30 dicembre 2006

Lingua nostra (1): "Noi" chi?

L'antefatto. Sotto il nom de plume che ad Apollonio è toccato di prendere nella parvenza della sua vita professionale, è comparso di recente uno scritto dedicato a Cosa Nostra, curioso delle ragioni non storiche né erudite ma concettuali e linguistiche (cioè paradigmatiche e sintagmatiche) di una simile (auto)designazione: nostra? E perché non mia, tua, sua, vostra o loro? E perché cosa? Non è questo il luogo per riassumere tale scritto (i curiosi vadano a cercarlo, per gli altri un riassunto a cosa servirebbe?), ma basterà dire che quasi tutto vi ruota intorno al noi, il pronome di vigliaccheria (a Giorgio Manganelli il merito di tale definizione, felice anche se inadatta a contenerne l'intero obbrobrio). La divagazione nella miserevole landa linguistica del pronome di prima plurale (già così e senza aggiungere altro se ne denuncia la natura di vergognoso imbroglio) ha ricordato a Pietro De Marchi - saprà lui perché, dietro l'occasione - una lettera di Manzoni (non del Manzoni un'immagine del quale commenta olezzante un post di qualche tempo fa, ma del più noto Alessandro) a Tommaso Grossi, scritta a Firenze il 17 settembre 1827. La lettera è stata segnalata ad Apollonio in una corrispondenza privata di gentile sollecitudine. Se ne mette qui a parte il lettore.
Nel settembre del 1827 Manzoni si trova nel capoluogo toscano per le ragioni ben note e gli capita quel che riferisce al suo corrispondente: "Te ne dirò un'altra, e sarà l'ultima. Niccolini, il quale è uno dei pazienti revisori della mia storia (vedi chi sono andato a pescare; ti par ch'io sia ghiotto, eh?) Niccolini mi disse una di queste sere: a quel passo dove usate la frase con un'aria di me ne rido, potete levare quella giunta: come dicono i milanesi; perché si direbbe benissimo anche qui. Io dissi che questo mi faceva piacere tanto più che il me ne rido non è tanto milanese. La nostra locuzione, soggiunsi, è la più strana del mondo; e sorridendo, appunto come chi dice una cosa pazza, noi diciamo, continuai, diciamo, e chi sa dove lo siamo andati a prendere, diciamo: me ne impipo. - Eh! me ne impipo si dice anche noi. - Voi? - Noi. (E qui considera, tu o Rossari, che altro suono abbia quel noi nella bocca di un Niccolini, che nella nostra di noi, che abbiamo quel noi attaccato collo sputo, che così si dice appunto, non già: appiccato colla sciliva, come credevamo noi;) Dunque, per continuare il dialogo, voi!, ripetei io. - io credeva che voi diceste piuttosto: io me n'indormo. - Che! me n'indormo non lo dice nessuno in Toscana. - E me n'impipo? - ...Me n'impipo lo dicono tutti. All'indomani io contava questa storia all'altro mio buon revisore [...] Io contava dunque la storia al bravo Cioni, il quale mi disse: sicuro, sicuro, impiparsene è la parola più propria e più usata nel linguaggio familiare. Io allora, sorridendo come aveva fatto con Niccolini, noi poi, soggiunsi, appicchiamo a questo verbo una giunta stranissima, cavata non so donde... - Ed è? - Diciamo: impiparsi dell'Olanda. - Sicuro, sicuro, impiparsi dell'Olanda, così diciamo anche noi. - Anche voi? - Anche noi" (dalla scelta delle Lettere di Manzoni, curata da Ugo Dotti per la Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1985, alle pp. 293-4).
La grazia irresistibile da gag d'altri tempi dell'aneddoto non oscurerà nel lettore la consapevolezza di trovarsi di fronte a una questione di cui, non foss'altro che per diletto, non è consentito, come italiani, d'impiparsi e che i quasi due secoli trascorsi, coi loro fiumi d'inchiostro, sono ben lungi dall'avere chiarito: perché nostra, anche quando si riferisce a lingua, come dimostra la storiella, resta un imbroglio.

22 dicembre 2006

Ancora "pazienza"


"Le génie n'est qu'une plus grande aptitude à la patience", l'osservazione si deve al naturalista Buffon. Gliela attribuisce Marie-Jean Hérault de Séchelle, ghigliottinato nel 1794. L'anno precedente, dalla sua penna era uscita una Dichiarazione dei diritti dell'uomo. E siamo così di nuovo ai compositi esiti (non necessariamente dialettici) dell'Illuminismo.
Il paziente albero di Rilke avrà tratto anche da lì i suoi succhi, lentamente maturi, e la calma serenità da opporre alle tempeste. Anche a quelle che diffondono il bene (o finalmente lo instaurano) mozzando qualche testa impaziente (ma di rado quelle che funzionano peggio).

18 dicembre 2006

Bolle d'alea (4): Rilke

"Da gibt es kein Messen mit der Zeit, da gilt kein Jahr, und zehn Jahre sind nichts, Künstler sein heißt: nicht rechnen und zählen; reifen wie der Baum, der seine Säfte nicht drängt und getrost in den Stürmen des Frühlings steht ohne die Angst, daß dahinter kein Sommer kommen könnte. Er kommt doch. Aber er kommt nur zu den Geduldigen, die da sind, als ob die Ewigkeit vor ihnen läge, so sorglos still und weit. Ich lerne es täglich, lerne es unter Schmerzen, denen ich dankbar bin: Geduld ist alles!"

Il 23 aprile 1903, da Viareggio, Rilke scrive queste parole a un giovane corrispondente. In un blog, sul crepuscolo del 2006, suonano paradossali. Ma questo paradosso è il pensiero augurale che, per il tempo che viene, Apollonio Discolo lancia a chi ha avuto la pazienza di cercarlo e di leggerlo, come a un corrispondente ideale.
[Nella traduzione di Leone Traverso: "Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni non sono nulla. Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senz’apprensione che l’estate non possa venire. Ché l’estate viene. Ma viene solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri d’ogni ansia. Io l'imparo ogni giorno, l’imparo tra dolori, cui sono riconoscente: pazienza è tutto"].

