"Fort heureusement, les conférences scientifiques et politiques n'ont rien de commun. Le succès d'une convention politique dépend de l'accord de la majorité ou de la totalité de ses participants. En revanche, le recours au vote et au veto est étranger aux débats scientifiques, où le désaccord se revèle en général plus productif que l'accord. Le désaccord dévoile des antinomies et des tensions à l'intérieur du champ étudié; il est le prétexte à des nouvelles explorations". A parlare è Roman Jakobson, quel folletto che, nel secolo scorso, a partire da una prospettiva autenticamente linguistica, ha scorrazzato con una genialità fulminante e imprevedibile quasi per ogni contrada delle cosiddette scienze umane, lasciando ovunque segni del suo passaggio. Segni, spesso, da simpatico lestofante, ma anche per tale ragione sempre meritevoli di riflessione. Le parole in esordio, citate secondo l'ormai classica traduzione francese comparsa negli Essais de linguistique générale, aprivano i suoi Closing statements a un congresso tenutosi or sono ormai quasi cinquanta anni. Sono insomma le parole d'esordio del suo celebre saggio su linguistica e poetica, che anni fa non poteva mancare di aver letto (e talvolta meditato, con fatica) quasi ogni aspirante studioso di problemi linguistici. Mi sono nuovamente cadute sotto gli occhi qualche mese fa: quel saggio fa parte delle letture che consiglio a chi mi avvicina professionalmente e, di conseguenza, capita a ogni semestre di discuterne in classe, in un modo o nell'altro. E hanno preso per me un fresco e nuovo valore: le precedenti letture erano state evidentemente tutte poco attente a quell'incipit e attratte invece dal grumo di complessità che, dopo una sistemazione dello scibile comunicativo di apparente chiarezza cartesiana (tecnica non rara negli scritti di Jakobson, incorreggibile seduttore), lo scritto riserva al lettore troppo fiducioso di sé. E' vero: vi ho sentito - e, mi dico adesso, facilmente - echeggiare i modi ai quali, cento anni prima, John Stuart Mill aveva affidato la sua lode della libertà, con l'impagabile ingenuità predicatoria di chi sa di avere inoppugnabilmente ragione. Ma a fare risuonare nelle mie orecchie in modo nuovo e diverso quelle espressioni è stata - spesso accade così - solo una modesta esperienza personale (l'essermi ancora imbattuto in un veto), su cui, proprio in quanto personale, non vale appunto la pena di diffondersi. Basterà dire che, se il criterio del grande linguista russo è cartina di tornasole, nella linguistica d'oggi, molti eventi spacciati per scientifici (e ciascuno trovi i suoi esempi: a me non ne mancano) sono in realtà meramente politici (e d'una politica accademica, peraltro, di infimo rango).
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