Tre minuti e ventotto secondi: "Non sapevo ancora... [distoglie lo sguardo dall'interlocutore e lo volge a sinistra, poi torna a guardarlo] di essere in grado di... [abbassa gli occhi] commettere questo atto [alza di nuovo lo sguardo] dello scrivere...". Tre minuti e trentaquattro.
Sono più o meno sei secondi di una risposta che Primo Levi dà a Luigi Silori a proposito del suo esordio come scrittore. Fanno parte di un'intervista televisiva trasmessa il 27 settembre 1963. Su queste parole ha richiamato l'attenzione giorni fa Domenico Scarpa, sulla stampa, fermandosi a valutare brevemente quel commettere.
Rivedere l'intervista e attardarsi sul passo è facile, oggi. Si può di conseguenza verificare che la sottolineatura di Scarpa è opportuna. Sul proferimento di quel commettere, Levi ha un attimo di esitazione. Come qualcuno che sta confessando una colpa, smette di guardare negli occhi chi ne ha sollecitato le parole. Abbassa lo sguardo, con un gesto trasparente di pudore, se non di vergogna.
La penna di Levi, scabra, essenziale, precisa, avrebbe certo prodotto il chiaro e immediato scrivere: "Non sapevo ancora di essere in grado di scrivere". Al posto di scrivere, parlando, gli affiora invece sulle labbra un'espressione abnorme: commettere questo atto dello scrivere; prolissa (cinque parole al posto di una), molto marcata e, al tempo stesso, come cautelosa. Che vuol dire? Un paio di preliminari osservazioni grammaticali saranno utili.
Scrivere, come si è visto, è il nocciolo di tutto e la scelta che sarebbe stata piana e non-marcata. Scrivere, nome del verbo, proietta allora anzitutto fuori di sé la sua natura nominale. Lo aiuta per questo l'articolo determinativo. Scrivere diventa così lo scrivere. Evidentemente, l'articolo non basta. Viene fuori di conseguenza un'ulteriore stampella nominale, correlata col fatto che scrivere è un agire. Con atto, quanto era implicito e parzialmente esplicitato dall'articolo diventa così ancora più esplicito. Lo scrivere è diventato a questo punto l'atto dello scrivere. L'atto è stato compiuto, nel caso specifico. Se ne sta appunto parlando: è Se questo è un uomo. È un dato oggettivo della realtà. Lo si può mostrare. Se ne possono prendere le distanze, ma lo si fa rivendicandone al tempo stesso la prossimità all'io che parla. Lo si dota così dell'adeguato aggettivo dimostrativo: questo atto dello scrivere. Resta il fatto che scrivere è in ogni caso e ancora un fare. Lo si è ingabbiato e solidificato in una rigida espressione nominale, provvista di un determinatore (come lo), di un classificatore (come atto), di un modificatore rideterminante (come questo). Che ne è, a questo punto e in un'espressione del genere, della sua natura processuale? Come lasciare che il processo emerga e che se ne possa indicare il soggetto? Soccorre allora l'appoggio di commettere, uno di quei verbi che Maurice Gross definiva appunto "supporto". Esso si presta alla costruzione di molte espressioni. Queste sono però di norma connotate in modo eticamente negativo: commettere uno sbaglio, un illecito, un crimine, un furto, uno stupro, una violenza, un assassinio. Sta qui la radice linguistica della nota di Scarpa, che vede in quel commettere un tratto della "pacata ironia" di Levi. Lo scrittore, secondo il critico, è consapevole e vuol dire non di aver scritto, ma di avere "commesso" Se questo è un uomo: un'opera che, rompendo il silenzio e le convenzioni, graffia positivamente la quieta farisaica coscienza del mondo moderno.
Apollonio concorda. Trova però che quell'espressione dica ancora qualcosa. Con la sua aria dimessa e perversa, essa è soprattutto eufemistica (si pensi all'esemplare commettere atti impuri, innescatore di infinite fantasie adolescenziali, o all'altrettanto esemplare commettere un atto insano per suicidarsi). Come molti eufemismi, commettere questo atto dello scrivere si presenta infatti come un complesso giro di parole che, in fondo, serve a nasconderne la sola che si vuole evitare di proferire bruscamente, nel caso specifico, chiudendola dentro una serie complessa di scatole grammaticali. Adoperati per non evocare, col vero nome, ciò che atterrisce o di cui si ha onta, gli eufemismi finiscono però per sottolinearne l'oscura fascinazione.