14 novembre 2006

"Biliografia" semiotica

Dal 16 al 19 novembre 2006, all'Università della Calabria l'annuale congresso dell'Associazione Italiana di Studi Semiotici (di cui chi scrive si onora di essere socio). Notizie alla pagina web:
Come il lettore può verificare (se non lo ha già fatto), tra gli strumenti messi a disposizione dei congressisti, una
"biliografia dei relatori"
(molti nomi illustri nel numero, alcuni più che illustri).
Non mi sono note altre ricorrenze di un lapsus del genere. Se non ce ne fossero, o, meglio, se non ce ne fossero di già registrate, mi direi stupefatto: così facile, così rivelatore. E anche così gustoso.
'Pagine biliose tracciate da penne intinte nell'umore responsabile della collera' vs. 'Scritti la cui lettura provoca travasi di bile'. Meglio, 'Pagine biliose tracciate da penne intinte nell'umore responsabile della collera' e/o 'Scritti la cui lettura provoca travasi di bile'.
In ogni caso, enfiamenti di bi(b)lioteche (vulgariter, cistifellee), e certa collera celeste della buonanima di Roland Barthes, infecondo (anche perché inimitabile) padre della disciplina, che, com'è noto, mai nascose di amarle poco, le bi(b)lioteche.
Insomma, la semiotica, oggi: l'ittero delle scienze dell'uomo o, semplicemente, una disciplina itterica? Temi cui consacrare il convegno dell'AISS dell'anno che viene.

8 novembre 2006

Bolle d'alea (3): Voltaire, Sciascia

E a proposito di Leonardo Sciascia: oggi che, con pretesa di minoranza intelligente, gli "illuministi" sono tali per semplice autodichiarazione ("Quanto a me, io sono un illuminista...": esagerato! che tu fossi anche solo un po' illuminato basterebbe), merita d'essere ricordata la sua ripresa (dove, l'ho dimenticato) delle parole che a Voltaire (nel Dizionario filosofico: o sbaglio?) ispira chi si impanca a giudice nella repubblica delle lettere (e non sono pochi: eventualmente, Dio lo scampi, anche colui che qui per autocritica si aggrappa a questo duplice e sfuggevole riferimento):
"Le plus grand malheur d'un homme de lettres n'est peut-être pas d'être l'objet de la jalousie de ses confrères, la victime de la cabale, le mépris des puissants du monde; c'est d'être jugé par des sots".

Lingua loro (4): Il mutamento accelera

"Cari amici AISV,
Gli organizzatori del convegno AISV 2006 mi pregano di INVITARVI ad accellerare la vostra registrazione ONLINE... al Convegno...".
Accellerare non è una novità: il parlato e lo scritto dei (semi)colti ne contano ricche attestazioni da tempo. Ma oggi, 8 novembre 2006, m'arriva con una lettera elettronica del Segretario di un'associazione scientifica che si occupa di lingue. E mi pare così superata un'ulteriore frontiera. Agli eruditi che un giorno faranno sembiante di occuparsi di mutamento linguistico, la presente determinazione temporale verrà forse utile: donde la consapevole idiozia di fissarla. A futura memoria, ammessa ma non concessa una memoria al futuro, come insinuò possibile Leonardo Sciascia, cui peraltro sfuggì il presente (e per lui futuro) imbroglio della cosiddetta artificiale.

10 ottobre 2006

Lingua loro (3): Alternativa al Sole

"Ho capito, quando sono arrivato a Flagstaff, che avevo scelto il posto giusto non perché sono presuntuoso, ma solo perché ero stato fortunato e il sesto senso ha una ragione d'essere. E la fortuna in quel momento era duplice. Aver trovato il posto ed esserci. Da quel momento in poi è stato tutto un delirio di cose da vedere. Posti meno codificati ma lancinanti come dolori intercostali. Bryce Canyon, Marble Canyon, l'Horseshoe Bend, Monument Valley, Arches Park. E l'Antelope Canyon, un luogo indescrivibile da lasciare il campo a due semplici alternative: all'Antelope Canyon o ci sei stato o non ci sei stato".
Giorgio Faletti, "Il destino dei visi pallidi", sulla prima pagina del supplemento culturale domenicale del Sole 24 Ore dell'otto ottobre 2006 (n. 272).
Ancora, quantificabile: "L'Arizona era in quel momento un angolo della terra che per quelli della mia età aveva il senso di un pellegrinaggio. Forse più nella memoria che non in un luogo geograficamente quantificabile".
Approccio: "Avevo avuto un approccio cartografico, prima della partenza... Su per la strada che saliva verso una strana città che si chiama Sedona, ho avuto il mio primo approccio a una strada che attraversa i canyon e le foreste...".
Devastante e sconfessare: "L'arrivo al Grand Canyon è stato devastante. Non ci sono foto, non ci sono filmati, non ci sono idee che non vengano sconfessati dalla realtà".
Arrivare: "E qui è arrivata la malinconia. Ho capito la bellezza di quella terra e ho iniziato a guardarla con gli occhi di uno dei vecchi proprietari, un indiano di non importa quale tribù... E qui è arrivata un'intuizione che ha cambiato il corso delle cose. Leggendo un libro di storia, sono venuto a conoscenza di un piccolo dettaglio...".
Il domenicale del Sole migliore del leggendario Drive in? Il personaggio Faletti caricatura linguistica più efficace dell'amatissimo Vito Catozzo? Non so: propenderei per una risposta positiva, ma giudichi il lettore: "Perché io so' Vito Catozzo, un vero macchio! Io tratto le donne come tratto i delinquenti! Ci ho mia moglie Derelitta che ha un rapporto peso-potenza 1:1. 140 chili, 1 metro e 40... Pure la dieta mi va a fare, mondo cano: mi diventa 110 chili... Ci ho detto: «Derelitta, se volevo un'indossatrice la sposavo, maiala la mandria con tutti i mandriani!»... A mia moglie Derelitta ci ho fatto sette figli in 6 anni... e prendeva la pillola! Sei figlie femmine mi ha dato prima di avere il maschio: Crocefissa, Derelitta jr, Addolorata, Immacolata, Selvaggia e Deborah, tutte come la madre... e poi è nato Oronzo, che io, mondo cano, l'ho chiamato Oronzo Adriano Celentano Catozzo, non per spregio a Little Tony, ma Adriano è sempre dentro il cuore, mondo cano!... Che se io saprei che mio figlio mi diventerebbe un orecchione, vivo glielo faccio mangiare il ritratto di Dorian Gray!".

