6 settembre 2025

Cronache dal demo di Colono (74): Un fenomeno arcitaliano

La previsione era facile: il sei settembre 2025, il ciclone Andrea Camilleri si sarebbe abbattuto sulla nazione (linguistica) con la sua massima asprezza. Sono mesi che imperversa, come si sa. Pian piano, da qui alla fine dell'anno, lo si vedrà ridursi e infine spegnersi.
Fuori di figura e con un vivo sentimento di umano rispetto, peccato che a Camilleri sia finita così. Peccato che di uno scrittore di genere, bravo il giusto e sconsideratamente prolifico, di una persona di spirito, ma incline ai luoghi comuni, di un uomo di buona cultura, ma niente più che di buona cultura, sia stato fatto un feticcio (quanto durevole lo dirà appunto il tempo). Peccato che a tale feticcio sia stata adesso consacrata un'ara. 
Come in una festa strapaesana e con il pretesto di magnificazioni sesquipedali, intorno a tale ara si sono celebrati e si celebrano riti sfacciatamente (e comprensibilmente) commerciali e comiche manifestazioni di presenzialismo. C'è chi ha venduto e vende ogni sorta di santini, chi zucchero filato e torroni, chi ha sparato e spara tricche tracche e mortaretti e chi, infilandosi nelle chiacchiere di tutti i crocicchi, le ha infiorate e le infiora con ricordi personali originalissimi, ma dai quali la comunicazione di massa trae da decenni stucchevoli e ormai rancidi polpettoni. 
Si dirà che Camilleri lavorò a tale esito, nel breve scorcio della sua vita in cui fama e successo lo toccarono, improvvisi e irragionevoli, come sono sempre, chiunque tocchino. Si dirà che anzi lo fomentò. 
Lo fece sulle prime con un'autoironia sorridente ("Ho famiglia", gli si sentì più o meno affermare, "e penso al futuro di prole e nipoti"). Poi, però, come trascinato da una corrente, divenne preda, in apparenza, di un'irragionevole temerarietà. È evidentemente il sentimento che un dio feroce dona a coloro che destina a perdere un temperato giudizio su se stessi, nel clamore e negli effetti di interessate lusinghe. Si direbbe quasi una perdita del pudore.
A Camilleri bisogna concedere però che resistere sarebbe stato difficile e avrebbe domandato ben altra tempra. O l'essere nato e cresciuto in una nazione diversa da quella in cui invece si è riconosciuto senza remore e che, riconoscendosi a sua volta in lui, l'ha eletto a campione di una sua temperie morale e culturale certo non brillantissima né memorabile. 
Come si può e come detta il tempo, Andrea Camilleri è entrato così nel novero degli arcitaliani ufficialmente riconosciuti come tali (quanto a lungo vi rimarrà, lo si ribadisce, non è dato di saperlo) e la compagnia, va detto, non è delle migliori. 
Da più di sette secoli, infatti, il meglio dell'Italia e della sua cultura si esprime nell'"anti-" più che nell'"arci-". E, senza per questo pensare a chissà quali valori (sette secoli fa, ce ne fu in effetti uno fondativo e fu un segno permanente, per la nazione), ma restando in una sorta di locale e recente medietà, basta uscire dalla sagra strapaesana e percorrere i trenta chilometri che separano la burlesca Vigata dalla grave Regalpetra, per rendersene conto. Spassionatamente.