Sembra così ad Apollonio che in quel minuscolo passaggio siano emblematicamente e celatamente rappresentate l'ironica tragedia di Levi e la sua musa lacerante, la musa di un uomo condannato a scrivere e che scrisse appunto sempre come uomo e mai come scrittore. Del resto, in quell'intervista, Levi parla da uomo e non da scrittore.
Ci sono scrittori (e sono la maggioranza) che, non si sa come, non si sa perché, finiscono per essere scrittori prima di uomini. L'impressione che danno è di scrivere con e per soddisfazione del proprio sé. Ci sono poi gli uomini e accade a qualcuno d'essere condannato a scrivere. Un uomo che scrive prova anzitutto vergogna di scrivere, come si prova vergogna della propria condanna. Ne prova di più se gli accade di sospettarsi vittima di una fallace impressione, comune in un mondo in cui chi scrive lo fa da scrittore. La fallace impressione di scrivere per e di sé medesimo, quando invece, da implacabile osservatore (se non da scienziato), sta solo provando a chiarirsi, descrivendolo e oggettivandolo nella parola scritta, il mondo come esso gli s'è manifestato: un'esperienza orribile, nuda a Buna-Monowitz, agghindata altrove, e pure l'unica che si ha e che, dunque, bisogna essere capaci di trovare, se non amabile, almeno non detestabile.
Ma solo fino a un certo punto. E sta qui, suggerirebbe infine Apollonio a Domenico Scarpa, il mistero profondissimo delle parole che ha avuto l'acutezza di sottolineare. Abbassa lo sguardo Primo Levi, di fronte al suo interlocutore. Sembra una crisi della timidezza che fa dire a chi l'ha conosciuto quanto fosse delicato e sommesso il suo conversare. Forse lo fa invece (o nel contempo) perché sa che sarà per una volta sfrontato, tanto da dovere ricorrere a un eufemismo, a dire il vero, stilisticamente pesante, per esprimere il nocciolo forse più personale del suo discorso, per dire che molte volte egli ha provato a resistere alla condanna e s'è trattenuto dal commettere l'atto impudico, impuro, insano e, infine, blasfemo, dello scrivere che, infine, ha commesso. Non c'è del resto un solo libro che, lo si sa da migliaia di anni, merita d'essere stato scritto? E chi ne è l'autore?
Dice tutto questo da "impiegato" cui, confessa, piace narrare oralmente la sua picaresca avventura. Ma scrivere? E se fosse un oltracotante dissacrare? Lo dice in un discorso tenuto a casa sua, tra le mani un giocattolo del figlio e alle spalle una modesta libreria; in un discorso che oggi, col senno del poi, suona, per chi lo vuole intendere, come vaticinio terribilmente premonitore.
"Non sapevo ancora di essere in grado di commettere questo atto...". Ventiquattro anni dopo, nei medesimi luoghi, prima di fermarsi sull'impiantito, per i pochi attimi concessi a un uomo che, definitivamente, non dovrà mai più vergognarsi di scriverne, Primo Levi ha forse perfettivamente saputo di esserne stato e, al tempo stesso, di non esserne più stato capace.
Sono più o meno sei secondi di una risposta che Primo Levi dà a Luigi Silori a proposito del suo esordio come scrittore. Fanno parte di un'intervista televisiva trasmessa il 27 settembre 1963. Su queste parole ha richiamato l'attenzione giorni fa Domenico Scarpa, sulla stampa, fermandosi a valutare brevemente quel commettere.
Rivedere l'intervista e attardarsi sul passo è facile, oggi. Si può di conseguenza verificare che la sottolineatura di Scarpa è opportuna. Sul proferimento di quel commettere, Levi ha un attimo di esitazione. Come qualcuno che sta confessando una colpa, smette di guardare negli occhi chi ne ha sollecitato le parole. Abbassa lo sguardo, con un gesto trasparente di pudore, se non di vergogna.