30 settembre 2006

Bolle d'alea (2): Genette

"J'ai oublié qui disait, et à propos de qui: «Méfiez-vous de ce type, il croit tout ce qu'il dit»".

Gérard Genette, Bardadrac, Seuil, Paris 2006, p. 412

29 settembre 2006

Mirabilia del Pensiero (1), ovvero...

...divulgate, divulgate. Qualcosa resterà!

 "La logica è lo studio del logos: cioè, del pensiero e del linguaggio. O meglio, del pensiero come esso si esprime attraverso il linguaggio. Il che significa che, per capire la logica, bisogna anzitutto cominciare a capire il linguaggio, che almeno nelle sue versioni indoeuropee si basa su una tripartizione delle parole in tre categorie fondamentali: i sostantivi, gli aggettivi e i verbi, che servono a indicare oggetti, proprietà e azioni (0 stati), come nella frase «l'homo sapiens parla». Ciascuna categoria corrisponde a un particolare modo di guardare e vedere il mondo, e ha dato origine a generi letterari complementari: l'epica, la lirica e il dramma, che si concentrano rispettivamente sui personaggi, i sentimenti e gli eventi.
Vedere il mondo sotto la specie degli oggetti, delle proprietà o delle azioni vuol dire osservare da un punto di vista significativo ma parziale ciò che ci circonda, e determinare la natura della descrizione della realtà. I bambini, ad esempio, hanno più facilità a distinguere gli oggetti che le azioni, e imparano più facilmente i sostantivi che i verbi. E in parte questa attitudine permane anche negli adulti, visto che le lingue parlate moderne hanno in genere molti più sostantivi che verbi. In altre parole, il mondo ci appare oggi più «naturale» come insieme di cose che come insieme di eventi, benché non sia sempre stato così: ad esempio, nel greco antico era vero il contrario, e i nomi erano in gran parte derivati verbali.
Analogamente, in genere nelle lingue il singolare è più frequente del plurale: ciò significa che riconosciamo più facilmente gli individui che non le specie e i generi, o gli insiemi. E il plurale generico è più frequente di quello specifico (duale per le coppie, triale per le terne, eccetera): ciò significa che riconosciamo tanto più facilmente le specie e i generi, o gli insiemi, che i loro tipi cardinali.
Ovviamente, non per ogni oggetto c'è un nome, o per ogni proprietà un aggettivo, o per ogni azione un verbo. Anzi, è vero il contrario: soltanto pochissimi oggetti, proprietà e azioni ricevono la nostra attenzione, e vengono battezzati con una parola. Gli altri dobbiamo farli rientrare in quelli, con un processo di approssimazione che spesso diventa una semplificazione della complessità della realtà. Ma senza semplificazione non ci sarebbero l'astrazione e il pensiero: ad esempio, ogni uomo rimarrebbe un individuo a sé stante, e non arriveremmo mai alla concezione dell'umanità.
Il problema principale che il linguaggio e il pensiero devono risolvere è dunque di riuscire a mediare tra gli eccessi di proliferazione e di semplificazione del vocabolario: troppe parole rendono la comunicazione difficile, e troppo poche la banalizzano.
Per questo i bambini che hanno ancora un lessico troppo limitato ci fanno spesso sorridere, così come ci fanno ridere quegli adulti, dai filosofi agli avvocati, che si pavoneggiano invece con uno troppo complicato. E uno degli scopi della logica, forse il più salutare, è proprio quello di sviluppare strumenti sufficienti a farci ridere di una buona parte delle sedicenti «argomentazioni» dei nostri simili, mostrandoci le une e gli altri nella loro infantile ingenuità.
Perché il linguaggio è una tecnologia, e come tale può essere usato o abusato. Infatti, ogni parola è letteralmente una parabola: essendo «messa a fianco» o «in parallelo» alla realtà, essa va interpretata e compresa, e si presta dunque a essere fraintesa. Ad esempio, le stesse parole che ci permettono di cogliere l'essenza del mondo fisico possono anche illuderci di percepire la presenza di un mondo metafisico: prime fra tutte, le abusate parole «spirito» e «anima»..."

Piergiorgio Odifreddi, "Analisi logica dell'anima", La Repubblica 29 settembre 2006, p. 61 [cioè il paginone la cui intestazione intona a gran voce: Cultura. Un trafiletto a margine informa il lettore: "Una conferenza sul 'logos'. L'idea è quella di chiedere a chi per una vita si è occupato di un argomento di condensare in un'ora alcuni elementi chiave da offrire a un pubblico di non specialisti. Il ciclo organizzato dall'editore Luca Sossella, si è inaugurato ieri all'Auditorium di Roma con la conferenza di Piergiorgio Odifreddi 'Che cos'è la logica' di cui pubblichiamo qui una sintesi..."].
Per notizie sull'autore o, come rivela l'indirizzo, sul
"personaggio".

4 agosto 2006

Lingua loro (2): Ippomontati, sì. Ma dove? E da quando?


