ad Apollonio, lo ha confessato più volte, il significato (e non parliamo del senso...) venne a noia già da ragazzo, quando s'accorse di non capirlo. E visto che tutti invece dicevano di capirlo, capì che non valeva la pena che si mettesse in concorrenza con gente tanto provveduta; che poteva lasciarlo senza ansie a coloro che se ne intendono; che a lui, felice, rimaneva tutto il resto. E non gli parve poco (tanto che, ancora, non è riuscito a venirne a capo).
No, allora. Non per ciò che dice. Il cinguettio gli piace perché spiattella certa circuiteria compositiva che, nei discorsi magari ben fatti, sta meglio nascosta (mai completamente: è ovvio). Già l'ha fatta lunga e non ne dirà che due parole. 
Prima, però, vale la pena sgomberare il campo da una questione esteriore. Che i cinque lettori abbiano pazienza.
La punteggiatura: nobilissimo, degnissimo tema. E culto cui Apollonio dedica ogni sua povera cura. Consapevole, però, che quando manca, bisogna sapere far senza. E in quelle due righe, se si esclude lo stretto essenziale, essa manca. Del resto, la si è mai vista, la punteggiatura, quando qualcuno ci parla? Ci sono le pause, ci sono i ritmi e le cadenze. Si dirà che qui siamo nello scritto e che scritto e punteggiatura vanno necessariamente insieme. E invece no. Il cinguettio non è parlato. Scritto e scritto senza punteggiatura. Perché? Qualcosa non va? Uno scritto senza punteggiatura fu praticato, per secoli e secoli, e non solo per cinguettii, tra gli antenati degli attuali accaniti punteggiatori. Antenati civilissimi, peraltro.
Il mondo moderno galleggia sopra un oceano di documenti scritti (sui parlati non si sarebbe potuto. Platone, che ne seppe qualcosa, starà dicendo: "Grazie al Cielo. Una simile gabbia di matti, sapessero questi sciocchi cosa raccontavo..."). Sono il fondamento di quasi tutto ciò che esso è, sa e fa. E gli sono pervenuti con poca o nessuna punteggiatura. Tutti i bei punti, punti e virgola, due punti, virgole e così via che danno un senso alle pagine stampate di autori nemmeno troppo antichi, il mondo moderno se li è messi da sé. Senza, una volta preso il vizio meraviglioso (e un po' perverso) della punteggiatura, non ha saputo fare. Magari solo per mancanza di fantasia, travestita, ci si faccia caso, con il solito richiamo all'ordine e ai buoni costumi. Concetti che parlano al cuore di Apollonio, si badi bene. Solo se, però, quando se ne fa evocazione, un po' scappa da ridere e ci si dà di gomito.
Solo due parole merita poi l'imperfetto al posto di congiuntivo e condizionale. In effetti, dopo che Eugenio Coseriu l'ha messo in piazza decenni fa, lo sanno anche i bambini (che lo sapevano prima di Coseriu e lo hanno sempre usato a volontà) che l'imperfetto (non solo l'italiano) è un modo dell'irrealtà. Al pari dei modi prescrittivamente dovuti, certo. Solo questione di opportunità, allora. E non ci si mette in marsina facendo bricolage. Si rischia il ridicolo. O magari, ci si può pure mettere in marsina, facendo bricolage (ci mancherebbe!). Solo che, una volta in marsina, è di pessimo gusto sbraitare contro quelli che, magari perché non possono, stanno semplicemente in tuta. Sia chiaro: non si fa nemmeno la figura dei raffinati, a farlo. Quindi, proprio non ne vale la pena. Marsina e sbraitamento s'accoppiano male e il Cielo non voglia che si sollevi il sospetto, tra chi se ne intende, che si sbraita contro quelli senza marsina al solo scopo di farsi notare in marsina...
Per le cose che valgono veramente, in quel cinguettio, resta solo la coda di questo frustolo, allora. Una è quel cibo in funzione processuale, quasi fosse un verbo: l'infinito d'un verbo (che è appunto il nome verbale). E delizioso senza cibo, tutto insieme, come un attributo (composto) in funzione predicativa dell'oggetto. A rigor di etimologia, l'aggettivo semplice, per far quel lavoro ci sarebbe pure stato: atrofici. "Se ci avessi creati atrofici...": ma se n'è andato per la sua strada da tanto tempo. Troppo, veramente troppo. Eppure... atrofica, di cervello, la "riverita specie"... chissà.
Per concludere (ma ci sarà un lettore, una lettrice che avrà seguito fin qui questo sproloquio?), solo un tocco a "tutti gli animali morti non esistevano". C'è materia per un trattato di semantica formale e di sintassi funzionale, lì. 
Messa a nudo, ha il suo fascino la predicazione d'esistenza, che sta invece nascosta, di norma, nel guscio del nome di cui si sta predicando magari tutt'altro. Un gatto miagola dice, senza darlo a vedere, che 'c'è un gatto'. Anzi, dandolo a vedere, ma con il minimo possibile di forma evidente (come altre lingue senza articolo, il latino, in ciò, era ancora più bravo dell'italiano: ma anche questo, lo si sa). E del resto, nel cinguettio, a essere negata non è nemmeno l'esistenza degli animali ma della relazione tra gli animali e la morte. Da avere le vertigini. Meglio, come lo sproloquio testimonia, da averle già avute. Basta.
L'alter ego dice del resto ad Apollonio che a cinguettare così deliziosamente è stata una bella giovine dal passato e dal presente televisivo, con fama dovuta equamente a piccante avvenenza e a sventatezza espressiva. Beata lei, incarnazione d'un luogo comune dell'immaginario sociale dei tempi moderni: il vecchio Apollonio, in cuor suo, le è grato. E chapeau! Lei ha detto tutto questo (e molto altro) in due righe, Apollonio in una sorta di scipita articolessa. Consiglierà al suo alter ego di farsene fedele seguace.