La penna di Levi, scabra, essenziale, precisa, avrebbe certo prodotto il chiaro e immediato scrivere: "Non sapevo ancora di essere in grado di scrivere". Al posto di scrivere, parlando, gli affiora invece sulle labbra un'espressione abnorme: commettere questo atto dello scrivere; prolissa (cinque parole al posto di una), molto marcata e, al tempo stesso, come cautelosa. Che vuol dire? Un paio di preliminari osservazioni grammaticali saranno utili.
Scrivere, come si è visto, è il nocciolo di tutto e la scelta che sarebbe stata piana e non-marcata. Scrivere, nome del verbo, proietta allora anzitutto fuori di sé la sua natura nominale. Lo aiuta per questo l'articolo determinativo. Scrivere diventa così lo scrivere. Evidentemente, l'articolo non basta. Viene fuori di conseguenza un'ulteriore stampella nominale, correlata col fatto che scrivere è un agire. Con atto, quanto era implicito e parzialmente esplicitato dall'articolo diventa così ancora più esplicito. Lo scrivere è diventato a questo punto l'atto dello scrivere. L'atto è stato compiuto, nel caso specifico. Se ne sta appunto parlando: è Se questo è un uomo. È un dato oggettivo della realtà. Lo si può mostrare. Se ne possono prendere le distanze, ma lo si fa rivendicandone al tempo stesso la prossimità all'io che parla. Lo si dota così dell'adeguato aggettivo dimostrativo: questo atto dello scrivere. Resta il fatto che scrivere è in ogni caso e ancora un fare. Lo si è ingabbiato e solidificato in una rigida espressione nominale, provvista di un determinatore (come lo), di un classificatore (come atto), di un modificatore rideterminante (come questo). Che ne è, a questo punto e in un'espressione del genere, della sua natura processuale? Come lasciare che il processo emerga e che se ne possa indicare il soggetto? Soccorre allora l'appoggio di commettere, uno di quei verbi che Maurice Gross definiva appunto "supporto". Esso si presta alla costruzione di molte espressioni. Queste sono però di norma connotate in modo eticamente negativo: commettere uno sbaglio, un illecito, un crimine, un furto, uno stupro, una violenza, un assassinio. Sta qui la radice linguistica della nota di Scarpa, che vede in quel commettere un tratto della "pacata ironia" di Levi. Lo scrittore, secondo il critico, è consapevole e vuol dire non di aver scritto, ma di avere "commesso" Se questo è un uomo: un'opera che, rompendo il silenzio e le convenzioni, graffia positivamente la quieta farisaica coscienza del mondo moderno.
Apollonio concorda. Trova però che quell'espressione dica ancora qualcosa. Con la sua aria dimessa e perversa, essa è soprattutto eufemistica (si pensi all'esemplare commettere atti impuri, innescatore di infinite fantasie adolescenziali, o all'altrettanto esemplare commettere un atto insano per suicidarsi). Come molti eufemismi, commettere questo atto dello scrivere si presenta infatti come un complesso giro di parole che, in fondo, serve a nasconderne la sola che si vuole evitare di proferire bruscamente, nel caso specifico, chiudendola dentro una serie complessa di scatole grammaticali. Adoperati per non evocare, col vero nome, ciò che atterrisce o di cui si ha onta, gli eufemismi finiscono però per sottolinearne l'oscura fascinazione.
Sembra così ad Apollonio che in quel minuscolo passaggio siano emblematicamente e celatamente rappresentate l'ironica tragedia di Levi e la sua musa lacerante, la musa di un uomo condannato a scrivere e che scrisse appunto sempre come uomo e mai come scrittore. Del resto, in quell'intervista, Levi parla da uomo e non da scrittore.