Google consente d'inseguire le facili inezie in ciò che le fa tali: i loro labirintici meandri. Per questo, per simulare un'attività euristica, per far finta di fare ricerca è uno strumento (quasi) perfetto. Esito naturale di tale prassi, al tempo stesso reale e ingenua (quasi fosse un gioco infantile) ma certo non innocente, è l'inconcludente simil-teoresi che va oggidì dilagando. Si tratta in realtà solo dell’ennesima nuova forma sotto cui rivive l'immortale e rugosa larva dell'eterna erudizione, sempre più a buon mercato. Un divertimento a poco prezzo. L’illusione di saper molto (se non proprio tutto), senza la necessità di capire qualcosa. Non concedere qui a tale illusione un momentaneo visto d'ingresso sarebbe atto oltracotante. Del resto, quale migliore occasione di una quaestio equina per la magnanimità di un gesto agostano?
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Ippomontato, naturalmente, oggi dilaga (anche nella forma femminile e nei rispettivi plurali). E se chi scrive ha dovuto attendere l'agosto del 2006 e un cartello nel parco palermitano della Favorita per farsene finalmente motivo d'ilarità la colpa è certo della sua svagatezza (v. il post precedente). Non altrettanto distratti, e pour cause, sono stati a quanto pare Giovanni Adamo e Valeria Della Valle, che sul crepuscolo del 2005 avrebbero registrato ippomontato nel loro 2006 Parole nuove, pubblicato a Milano da Sperling & Kupfer. Scrivo questo post in condizioni temporali e spaziali che renderebbero ardua la consultazione dell'opera (e chi sa d’università e di biblioteche siciliane, per giunta in agosto, intende quell'ardua) . Mi accontento perciò di ciò che ne apprendo in rete.
Come quella di tutte le altre voci della raccolta dei due studiosi, la registrazione di ippomontato sarebbe esito di un'accanita lettura tra il 2003 e il 2005 di grandi quantità di prosa giornalistica.
Sia detto per inciso, gli autori dovrebbero perciò essere esenti dall’invidia di chicchessia. Ma qualcosa, infine, bisogna pur fare per campare, anche leggere il giornale per professione, togliendosi così per sempre il gusto di nasconderlo rapidamente sotto la scrivania all’inopinato passaggio del capo, che oggi invece esclamerà: «Benedetto ragazzo, non mi dica che da quando è arrivato stamattina in ufficio lei ha letto solo un quotidiano! Per favore, tolga dal suo tavolo quei libri, prenda la sua copia di Repubblica e si metta finalmente a lavorare…».
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Ma si torni al tema. Se, come sembra, Adamo e Della Valle hanno pescato solo nei giornali, al lettore di questo blog, quanto a ippomontato, si può offrire infatti altro materiale fresco (insieme con qualche ragione di riflessione).
La rete lascia credere infatti che già nel 1992 ci fosse in giro un ippomontato e che esso occhieggiasse ironico in apertura del testo di presentazione (sincrono con la pubblicazione?) di un libro di ritratti di meticci messicani, curato da Gianni Guadalupi per i raffinati tipi dell’editrice FMR: «Travolto dall’uragano corazzato e ippomontato dei Conquistadores, il Messico azteco fu trasformato nel corso del Cinquecento nella Nuova Spagna, mecca dei missionari, scatenati in battesimi di massa degli sbigottiti indios, e dei minerari esaltati dalle ricchezze inesauribili dei giacimenti d’argento».
Ippomontato comparirebbe così, con questa sua solo presunta origine, in uno spezzone di prosa (non troppo fastidiosamente) immaginifica, indirizzata a un lettore invogliato dalla presenza dalla trasparente metafora dell’uragano all’accettazione (in)consapevole della saporita innovazione formale, dal retrogusto vagamente volgare. E volgari furono appunto i cavalieri di quell’apocalisse: tutt’altro che cavalieri, appunto, al massimo ippomontati. Portatori inoltre di una lingua e di una cultura che, quasi contemporaneamente, avrebbero trovato la loro più alta e ironica espressione nella figura del maggiore cavaliere della letteratura mondiale: Don Chisciotte, in funzione di Ronzinante, l’ippomontato per antonomasia.
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Si tronchino subito però i fili di questa pista, troppo impegnativa filologicamente. A suo tempo, forse, la si potrà riprendere, se non sarà meglio lasciarla come indicazione, non si sa se più preziosa o velenosa, a qualche futuro perdigiorno. Dal 1992, se di 1992 si tratta, al 1998, Google non trova altre tracce di ippomontato. Ma quando sei anni dopo quella che pare la sua prima comparsa la forma riappare, quanto mutata è da sé! E quanto, invece, coerente (anche topologicamente) con il casuale reperto, il cartello stradale del parco della Favorita che ha fornito il pretesto a questo post e al precedente. Cartello che (si scopre) ha lasciato in rete tracce della sua esistenza almeno già dal 2001. In quell'anno lo notò infatti un giovane senese in viaggio d’istruzione, registrandone nel suo diario sotto forma di blog una salienza referenziale, che senza ippomontato sarebbe inspiegabile: «Massimiliano – Stiamo percorrendo il lungo viale presso il parco della Favorita, quello nei pressi del “Nucleo ippomontato” della Polizia…»).
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Nel 1998, niente metafore né prosa immaginifica, niente ironia né straniamento. Del resto, al di là dell'attendibilità di una datazione al 1992 della prima attestazione messa a disposizione dalla rete, c'è sempre uno stupido pronto a prendere alla lettera ciò che un altro stupido, ma di natura diversa, teneva eventualmente, come ogni celia, quale cosa più seria. E' quanto insegna la mille volte iterata vicenda del cattivo maestro.
Certo, è fuori da ogni celia l’Ufficio Stampa del Comune di Palermo quando con e in ippomontato esprime se stesso, servendosene in due comunicati, uno dell’aprile, l’altro dell’ottobre 1998, nel pieno fiorire cioè di una famosa stagione cittadina, la Primavera dell’amministrazione di Leoluca Orlando.
Gustosa testimonianza della labilità e della rapida usura dell'eufemismo (disabili? Ma come si permettono? Diversamente abili!), il testo che fornisce la prima ricorrenza è per altri aspetti banale: «Un'esibizione del gruppo ippomontato della polizia municipale per gli studenti disabili della scuola dell'obbligo. Martedì 14 aprile 1998, alle ore 10, un gruppo di 70 studenti disabili delle scuole dell'obbligo, accompagnati dai familiari, assisteranno, al Campo ostacoli della Favorita, ad un'esibizione del Gruppo Ippomontato della Polizia Municipale. L'iniziativa è promossa dall'Assessorato alle Attività Sociali del Comune di Palermo e coordinata dall'Ufficio H. All'incontro prenderà parte l'Assessore Luciano D'Angelo: "E' consuetudine - dice l'Assessore - in occasione delle festività natalizie e pasquali organizzare delle attività rivolte agli studenti disabili che quest'anno hanno già partecipato a delle visite guidate nel Centro Storico della città (10 aprile 1998)”».