12 gennaio 2014

Farse(oh!)logia (1): Un autore immenso (e una scrittrice potente)


Un autore (attore, regista, 10, campione...) immenso.

Anche (ma più raro - e ci sarà una ragione) al femminile: un'autrice immensa, con eventuale (e in realtà frequente) corollario qualificativo: per es., dalla scrittura (talvolta: penna) potente. Quindi, brachilogicamente, una scrittrice potente. La brachilogia è inusuale al maschile: e ci sarà una ragione.
Del resto, se immenso dilaga, sarà banalmente per dare aperta testimonianza del fatto che si è, complessivamente, persa la misura. A chi lo proferisce, bisogna poi individualmente riconoscere il gran merito d'essere sincero (magari, senza saperlo: quindi ancora più sincero): si dichiara incapace di misurare. Insomma, incompetente.

[Puramente deittica (o quasi), una nuova rubrica, sempre che la pigrizia non impedisca ad Apollonio di farne una rubrica, dei suoi scatti di riso. Combinazioni tipiche dell'andazzo (o, come appunto dice l'andazzo, collocazioni), farsi di frasi fatte (quindi fatte in fieri, con fatte, come l'intendono i cacciatori), modi di dire del dire del mo (ma non di necessità del mo, visto che Apollonio quasi sempre sonnecchia), che, quando gli cadono sotto gli occhi o nelle orecchie, non sa dir perché, forse perché lo solleticano sotto le meningi, lo muovono al riso. Farse(oh!)logia, appunto. Ognuno, del resto, avrà la sua].

11 gennaio 2014

Linguistica candida (11): Quantità (di ovvietà)