Ci sono scrittori (e sono la maggioranza) che, non si sa come, non si sa perché, finiscono per essere scrittori prima di uomini. L'impressione che danno è di scrivere con e per soddisfazione del proprio sé. Ci sono poi gli uomini e accade a qualcuno d'essere condannato a scrivere. Un uomo che scrive prova anzitutto vergogna di scrivere, come si prova vergogna della propria condanna. Ne prova di più se gli accade di sospettarsi vittima di una fallace impressione, comune in un mondo in cui chi scrive lo fa da scrittore. La fallace impressione di scrivere per e di sé medesimo, quando invece, da implacabile osservatore (se non da scienziato), sta solo provando a chiarirsi, descrivendolo e oggettivandolo nella parola scritta, il mondo come esso gli s'è manifestato: un'esperienza orribile, nuda a Buna-Monowitz, agghindata altrove, e pure l'unica che si ha e che, dunque, bisogna essere capaci di trovare, se non amabile, almeno non detestabile.
Ma solo fino a un certo punto. E sta qui, suggerirebbe infine Apollonio a Domenico Scarpa, il mistero profondissimo delle parole che ha avuto l'acutezza di sottolineare. Abbassa lo sguardo Primo Levi, di fronte al suo interlocutore. Sembra una crisi della timidezza che fa dire a chi l'ha conosciuto quanto fosse delicato e sommesso il suo conversare. Forse lo fa invece (o nel contempo) perché sa che sarà per una volta sfrontato, tanto da dovere ricorrere a un eufemismo, a dire il vero, stilisticamente pesante, per esprimere il nocciolo forse più personale del suo discorso, per dire che molte volte egli ha provato a resistere alla condanna e s'è trattenuto dal commettere l'atto impudico, impuro, insano e, infine, blasfemo, dello scrivere che, infine, ha commesso. Non c'è del resto un solo libro che, lo si sa da migliaia di anni, merita d'essere stato scritto? E chi ne è l'autore?
Dice tutto questo da "impiegato" cui, confessa, piace narrare oralmente la sua picaresca avventura. Ma scrivere? E se fosse un oltracotante dissacrare? Lo dice in un discorso tenuto a casa sua, tra le mani un giocattolo del figlio e alle spalle una modesta libreria; in un discorso che oggi, col senno del poi, suona, per chi lo vuole intendere, come vaticinio terribilmente premonitore.
"Non sapevo ancora di essere in grado di commettere questo atto...". Ventiquattro anni dopo, nei medesimi luoghi, prima di fermarsi sull'impiantito, per i pochi attimi concessi a un uomo che, definitivamente, non dovrà mai più vergognarsi di scriverne, Primo Levi ha forse perfettivamente saputo di esserne stato e, al tempo stesso, di non esserne più stato capace.
non saprei dire - e non lo so in effetti - con quali intenzioni Levi avesse preferito il termine' commettere'..
RispondiEliminaper saperlo con certezza, non c'era che da domandarlo a lui mdesimo;
la sua testimonianza lascia suggerire l'ipotesi di un dolore scavalcato, lontano abbastanza da poterlo osservare nella sua interezza, come si fa con una foto tenuta a distanza;
si, c'è un che di vergogna nella sua 'ammissione', vergogna per il fatto di aver scritto un'opera anche poetica, ma è lui stesso che specifica:
-"sarei più lieto che questo libro - Se questo è un uomo - venisse letto più per il suo aspetto documentale che poetico.."-
C'è da fermarsi e pensare sulle considerazioni di Apollonio. Anche quanto dice Cartabaggiana invita a riflettere. Scrivere, lo scrivere, può sembrare talvolta un sfrontatezza, la prepotenza di tramandare i propri pensieri, un peccato, insomma. Chi di noi, se non un poeta, oserebbe confessare tutto, ma proprio tutto ciò che pensa? Quante brutture, quanti dolori regaleremmo alla immaginazione degli altri. Dunque, proprio per questo, chissà, Levi che non era un poeta, sapeva bene che lo scrivere, senza nascondere nulla, su quel male grande avrebbe tramandato anche la capacità umana di concepirlo. Usando quell'espressione ha, forse inconsapevolmente, tentato di attenuare l'ombra che la vivida luce del documento lascia nelle coscienze.
RispondiEliminaBlak