http://www.comune.palermo.it/Comune/Avvisi/1998/Aprile/Aprile_1998.htm
Lo è meno il testo che mette a disposizione la seconda, dal momento che (giochi del caso) tira inopinatamente in ballo la Spagna, ancora una volta, e vi si rifrange l’eco dei modi di un’antica civiltà cavalleresca, se non ippomontata. Si vede che, come altri umani istituti e la vita stessa talvolta, anche le parole partecipano, precipitando, di oscuri e imperscrutabili destini: «1 Ottobre 1998. Il Re di Spagna cittadino onorario di Palermo. La cerimonia questa mattina a Villa Niscemi seguita dal pranzo offerto dal sindaco Orlando. E' cominciata alle ore 14.02, con l'arrivo del corteo a Villa Niscemi, sede di rappresentanza della Città di Palermo, la visita in Sicilia del Re di Spagna Don Juan Carlos de Borbon Y Borbon e della sua consorte, Regina Sofia. Ad accoglierli, all'ingresso della settecentesca residenza, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando e la moglie Milli. Un picchetto del nucleo ippomontato della Polizia Municipale di Palermo - composto da otto cavalieri in alta uniforme - ha reso gli onori ai Sovrani di Spagna»
Passano appena quattro mesi dal quel fausto e regale ottobre e, dice la rete, nel febbraio del 1999 ippomontato (ormai maturo, e certo di non far più ridere o anche solo pensare) entra nell’italiano dei documenti pubblici e della carta da bollo. E male fanno, di conseguenza, i dizionari anche nelle più recenti edizioni a non registrarlo (destinando me, come si è visto, e molti altri all’ebete sorriso dell’ignorante), laddove bene hanno appunto fatto Adamo e Della Valle, pur con più di sei anni di ritardo, a rendere la nazione linguistica consapevole della lacuna lessicografica. Della cresima di ippomontato si fa onorevolmente carico (come stupirsene, a questo punto della storia?) un’istituzione siciliana, anzi, l’istituzione siciliana per eccellenza: la Regione.
Memori delle cinquecentesche teorie dell’Arezzo (nell’Isola - rivendicava - è nato l’idioma nazionale, merito culturale sottrattole dalla Toscana con abile plagio), gli odierni Siciliani illustri che operano in quella sede istituzionale, forti come sono anche delle prerogative loro concesse dall'istituto autonomistico, non si peritano infatti di provvedere di tanto in tanto e per legge a aggiustamenti e innovazioni linguistiche. E appunto, l’otto febbraio 1999, per decreto, l’Assessore per l’agricoltura e le foreste della Regione siciliana istituisce «i reparti ippomontati del Corpo forestale»
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A partire da quella data, come fiore sbocciato a nuova vita nel corso della Primavera palermitana, l’ippomontato referenziale e, come si è visto, privo del sale (originario?) di un non troppo riposto sfottò comincia a dilagare e, serio e composto, a risalire la penisola, sulle gambe del Corpo forestale. Come la linea della palma, in cui Leonardo Sciascia vide l’immagine graziosamente arborea dell’espandersi sul continente di altri modi siciliani.
Nello stesso 1999, un ippomontato appare però già in Toscana (in un documento del Ministero degli Interni): autoctono? O, avrebbe detto l'Arezzo, la storia si ripete? Si osservi infatti che, ancora un paio di anni dopo (diversamente dagli organismi regionali siciliani, per i quali ippomontato è ormai la norma) la Prefettura di Firenze ha modi linguistici oscillanti e sembra indecisa tra il vecchio a cavallo, nobilmente riferito all'Arma, alla Polizia e persino ai Vigili urbani, e il neologismo, limitato al Corpo forestale: «percorso didattico con dimostrazioni pratiche di soccorso a infortunati, allestito dall'VIII Reparto Mobile, dall' VIII Reparto Volo e dal Reparto a Cavallo della Polizia di Stato, dalla Questura di Firenze, dal Nucleo Cinofilo e dal Reggimento a Cavallo dei Carabinieri, dal Nucleo Regionale Ippomontato e dal Coordinamento Provinciale del Corpo Forestale dello Stato, dai Vigili del Fuoco, dal Reparto a Cavallo dei Vigili Urbani, dal Ministero delle Comunicazioni, dalla Regione Toscana, dalla Provincia e dal Comune di Firenze, dall' INAIL, dall' Associazione». Del resto, ancora nel gennaio 2003, con intenti di variatio lessicale, il periodico Polizia moderna, come cauto enunciatore, mette il preservativo di un paio di virgolette tra sé e la qualificazione che va imponendosi (e che, come lascia intendere il testo, è "il nuovo" che, irresistibile, "avanza"): «Abbandonata per sempre la vecchia funzione di sola rappresentanza che tempo fa vedeva intervenire il reparto a cavallo esclusivamente in occasione di cerimonie ufficiali o cortei, oggi il personale “ippomontato” controlla abitualmente il traffico nelle aree urbane, vigila nei parchi, fa da scorta ad importanti personalità».
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Il fiore attecchisce ormai in ogni dove e, a valanga, oggi - dice la rete - sono ippomontati non solo i gloriosi Carabinieri ex-a cavallo e i reparti della Polizia di Stato, ma, per far qualche esempio, i Vigili urbani nella sabauda Torino (il gruppo «ippomontato» fa bella mostra di sé in foto facilmente reperibili in rete) come nella Rimini felliniana, la Polizia municipale della Leonessa d'Italia e i “ghisa” milanesi: uno di loro incappa qualche anno fa in una storiaccia sentimentale e un quotidiano cittadino, tracciandone il profilo, in cronaca gli dà pacificamente dell’«ippomontato».
Quando il 7 aprile 2006, insieme con il Corpo forestale, ippomontato giunge a Ispra, che (non inganni il nome da località marina calabrese o siciliana) è una ridente località lacustre della lombardissima provincia di Varese, consummatum est, si direbbe prendendo a prestito quella che, per essere in sospetto d’essere divina, è la più definitiva delle formule espressive umane.
Il bel sito web dell’Amministrazione comunale non manca di una galleria fotografica dedicata alle celebrazioni di quel giorno per il cinquecentenario della «Guardia Svizzera Pontificia» (ecco spingersi ancora verso Nord la linea della palma?). Tra le immagini della galleria, tre foto in cui su sfondi anonimi compaiono degli uomini in divisa e a cavallo. Il commento suona: «Cavalieri ippomontati». Il lettore penserà a questo punto: impossibile! Può, se vuole, cliccare per credere:
E dirsi contento di avere così assistito con semplicità e in diretta a ciò che dottissimi Balanzoni, chiamati a consulto in occasione di noiose e paludate assise scientifiche, qualificherebbero come un accadimento lessicale (quanto durevole, nessuno lo sa) del mutamento linguistico.