I cinque lettori di Apollonio ci avranno fatto caso da tempo e lui arriva sempre in ritardo a dire loro una cosa trita, un'ovvietà. Ma magari lo seguono per questa ragione: per vedere come il poveraccio arranca dietro il mondo che cambia. Ecco allora la cosa trita, l'ovvietà.
Non c'è vicenda di cronaca nera (oggi, domani chi lo sa?) le cui dinamiche non si presuma di ricostruire e di conoscere con esattezza sul fondamento di procedure che si dicono "scientifiche": tute bianche e agenti chimici; microscopi e DNA. 
Non usano più, in altre parole, i vecchi metodi da maresciallo dell'Arma, che, come un cane da caccia, conosce bene gli odori del suo territorio, o da commissario di Polizia, cui non passano mai inavvertiti gli umori umani intorno a lui, estorti magari con metodi non sempre commendevoli. 
No, non usano più. Si ha l'impressione anzi che, abbandonati tali metodi che piacerebbe dire umanistici (perché magari umani capitava non fossero: al contrario), sia stata parallelamente abbandonata anche l'idea che valga la pena perdere tempo a curare che essi si formino e maturino nei nuovi marescialli dell'Arma e commissari di Polizia. Del resto, così si risparmia e si fa prima. Non devono fare altro che accompagnare velocemente sul luogo del fattaccio quelli in tuta bianca o, con altrettanta rapidità, recapitare loro gli opportuni reperti. E poi aspettare il responso dell'oracolo, in uscita dall'orifizio del laboratorio. Oracolo veridico, per definizione. Il gioco è fatto e in gabbia il colpevole del fattaccio: tutto provato "scientificamente", come dicono rete, giornali e televisioni. E guai se manca la prova "scientifica". Non si fa nulla, perché il nocciolo sta sempre tutto lì: tutto oggettivo. Altrimenti, si resta nella nebbia.
Per i vecchi metodi, scarseggiano del resto a questo punto (c'è proprio da credere) anche i maestri. Certe cose si imparano facendole con chi le sa fare e le sa fare per esperienza: annusare odori, spremere umori, pungere, stringere, intuire. Non son cose che si imparano sui libri della letteratura di genere, benché capita vi siano rappresentati: ma letterariamente. Letteratura di genere frattanto cresciuta a dismisura sui banchi delle librerie, si osservi: segno che il mondo che racconta (anche se lo si immagina vivo ancora oggi) non c'è proprio più. Non è accaduto esattamente così agli eroi greci con Omero? Come potrebbe essere diverso per gli investigatori umanisti se a cantarne le gesta è una così folta folla di Omeri?
"Tutta questa menata, con la linguistica, cosa c'entra? E poi per dire che?" staranno pensando i cinque lettori. Per dire, sotto forma di apologo, che, mutatis mutandis, lo stesso sta accadendo nella ricerca umanistica vera e propria: le epoche sono coerenti mica per scherzo. E qui Apollonio cambia marcia ma chi non vuole venire con lui, salti pure giù. La velocità con cui procede è così lenta che, ad arrivare dove vuole andare a parare, si fa prima a piedi.
Ebbene, se non ben meditata e meglio guidata, rischia di dare luogo a gravi perturbazioni teoriche e metodologiche nelle discipline umanistiche e di aprire la strada, forse, a qualche fraintendimento (oltre che alla perdita di saperi), l'applicazione, che si presume "scientifica", degli esiti di sguardi meccanici alla definizione concettuale di processi sistematici concepiti da esseri umani, come sono appunti i costrutti espressivi (basta come cambio di marcia?).
Processi sistematici, si badi bene, destinati da tali esseri umani ad altri esseri umani: coerenti quindi, per criteri di fattura, con le loro facoltà intellettive e capacità percettive, orientate in essenza da criteri di pertinenza e non da aspirazioni (peraltro vane) a un'esperienza esauriente (non differente è l'intera vicenda umana).
Procedendo per la strada che pare ormai intrapresa, si rischia non ci sia più analisi filologica (linguistica o letteraria che sia) dei processi sistematici dell'espressione che non consista nell'evocazione, a mo' di rito magico, dei risultati offerti dall'applicazione di strumenti che, solo perché operano per numeri, si credono esatti. 
Rischiano invece di essere quanto di meno esatto ci sia, dal momento che capita essi contino allo stesso modo cose che per valore oppositivo son diverse e in modo diverso cose che per valore oppositivo sono eguali. Una circostanza del genere è del resto comune nella sfera umana, come l'esperienza insegna a chiunque, maresciallo dell'Arma o commissario di Polizia, guardi a essa con un po' d'acribia.  
L'uso di fumisterie gergali scientiste prova a mascherare, senza naturalmente riuscirci, tranne presso complici e gonzi, che l'avanzare cieco di tali applicazioni è, in realtà, un arretramento della ricerca umanistica (o di quella che viene chiamata tale) verso posizioni sempre meno razionali, sempre meno scientifiche. Quindi verso una comprensione sempre minore di come funzionino quei processi espressivi. È quanto sta accadendo (oggi, domani chi lo sa?).
Qualcosa da farci? Nulla se non (Apollonio, come si sa, è un inguaribile ottimista) sorriderne, seguendo l'insegnamento di quel Giorgio Manganelli che, nel giro di pochi giorni, appare per la seconda volta su questo diario. 
Con candore magistrale, anni fa, sapendo certo di dire un'ovvietà, Manganelli annotò divertito: “Un computer che sbaglia è più avanti di uno che non sbaglia mai”. E (si sente di aggiungere Apollonio, con conclusiva ovvietà) un computer che sorride agli errori di uno che sbaglia è più avanti del computer che sbaglia.  

