"From now on I will consider a language to be a set (finite or infinite) of sentences, each finite in length and constructed out of a finite set of elements. All natural languages in their spoken or written form are languages in this sense, since each natural language has a finite number of phonemes (or letters in its alphabet) and each sentence is representable as a finite sequence of these phonemes (or letters), though there are infinitely many sentences".È un celebre passo in apertura di Syntactic Structures di Noam Chomsky e, per le discipline che hanno per oggetto l'espressione umana, un'auto-ribadita sentenza di reclusione.
Per una scienza autentica, la natura del suo oggetto è sempre altamente problematica, se non misteriosa. In proposito, la linguistica è caso particolarmente malavventurato. Una ricca tradizione le fornisce infatti un modo comodo e facile per aggirare il cruciale problema: l'ipostasi del luogo comune grammaticale (questione che fu vivamente presente a Ferdinand de Saussure e, purtroppo, a pochi altri dopo di lui).
La natura di lingue e linguaggio viene così aprioristicamente determinata e i fantasmi metalinguistici della grammatica diventano gli enti elementari che qualificano e costituiscono l'oggetto di indagine.
Lingue e linguaggio? Fatti di un insieme finito di elementi, indefinitamente combinabili. L'immagine emblematica? Naturalmente i fonemi, ridotti per rivelatrice comparazione al formato concettuale delle lettere dell'alfabeto. Nella versione chomskiana di tale erronea banalità, resta da stabilire come tali elementi si combinano, in modo infinito, e il muro di mattoni che imprigiona da sempre la scienza dell'espressione umana è così ancora una volta innalzato, dietro la vanteria d'avere in tal modo dato vita a una svolta epistemologica epocale.
Ma dove stanno i mattoni prima di stare nelle composizioni, dove i fonemi (e le parole) prima di stare nei discorsi? Ci sono parti, nell'attività espressiva umana, che esistono prima dei sistemi in cui analiticamente le si rileva? E non è l'integrazione in tali sistemi (e solo essa) a renderle parti analiticamente rilevabili?
Lettere e alfabeto sono oggetti comodi, come molti altri prodotti dell'ingegno umano, pigro e utilitario. Prenderli, per pregiudizio ontologico, come le collezioni degli enti elementari dell'espressione umana, così peraltro caratterizzandola, significa consegnarsi (consapevolmente?) a un imbroglio e abbandonarsi a un'erranza. Significa far finta di occuparsi di lingue (e linguaggio) per continuare invece a fare ciò che la più cieca e retriva dottrina grammaticale fa da millenni: parlare di se medesima, avvitandosi su se stessa all'infinito.
Poche righe, come si vede. Passarono per eversive e sembrarono subito alla moda: un nuovo andazzo, ben accetto perché era ed è compatibile con antichi pregiudizi e persistenti luoghi comuni, sotto le spoglie up to date sempre necessarie al mantenimento d'ogni ideologia (scientificamente) reazionaria.
Poche righe bastevoli für ewig a caratterizzare come corrivo un programma che chi le concepì e le scrisse e i suoi innumerevoli epigoni pretesero e continuano a pretendere rivoluzionario, proposto perciò col contorno d'incessanti contorsioni e complicazioni: apparente inquietudine, fin qui servita a nascondere la cruda nudità di idee passatiste e, da sempre in materia di linguaggio, sovrane.
Per una scienza autentica, la natura del suo oggetto è sempre altamente problematica, se non misteriosa. In proposito, la linguistica è caso particolarmente malavventurato. Una ricca tradizione le fornisce infatti un modo comodo e facile per aggirare il cruciale problema: l'ipostasi del luogo comune grammaticale (questione che fu vivamente presente a Ferdinand de Saussure e, purtroppo, a pochi altri dopo di lui).
La natura di lingue e linguaggio viene così aprioristicamente determinata e i fantasmi metalinguistici della grammatica diventano gli enti elementari che qualificano e costituiscono l'oggetto di indagine.
Lingue e linguaggio? Fatti di un insieme finito di elementi, indefinitamente combinabili. L'immagine emblematica? Naturalmente i fonemi, ridotti per rivelatrice comparazione al formato concettuale delle lettere dell'alfabeto. Nella versione chomskiana di tale erronea banalità, resta da stabilire come tali elementi si combinano, in modo infinito, e il muro di mattoni che imprigiona da sempre la scienza dell'espressione umana è così ancora una volta innalzato, dietro la vanteria d'avere in tal modo dato vita a una svolta epistemologica epocale.
Ma dove stanno i mattoni prima di stare nelle composizioni, dove i fonemi (e le parole) prima di stare nei discorsi? Ci sono parti, nell'attività espressiva umana, che esistono prima dei sistemi in cui analiticamente le si rileva? E non è l'integrazione in tali sistemi (e solo essa) a renderle parti analiticamente rilevabili?
Lettere e alfabeto sono oggetti comodi, come molti altri prodotti dell'ingegno umano, pigro e utilitario. Prenderli, per pregiudizio ontologico, come le collezioni degli enti elementari dell'espressione umana, così peraltro caratterizzandola, significa consegnarsi (consapevolmente?) a un imbroglio e abbandonarsi a un'erranza. Significa far finta di occuparsi di lingue (e linguaggio) per continuare invece a fare ciò che la più cieca e retriva dottrina grammaticale fa da millenni: parlare di se medesima, avvitandosi su se stessa all'infinito.
Poche righe, come si vede. Passarono per eversive e sembrarono subito alla moda: un nuovo andazzo, ben accetto perché era ed è compatibile con antichi pregiudizi e persistenti luoghi comuni, sotto le spoglie up to date sempre necessarie al mantenimento d'ogni ideologia (scientificamente) reazionaria.
Poche righe bastevoli für ewig a caratterizzare come corrivo un programma che chi le concepì e le scrisse e i suoi innumerevoli epigoni pretesero e continuano a pretendere rivoluzionario, proposto perciò col contorno d'incessanti contorsioni e complicazioni: apparente inquietudine, fin qui servita a nascondere la cruda nudità di idee passatiste e, da sempre in materia di linguaggio, sovrane.
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