3 agosto 2006

"Siamo a cavallo!"


"Polizia municipale. Gruppo ippomontato": percorrendo il parco della Favorita, tra Palermo e Mondello, tolti il blu del cielo e la luce del sole (fin quando immutevoli?), non sono molte, come sempre, le ragioni di sorridere. Benemerita, provvede a fornirne una, con un cartello stradale, la fantasia lessicale della burocrazia militare (in cui certo il Burocrate Eterno soffia forte il suo spirito).
"A cavallo"? Ma come si può andare in giro con una qualificazione del genere? Che figura si fa, alle feste, a petto dei Reparti cinofili della Polizia, così fieri di esibire il loro grecismo?
"A cavallo" è un'espressione desueta e, si aggiunga, di sospetta qualità morale, con quel suo involontario alludere. Imprecisa, poi. Come attribuirla a un gruppo, che per altro esiste perché avrà un capogruppo (naturalmente ippomontato), un'amministrazione (dell'ippomontaggio? dell'ippomontatura? dell'ippomontamento?), una sede (dove non solo gli "ippi" staran pronti a essere "montati", ma dietro le scrivanie, tra un cruciverba e l'altro, (ci) si monta reciprocamente con la nobile arte dell'invenzione lessicale). E così via.
Insomma, dietro quel cartello (e la corrispondente carta intestata) pullula la vita di un vero paradiso neolessicale. E neoespressivo. Come non immaginare il capogruppo (ippomontato) ordinare ai suoi subalterni (pronti a ippomontare), al posto di un usurato "Signori, a cavallo!", un aggiornato "Signori, ippomontàte!". E una giovane recluta, desiderosa d'una cavalcata romantica con una bella da conquistare, così (se ne può star certi) si esprimerà: "Signorina, giovedì pomeriggio mi concederà, spero, di ippomontare con lei? Ne sarei molto felice".
Apollonio giura, non c'è ombra d'ironia nel commento finale, ineluttabile: "Siamo a cavallo! Pardon, ippomontati!"

[Illustrazione: J.-L. David, Bonaparte (ippomontato) valica il Gran San Bernardo]

5 maggio 2006

Il parlato, lo scritto


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“Accuminzamo, cu nova promissa, sta gran sulenni pigliata pi fissa”


Andrea Camilleri all’Università di San Gallo, in videoconferenza

Cento E.T. ad un incontro ravvicinato del terzo tipo
San Gallo, sabato 17 dicembre 2005, pochi minuti prima delle 10 del mattino. Sparute automobili si arrampicano per la collina su cui è adagiata l’Università. Ne scendono, infreddoliti negli abiti della festa, signori e signore di mezza età. Non hanno certo l’aria da studenti. Ha nevicato con abbondanza, durante la notte. A tratti, cade ancora qualche fiocco. Un cielo basso e grigio non incoraggia a mettere il naso fuori di casa, in una mattinata semifestiva che già annuncia gli ozi del Natale. A che pro affrontare la neve e i passi cauti che impone?
Chi da una finestra osserva passare quelle auto non nota nei loro occupanti, dietro i vetri appannati, una certa aria di famiglia. Non sente che vi risuona la lingua del sì, nei modi con cui si presenta sulle bocche dell’emigrazione italiana in Svizzera. Modi meridionali, soprattutto: pugliesi e abruzzesi, calabresi e campani, lucani e siciliani. Il tempo, meteorologico ma anche cronologico (sabato mattina, alle 10!), non favorisce le adunate oceaniche. Tuttavia, tra la neve e i suoi rumori attenuati, un centinaio di Italiani si muovono compatti verso un’aula universitaria, per un incontro ravvicinato con l’oggi ottantenne Andrea Camilleri, nato a Porto Empedocle (provincia di Agrigento), residente a Roma, marito, padre e nonno felice, regista teatrale e curatore di serie radiofoniche e televisive, docente di scuole di teatro, imparentato (alla lontana) con Luigi Pirandello (nato del resto proprio da quelle parti) e per lungo tempo scrittore a tempo (quasi) perso.