10 gennaio 2014

A frusto a frusto (81)





Non c'è dubbio: "certo come la morte" dice perché, per chi vive, non ci sia miglior partito del coltivare dubbio e incertezza.

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (12)




La pratica della filologia va diffusa (e, ove sia il caso, difesa) fin quando essa insegna (naturalmente, a chi lo vuole capire) che, in fin dei conti, persino l'accertamento del meglio della vita umana (ci si figuri quello del suo peggio) consiste di belle fantasie fondate su lezioni dubbie.

8 gennaio 2014

Linguistica candida (10): Espressione, riflessa e rifratta

La lucida superficie del tempo riflette, di norma, il raggio dell'espressione, costringendola così a implodere e a risuonare tacita solo nella capsula chiusa e speculare della sua effimera e luminosissima simultaneità. La lucidità ha però improvvisi punti di debolezza. Un raggio espressivo sfugge allora all'implosione luminosa e s'immerge nel tempo, anche per una sua frazione infinitesima. Il tempo rifrange quel raggio, lo devia. L'espressione penetra il tempo, insomma, ma al prezzo d'una distorsione, inevitabile. In funzione dell'espressione, il tempo, che la ingloba, venendone correlativamente creato come fosse il suo guscio, non è mai neutro: la riflette o la rifrange. Penetrata nel tempo, l'espressione rifratta capita diventi, socialmente, comunicazione. Non c'è quindi espressione divenuta comunicazione su cui, già prima di tale orientamento funzionale, il tempo, nume e despota del suo spazio di esistenza, non abbia decisivamente agito.

4 gennaio 2014

3 gennaio 2014

Trucioli di critica linguistica (11): Un cavallo verde e una sigaretta senza filtro

"Sono da sempre persuaso che un giorno entrerà in casa mia un cavallo verde a chiedermi una sigaretta senza filtro, e sento fin d'ora il disagio che proverò dovendogli rispondere che non fumo": come non condividere cordialmente l'attitudine di Giorgio Manganelli così deliziosamente presentata? 
Cinque verbi di forma finita. Presente: sono... persuaso; futuro: entrerà; presente: sento... il disagio; futuro: proverò; presente: non fumo. Il presente di uno stato morale permanente, vero in quanto soggettivo; poi, con il futuro e il conseguente valore temporale, la modalità irreale di una oggettiva terza persona; segue il presente di uno stato sentimentale, nuovamente soggettivo; quindi, un futuro di sintesi, che mescola ambiguamente verità soggettiva e oggettiva irrealtà; infine, introdotto da una modalità deontica che sospende, come si sa, ogni valore di verità, la piana espressione al presente negativo di uno stato permanente del soggetto.
D'altra parte, sempre in tema di corrispondenze sistematiche, solo due attributi: uno inatteso e straniante (verde), quindi ad alto contenuto informativo (un cavallo verde?), l'altro di meccanica prevedibilità (senza filtro), quindi a basso contenuto informativo (senza o con: due possibilità equipollenti, cioè solo un bit). 
Del resto, cosa ci sarebbe di stupefacente (di comico o di tragico) nell'ingresso in casa di un cavallo parlante? Nulla. Da sempre, ci son stati mondi dove i cavalli l'hanno pacificamente fatto, dicendo tra l'altro cose sensatissime: testimone l'affidabilissimo Lemuel Gulliver. Stupefacente è invece che, intanto, il cavallo sia verde. Ancora più stupefacente è poi che un essere così poco comune (unico, a dire il vero) faccia una richiesta tanto comune e della massima prevedibilità. 
In funzione di tale banalità sta d'altra parte in relazione l'effetto comico prodotto dal semplice disagio. Per litote, il disagio provoca infatti il flop della naturale attesa, da parte del lettore, di uno stupore attonito dell'io protagonista del gag. L'attesa si gonfia come un pallone: un cavallo entra in casa, parla, è verde e (come anticipazione, già in inquietante o consolante diminuendo) chiede una sigaretta senza filtro. Repentinamente si sgonfia, però, quando ci si trova davanti, in modo inatteso, alla confessione dell'intima reazione di un modello ideale forse di timidezza, forse di snobistica predisposizione a una distante tolleranza. 
Cosa sarà mai, per casa, un cavallo verde parlante e fumatore, a paragone dell'imbarazzo di non riuscire a soddisfarne la richiesta? Ed è tutto lì, nella piatta ordinarietà di un disagio, l'incontro certissimo (e della cui evenienza non si può che essere fermamente persuasi) con un simile prodigio e con la sua altrettanto ordinaria ma ineludibile richiesta?
Ah! Apollonio stava quasi scordandosi di ricordarlo: verde, come Giorgio Manganelli certo sapeva, è il cavallo del quarto cavaliere dell'Apocalisse.

