4 novembre 2024

Spettatore pagante (6): "Megalopolis" di Francis Ford Coppola

Mettere un'opera del proprio ingegno e del proprio impegno sotto un titolo è darle un nome. Ed è già, di norma, atto espressivo e comunicativo di importanza capitale. 
Il battesimo ha un valore ancor più straordinario se, giungendo in veneranda età dell'artista, l'opera è quella intorno alla quale si afferma di avere meditato per decenni; di cui si sostiene di avere sognato lungo tutta la propria luminosa carriera professionale; per la realizzazione della quale si è persino provveduto a liquidare parte del proprio patrimonio personale. È appunto il caso di Megalopolis di Francis Ford Coppola. Troppo, c'è immediatamente da sospettare.
Troppo, senza dubbio. E quel nome, parlante, già dice di un eccesso. Lo dice con il suo primo elemento, per semplice analogia lessicale: è il medesimo di megalomania. Ma dice di un eccesso ancora più grande, megalomane appunto, con il riferimento analogico cui, quanto alla storia del cinema, il suo secondo elemento indirizza senza equivoco: Metropolis di Fritz Lang, film del quale fra tre anni ricorrerà il centenario. 
D'altra parte, che Francis Ford Coppola, con Megalopolis, abbia dato sfogo a una sua vena espressionista è chiaro sin dalle prime inquadrature della pellicola. E il suo principale riferimento diventa lampante quando, andando avanti, si vede lo sviluppo narrativo scandito da didascalie sentenziose ed esplicative, come furono quelle che fungevano da intertitoli nel cinema muto.
Quando Lang prima concepiva, quindi dirigeva il suo film leggendario era tuttavia quasi quarantenne ed era partecipe del fervore (letteralmente) esplosivo e corrusco dei primi decenni dell'Europa del Secolo breve. Il Coppola di Megalopolis è invece un ultra-ottantenne immerso nel gelido e cupo stagno globale in cui si versano i liquami della putrefazione della modernità, quando è trascorso il primo quarto del ventunesimo secolo. 
E non si dica che, nei diversi contesti culturali, ma anche brutalmente sociali e concretamente antropologici, il dato biografico sia privo di correlati, da un lato, compositivi, dall'altro e quanto alla valutazione, critici. 
Tanto fu viva e tesa l'espressione espressionista e conclusivamente inquietante di un giovanilmente maturo europeo degli anni Venti del secolo scorso, quanto vizza, aggranchita e, in chiusura, stucchevolmente consolatoria è quella di un vecchio americano degli anni Venti di questo secolo. 
Al posto di inventare, in effetti, Coppola cita e ricicla all'ingrosso: Shakespeare e Federico Fellini, William Wyler e Marco Aurelio, Gaio Sallustio Crispo e Ridley Scott, H.G. Wells e se stesso. 
Il risultato è un guazzabuglio. Lo spettatore pagante, con la sua modesta cultura generale e in particolare cinematografica, non ha certo potuto riconoscerne tutti gli ingredienti. Ha tuttavia colto il disordine di un composto non amalgamato, l'accozzamento privo di ratio e di grazia, la sciatteria paradossale per lo spreco dei mezzi tecnici (tuttavia, a guardare con attenzione, meno grandioso di quanto si sia favoleggiato).
Megalopolis è insomma un film grottesco, un'americanata, un fantapeplum che muove sovente al riso, già a partire dal frullato onomastico di cui si fregiano i suoi improbabili personaggi: Cesar ['sisa'] Catilina (inventore di una nuova materia, chiamata anch'essa non a caso megalon), Franklyn e Julia Cicero, Hamilton Crasso III, Clodio Pulcher, Wow Platinum. E, ciliegina sulla torta, per la bimbetta che in epilogo continua a muoversi anche quando i suoi summenzionati genitori hanno romanticamente fermato il tempo, Sunny Hope Catilina. 
C'è d'altra parte ancora una differenza fondamentale tra Metropolis e Megalopolis. Il primo, del 1927, è un film muto. Il secondo, purtroppo, no. Non c'è in esso una sola parola che non spinga in effetti a rimpiangere, nel confronto, una sortita cinematograficamente memorabile: "I love the smell of napalm in the morning". 
Allo spettatore pagante essa ricorda che Francis Ford Coppola, quarantenne quando il Secolo breve si avviava alla fine, fu capace di aggiungere alla storia del cinema un capolavoro tardo-espressionista. E l'ammonisce: la vecchiaia è un grande guaio. Gigantesco, quando perde il controllo di sé.

3 commenti:

  1. 👍👍👍

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  2. A me è piaciuto per la recitazione di Adam Driver, splendidamente doppiato, per i costumi, per alcune scene che ricordano altri film, compreso Apocalypse now. Penso che vada visto a prescindere dal modo in cui è stato pubblicizzato. E' un film per gli occhi: la trama non ha molta importanza, in fondo anche quella di Metropolis non era il punto forte del film.

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    1. Apollonio Discolo4/11/24 11:41

      Il piacere, come esperienza e come relazione con altro da sé tra le più personali, è fuori d'ogni questione, Lettore o Lettrice senza nome. Correlandolo al gusto, lo dice, ben al di là dell'apparente banalità, un luogo comune che si direbbe fenomenologico ante litteram. Senza negare l'incidenza delle mere sensazioni, Apollonio, nella veste di spettatore pagante, prova sempre a trovare tuttavia nell'osservazione (e gli occhi vi hanno appunto un ruolo non secondario) un fondamento per esprimere un'opinione. E lascia che chi legge benevolmente intenda, sempre che voglia e gli importi, quali sono i suoi sentimenti . Ci faccia caso: "a me piace" o "a me non piace" sono espressioni che, se ricorrono, ricorrono molto raramente in questo diario. E vuole sapere cosa ha pensato per un momento Apollonio uscendo dalla sala, un paio di sere fa? Ha pensato che, anche visivamente e con la sua ossessione per le citazioni (ha colto, per esempio, Ben-Hur?), il film fosse una parodia e che un regista di film memorabili (e anche non memorabili) come Coppola avesse voluto lasciare la scena con un sarcastico sberleffo alla pretese intellettuali della settima arte. Insomma, il cinema: che sesquipedale mistificazione (anche per gli occhi)! Ma poi ha pensato che Coppola non è Mamet né Kubrik né Hitchcock. È stato un grande regista di cassetta e il sarcasmo riflessivo non è forse mai stato nelle sue corde.

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