Un fenomeno culturale e editoriale
Da oltre dieci anni, come ognuno sa, Camilleri, ben avanti negli anni, è diventato la penna più fortunata del gran mondo nazionale della pagina scritta. Un fenomeno editoriale e culturale.
Tutto merito suo e dei suoi lettori, si badi bene. I suoi primi libri non escono infatti per i tipi di uno dei pesci grossi che popolano lo stagno della produzione e del consumo culturale nazionale né godono delle recensioni, pronte ed entusiaste, che cementano le combriccole mondano-accademiche.
Ha pubblicato (e continua a farlo) per Sellerio, un’impresa editoriale artigianale voluta a Palermo da Leonardo Sciascia. A Palermo, dove produrre libri è come coltivare fichi d’India a Milano! Si esprimeva più o meno così lo stesso Sciascia, nato a Racalmuto, che (forse è il caso di precisare), è una cittadina del Girgentano distante pochi chilometri da Porto Empedocle. Insomma, un fazzoletto di terra in cui negli ultimi tre millenni le Furie e Apollo, le Muse e Dioniso devono averne fatte, di ammucchiate.
Anzi, la folgorante apparizione di Camilleri ha salvato la piccola Sellerio quando pareva pronta a precipitare nel baratro della crisi definitiva, scomparso il suo mentore e ispiratore. D’incanto, le classifiche dei libri di maggior successo hanno visto spadroneggiare quei volumetti blu di Prussia che oggi tutti riconoscono e che sono divenuti piccoli oggetti di culto.
Per certi periodi, quattro presenze nelle prime dieci posizioni. Copie vendute a milioni e diritti di traduzione in una babele di lingue. Del resto, i romanzi di Camilleri escono ormai da tempo al ritmo di più di due per anno (né il loro autore si nega una complementare attività di polemista impegnato a sinistra).
Non sarà la cadenza dell’amato Simenon, la cui leggendaria prolificità compositiva fu pari all’altrettanto favolosa capacità di amare le donne (diverse migliaia a sua detta). Ma con i suoi ritmi Camilleri riesce oggi a non abbandonare la prediletta Sellerio (costanza che gli fa onore) e a soddisfare largamente le esigenze non solo della volgarizzazione televisiva, ma anche della Arnoldo Mondadori Editore, emanazione del maggiore gruppo italiano sul mercato dei media e della comunicazione (necessario diffondersi sulla proprietà?).
Camilleri lascia così tutti contenti: anche quelli di cui, con benefici di popolarità, parla male. Riesce insomma a essere al tempo stesso nazional-popolare (come vuole) e popolar-imprenditoriale (come deve, visto che – e non si stanca di ricordarlo – ha famiglia). Gradito agli uni e utile agli altri. Tanto più utile agli altri quanto più gradito agli uni.
Sulle reti Rai passano in prima serata gli episodi della serie televisiva dell’ormai celeberrimo commissario Montalbano, impersonato da un attore dai modi piacioni ma dal profilo mussoliniano. In dislocata sinergia, con corredo di introduzioni cattedratiche e di volenterosi saggi critici, i “Meridiani” di Mondadori gli dedicano, come a un classico, due volumi provvisoriamente definitivi.

In parole e immagini
Provvisoriamente definitivi perché l’opera dello scrittore è ovviamente ben lungi dall’essere compiuta, sostenuta com’è da un’incontenibile vena affabulatrice che esperienze di vita e lunga pratica professionale nel mondo dello spettacolo hanno reso sapiente. Con l’irresistibile simpatia donatagli da tale vena, Camilleri si è presentato in immagine, tra le nevi di San Gallo, il 17 dicembre 2005, a un centinaio di già conquistati lettori. Sì, in immagine e in parola. Lo scrittore era presente infatti in un’aula dell’Università, procurata da Renato Martinoni (professore di Italianistica e presidente della locale sezione della Società Dante Alighieri). Ma ciò è accaduto senza che egli lasciasse Roma e una sala del Ministero degli Affari Esteri, grazie a un collegamento in videoconferenza voluto (e personalmente curato) da Giampaolo Ceprini, console italiano di San Gallo, che a Roma gli sedeva appunto accanto, visibilmente e giustamente deliziato.
Dall’astronave del medium tecnologico, la parola e la figura dello scrittore siciliano hanno così potuto materializzarsi tra noi. E l’atmosfera – cooperanti le già descritte condizioni ambientali – poteva parere da contatto con un altro mondo: insomma, un incontro ravvicinato del terzo tipo.

Lassamu fari a Diu
La discussione a più voci (alcune delle quali autentiche) con l’ologramma vivente di Camilleri ha avuto, come c’era da attendersi, momenti belli e spassosi. Si è appreso, tra l’altro, che la fine di Montalbano è già scritta, che il relativo romanzo è stato consegnato all’editore, con l’istruzione che lo mandi in istampa quando… “lassamu fari a Diu”. Frattanto, per l’estate prossima ci si può attendere una nuova avventura del celebre commissario e altre certamente ne seguiranno.
E quante evocazioni di tempi, di arie, di luoghi resi preziosi dalla lontananza e vividissimi dalla parola di un ottantenne “privo dell’umor nero della vecchiaia” (come si definisce egli stesso). Rivelazioni gustose e accattivanti: memorie (la giovinezza, il padre) e aperture sulla vita privata (l’importantissima moglie: non siciliana, ma “romana, e di educazione milanese”).
Soprattutto, le consolazioni elargite dai luoghi comuni. Applicati alle novità del giorno, sociali o politiche, i cliché prendono la piacevole patina dell’inedito domestico. Producono acutezze bonarie e soprattutto facili da condividere. Con la sua lingua e con i suoi modi, Camilleri è un maestro della sbrecciatura del nuovo e del rinnovamento del noto: “Lavoro, il mio? Privilegio. Scaricare casse al porto o ai mercati generali: quello sì che è lavorare”.

Sta gran sulenni pigliata pi fissa
Gli si fa notare allora di aver donato a un Montalbano appena desto il seguente e permanente pensiero mattutino: “Accuminzamo, cu nova promissa, sta gran sulenni pigliata pi fissa”. Trovata e concetto quasi shakespeariani: vi echeggia, su un tono giustamente minore, una celebre sortita di Macbeth: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”. Insomma, una “gran sulenni pigliata pi fissa”.
Sennonché Camilleri precisa: il pensiero è di Montalbano. Egli se ne dissocia vivamente. Lo attribuirebbe semmai a suo padre, dalla memoria del quale prende ancora espressioni e attitudini da proiettare sul suo personaggio. Senza nemmeno rendersene conto, come (confessa) gli rimprovera con dolcezza sua moglie, che del suocero serba vive rimembranze.
Dai freddi paesaggi scozzesi, corruschi dei fuochi della battaglia, la scena passa subito così al caldo tinello di casa e al ragù che sobbolle. A differenza del padre e di Montalbano, suo ideale figlio di carta, Camilleri crede che ci siano cose che non sono “pigliate pi fissa”. È anzi un dovere sociale, prima che personale, tenersi stretti a tale fede. Scherzare con i fanti è concesso, ma santi e profeti vanno lasciati in pace (come insegnano del resto anche recentissime vicende). Soprattutto se sono santi che, lungi dallo stare in paradiso, si impicciano di crude vicende terrene come la vita politica (eventualmente nazionale).