2 gennaio 2014

Come cambiano le lingue (5)

O, meglio, come è già cambiato, e irreversibilmente, l'italiano: infatti, consummatum est.
A noi ha sempre impressionato la sua determinazione; A me stupisce che ancora nessuno protesti; A te allarmano i suoi modi, ed è comprensibile, ma stai tranquilla, non è un cattivo ragazzo: a chi non capita, ormai da decenni, di udire frasi comparabili con queste? Via via, sempre più anche in sedi formali e su labbra di gente di livello (non necessariamente tutta meridionale). Anzi, ormai e come segno distintivo, su labbra di gente di livello, di quella gente che sa dove va il mondo. Figurarsi non sappia dove va la sua lingua. "Lingua loro", appunto: categoria alla quale avrebbe potuto essere attribuito questo frustolo. 
"...ha impressionato noi (o Ugo, il pubblico), ...stupisce me (o chiunque lo sappia, la gente perbene), ...allarmano te (o le autorità, i consumatori): ci mancherebbe!", risponderebbero unanimi, se interrogati, coloro che si fossero appena prodotti in espressioni come le sopra menzionate. Poi ricomincerebbero a parlare, però, ed eccoli di nuovo proferire, senza fare una piega, gli appena rinnegati a noi, a me, a te stupisce, allarma, impressiona.
La questione tocca delicati equilibri tipologici e funzionali dell'italiano, incamminato evidentemente su strade già percorse da varietà sorelle (nobilissime lingue romanze di altre nazioni europee e gustosi dialetti italoromanzi meridionali). Si rassicurino però i lettori di Apollonio. Quelle son faccende che lui, non l'appassionano: storie di tipologie, di equilibri dinamici del sistema e di suoi punti di frattura e di ricomposizione. Appassionano il (e certo non al) suo noioso alter ego. Qui non se ne farà parola. Se non per dire che questi aspetti delle chiacchiere quotidiane, in apparenza tanto innocui, sono l'emergere, in italiano, di un "oggetto con preposizione": così si chiama il fenomeno o anche - e fa più tendenza - "marcatura differenziale dell'oggetto" (circola anche la designazione "accusativo preposizionale" ma è desueta, oltre che ancora più discutibile delle sue concorrenti oggi più fortunate).
Da almeno un ventennio, d'altra parte, la vicenda è comparsa, come oggetto di interesse, nella letteratura scientifica. Ci sono già studi che hanno determinato con precisione le circostanze nelle quali il fenomeno sta penetrando nel sistema delle codifiche morfosintattiche italiane, che ne hanno insomma disegnato lo scenario. Osservazioni tutte condivisibili e, del resto, facilmente verificabili: in tale scenario compaiono i pronomi, compare la messa in rilievo, compaiono i verbi detti psicologici e così via. Come del resto dicono gli esempi, tutti di fantasia, che ci si è procurati.
Capita quasi sempre, in quegli studi, che tali circostanze siano magari scambiate per le cause del processo: sul tema, una volta o l'altra, Apollonio tornerà. Determinare le cause (o gli scopi) di qualcosa è del resto il più facile modo di passare per intelligenti. Quale autore di uno scritto che si vuole scientifico saprebbe resistere a una tentazione del genere? E poi lo si sa, la linguistica è ancora una disciplina-bambina: una di quelle che, appunto, crede ancora che trovare le cause (o gli scopi) di qualcosa sia il modo migliore (se non l'unico modo) di capire. Non bisogna riprenderla troppo: crescerà, forse. E se non crescerà e continuerà a gingillarsi con cause e scopi, poco male, per l'umanità, che ha ben altre gatte da pelare.
Comunque proceda la linguistica, del resto, l'oggetto con preposizione, in contesti come i menzionati, procede, in italiano, nella sua avanzata ed è già da un po' che il parlato sta, in proposito, contagiando lo scritto: anche lì, a livelli sempre più alti. Del livello toccato dal fortunato ampliamento, qualche anno fa, un frustolo aveva già qui dato notizia: eccolo, per chi volesse recuperarne la memoria.
Un esempio reale freschissimo, tratto da un portale culturale di tendenza, lo si vede ancora qui sotto:


