21 dicembre 2025
14 dicembre 2025
8 dicembre 2025
Minuzie (2): (Una) Lady Macbeth nel distretto di Mcensk
Tanto (e giustificato) rumore intorno alla prima ambrosiana dell'opera di Dmitrij Šostakovič, tratta da una novella con il medesimo titolo di Nikolaj Leskov. Guasterà in proposito l'inezia di una nota onomastica?
Il teatro musicale conta decine di opere per il cui titolo librettisti e, naturalmente, compositori hanno classicamente fatto ricorso a una antonomasia classica. Due esempi che più celebri non potrebbero essere: Il Barbiere di Siviglia e La Traviata. E a bizzeffe ne conta la tradizione dell'opera buffa e dell'operetta: Die lustige Witwe è un famoso campione.
Rari, alla modesta conoscenza di Apollonio, sono invece i casi (sempre che il plurale sia adeguato) in cui il titolo è un'antonomasia vossianica. (Una) Lady Macbeth nel distretto di Mcensk è appunto tale. E le parentesi valgono inoltre a segnalare che il russo "articulos non desiderat" (come il latino, si ricordava con Quintiliano ora è qualche giorno). L'originale fa quindi tranquillamente a meno di una. È ovvio infatti che non si tratta del personaggio che si è trasferito a qualche distanza da Mosca, dopo avere compiuto i suoi misfatti tra le nebbie scozzesi e qualche secolo prima, secondo la fantasia del Bardo (ohibò!).
Un'antonomasia classica dà a un nome comune (o a un'espressione equivalente) la funzione propria di un nome proprio: lo Zar, per esempio, nella presente congiuntura e per restare nella medesima area geografica, il Vate, il Bardo, appunto. Fa precisamente il contrario l'antonomasia vossianica. A ciò che, in una tradizione culturale, è registrato con la funzione di nome proprio, attribuisce una funzione da nome comune: un quisling, una venere, un creso...
Leskov, prima, Šostakovič e il suo librettista, sulla scia, vollero evidentemente fare colpo sopra lettori e pubblico. Con gusto giornalistico, già nel titolo presentarono la protagonista delle loro opere sotto il segno di una perfidia tanto letterariamente famigerata da essere antonomastica.
C'è però il dubbio che così facendo, all'antonomasia vossianica, abbiano aggiunto una catacresi, un abuso. A dispetto del titolo, la loro povera, disperata, terribile Katerina pare poco in effetti una Lady Macbeth.
7 dicembre 2025
Le occasioni di ridere... (4)
non vanno mai sprecate. In un pezzo che prende a pretesto un tema in questo momento à la une e che campeggia nella pagina "Scienza e filosofia" (proprio così) di una reputata gazzetta culturale a cadenza settimanale, oggi si coglie questa inestimabile perla: "l'essere umano non è un soggetto autosufficiente a cui ora arriva un concorrente, ma un essere intrinsecamente ibrido, che da sempre delega a ciò che umano non è - utensili, linguaggio, tecnologie - funzioni decisive della sua attività cognitiva".
È proprio vero - chi avrebbe mai potuto d'altra parte dubitarne? - che ci sono più cose in cielo e in terra (quindi, anche negli esseri umani) di quanto non ne sogna chi professa una filosofia (del linguaggio).
3 dicembre 2025
Venti anni e due giorni di questa voce [A frusto a frusto (148)]
Non grida, qui; bisbigli. E non nel deserto, semmai nel suo contrario. E una viziosa debolezza: l'illusione, consapevole, che ci sia qualcuno all'ascolto.
[L'esordio e i dieci anni].
1 dicembre 2025
Lingua loro (55): "Gli manca solo la parola..." (Una questione di figure)
"Gli manca solo la parola...", detto di preferenza di un cane, come animale di compagnia, è un'iperbole. A questo diario capiterà, prima o poi, di venire più distesamente sull'iperbole. Al momento, basta tuttavia richiamare l'attenzione sopra quel "solo". Dell'iperbole in questione è la chiave di volta.
E basta in proposito osservare spassionatamente che l'avverbio è lungi dall'avere un valore denotativo. Il riferimento alla "parola" dice naturalmente di un confronto con l'essere umano e alla terza persona cui la formula allude "manca" certamente anche altro. Sempre nel campo delle espressioni, per esempio qualcosa "gli manca" quando compie le sue funzioni corporali.
Si badi bene: i relativi atti umani sono precisamente i medesimi. Così vuole la natura né le si sfugge. Ma gli esseri umani li caricano di valori culturali diversi da quelli della "parola". Conseguentemente, tendono a esprimersi in tal senso possibilmente e di preferenza al riparo dall'altrui vista: ritirata, gabinetto, toilette e così via ne sono note conseguenze lessicali.
Di ciò, a "lui" invece nulla cale, se così si può dire, ma sempre per figura. E pensarlo beato, se non lo si fa per figura, è ancora una volta una sciocchezza. Sempre per approssimazione, perché difficilissimo è ogni discorso umano sopra le altre forme di vita, lo si può pensare al massimo come radicalmente indifferente.
La sua naturale indifferenza favorisce talvolta una qualche noncuranza culturale da parte di coloro cui capita di affermare che "gli manca solo la parola". Lo testimoniano inoppugnabilmente i luoghi pubblici dove i cani vengono condotti a esprimersi nel modo strettamente comparabile con quello della specie umana, non potendo farlo con la "parola". Luoghi che esibiscono poi tali espressioni.
Ed è un bel paradosso: sono luoghi che dimostrano come la mancanza di "rossore" (così si diceva un tempo, per metonimia) possa in effetti essere contagiosa e passare da una specie a un'altra. Letteralmente per trasferimento dai cani ai loro umani, dunque per metafora e non per iperbole, ci sono dunque umani che, pur dotati di "parola", sono cani. Come tali, manca loro il "rossore". Insomma, è tutta una questione di figure. Di qual materia, decida chi legge.
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