Ma più rilevante e, forse, definitiva è la testimonianza provvista dall'immagine che segue. E Apollonio è felice di renderne partecipi i suoi lettori. È fatta. Ci siamo. Consummatum est, appunto.   

Si tratta della pagina di un libro pubblicato, un paio di mesi fa, dall'editore che fu di Benedetto Croce: cosa c'è di più culturalmente alto, nel Belpaese? 
In tale libro si riproduce o, forse meglio, si simula un dialogo. E la circostanza non sarà senza rilievo, per la questione qui sul tappeto. Il dialogo ha temi squisitamente linguistici. Si intrattengono su tali temi due figure di massimo rilievo della cultura nazionale: lo scrittore che, negli ultimi venti anni, ha goduto del maggior successo e il linguista italiano più noto e, nell'ultimo cinquantennio, certo il più influente sulle idee che il ceto intellettuale si è frattanto fatto della nazione dal punto di vista linguistico. Meridionali ambedue, si dirà. E meridionale l'editore. 
Vero. Apollonio non crede tuttavia che ciò sia rilevante, nell'occasione. Non crede che, nel caso specifico, si tratti, in altre parole, della solita storia di un italiano plurale perché alimentato da radici affondate nell'espressione dialettale, come i due conversatori opportunamente concordano nell'affermare, lungo tutto il libro.
Qui, la faccenda è altra. E non di varietà è questione ma di neo-uniformità: dal Gottardo a Lampedusa. La pagina consacra infatti un uso, per riprendere una parola molto cara all'importante linguista. In questo uso pare risuonare il dialetto ma l'impressione è falsa. L'uso è generale: è un andazzo nazionale, se ci si vuole esprimere così. E non c'è andazzo che, prima o poi, non diventi legge. È allo scrittore che si deve il prezioso A me questo fenomeno continua a sorprendere. E il linguista non avrà certamente avuto cuore di segnalare al suo interlocutore il dettaglio, per un eventuale cambiamento in bozze. Così, la consacrazione non potrebbe essere più solenne e il battesimo più autorevole. Del resto, se non cambiassero secondo gli andazzi e i gusti della gente di mondo, le lingue, come mai cambierebbero? 
A me questo fenomeno continua a sorprendere, come a me quello spot ha sempre colpitoallora. Si potrebbe dire e scrivere diversamente in italiano? Ormai, mai più. "Carta canta" e che carta, stavolta! Grammatici normativi e fustigatori dei cattivi costumi linguistici facciano il favore di prenderne atto. E la prossima volta, distratti come sono da congiuntivi, "parole dell'anno" e varianti creative delle congiunzioni, vedano, per cortesia, di non arrivare come sempre in ritardo: la lingua cambia, anzi, è già cambiata e urge, in proposito, un'appropriata regola: "...quando l'oggetto diretto è un pronome e...".