Cultore di un’illustre tradizione di pensiero e di comportamento nazionale
Solo una menzogna può salvare la verità del narrare: lo diceva Dostoievski a proposito del Don Chisciotte, l’archetipo del romanzo moderno. Ma invitato a rivelare la sua menzogna di narratore (con la premessa di un confronto tanto illustre), Camilleri si avvale della facoltà di non rispondere (forse per modestia). Dichiara solo che, se una sua menzogna esiste, egli non la conosce.
Rivendica tuttavia per sé la figura di gioioso “tragediaturi”: come scrittore, s’intende. E anticipa per chi lo ascolta una benevola burla ai danni, per dire così, dei committenti tedeschi di un testo destinato al catalogo di una prossima mostra di opere di Caravaggio. Si tratterà della trascrizione di un finora ignoto manoscritto siciliano del pittore (che, com’è noto, soggiornò e operò nell’isola).
Attenzione, però: vita privata e impegno sociale sono altra cosa. Lì il “tragediaturi” non c’è. Insomma, a quella piccola cerchia di ammiratori accovacciati ai piedi dell’astronave, Camilleri si presenta puntigliosamente per quel che è: cultore di un’illustre tradizione di pensiero e di comportamento nazionale (forse della più illustre).
Mezzogiorno è passato già da un po’ e (per i tempi imposti dal satellite) l’ologramma pian piano sfuma nel nulla. L’astronave è in partenza e con essa svanisce la parola dello scrittore. L’aula si svuota: resta nell’aria e nella penombra ciò che era implicito, ma non per questo meno chiaro, sin dal principio.
A condurci là in cento, tra la neve di San Gallo, sabato 17 dicembre 2005 alle 10 del mattino, non è stato un incontro ravvicinato del terzo tipo. Le forme tecnologiche? Abito di scena: tocco post-moderno, perfettamente riuscito, di un’azione teatrale ispirata da uno zefiro antico, prezioso e profumato (ma, ahimè, passeggero). Un’aria domestica: i pensieri e le attitudini italiane di sempre, con il soffio carezzevole della lingua quotidiana, mescidata di forme dialettali, che dà loro sostanza.
L’astronave che s’è portato via il nostro Camilleri brilla come un punto ormai lontano nel cielo. Cento piccoli E.T., amabilmente deformi e inadeguati al rigore di quella neve, la inseguono con gli occhi e, commossi, stanno tutti sillabando: “Ca-sa”…
[Questa cronaca è apparsa in "La Rivista", anno 97, n. 3, Marzo 2006 - Camera di Commercio Italiana per la Svizzera, Zurigo]

30 aprile 2006

Feste del lunario

Feste del lunario,
apoteosi dell’umana
stupidità.
Della divina

(spesso se ne fa scusa)
poco si sa.

Bolle d'alea (1): Canetti


"«Schaggo, der Papagei Albert Schweitzer, ist gestorben. Er sprach Französisch und Baseldeutsch, zudem mehrere afrikanische Sprachen und Dialekte. Er konnte auch drei verschiedene Stimmen imitieren». Er wird ausgestopft".

Elias Canetti, Aufzeichnungen 1992-1993, Fischer, Frankfunt am Main 1999, p. 41
["Schaggo, il pappagallo di Albert Schweitzer, è morto. Parlava francese e il tedesco di Basilea. Oltre a parecchie lingue e dialetti africani. Sapeva anche imitare tre voci diverse”. Verrà impagliato.]

14 febbraio 2006

Nomen, non me! (3)


Dalle cronache della letteratura in Italia:



Siano peli popolari.




[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

12 febbraio 2006

Calvino e l'allegoria

La natura allegorica di una considerevole parte, se non dell‘intera opera creativa di Italo Calvino ha poco bisogno di essere ribadita o sottolineata. Essa è esplicita, in chiaro, come oggi si può dire vividamente, prendendo a prestito un‘espressione dal mercato delle emittenti televisive. Le comuni analisi critiche di quell‘opera hanno per altro riconosciuto apertamente tale natura. Calvino è un allegorista. Lo sanno bene i suoi lettori, primi fra tutti i più sofisticati tra essi, i critici. E si abbandonano così al sottile piacere di leggere le allegorie di Calvino attraverso la limpida forma della sua prosa.
L‘allegorismo calviniano si articola però su non meno di due livelli, l‘uno esplicito, l‘altro implicito, l‘uno manifesto, l‘altro celato. Le allegorie del livello esplicito sono quelle alle quali si è comunemente avuto accesso. Esse hanno di norma un contenuto referenziale, che riguarda cioè la rappresentazione del mondo. Al contrario, scarsa o nessuna attenzione è stata finora dedicata alle allegorie del livello implicito, in generale neppure riconosciute come tali. Esse sono autoreferenziali, riguardano cioè il testo medesimo, con i correlati della sua composizione (e investono così la figura dell‘autore) e della sua interpretazione (e investono così la figura del lettore). Da questa ipotesi discende un corollario: dati i loro orientamenti (l‘uno referenziale, l‘altro autoreferenziale), i due livelli allegorici sono gerarchicamente ordinati.
Riferendosi come contenuto al testo medesimo, il livello celato e autoreferenziale contiene il livello esplicito e referenziale. Quest‘ultimo non può quindi essere interpretato correttamente nella sua funzione testuale se non a partire dal livello implicito. In altre parole, accostarsi alle allegorie implicite di Calvino significa accostarsi a un‘interpretazione di Calvino più profonda e comprensiva di quella finora corrente. Resta sullo sfondo, nella concezione calviniana, il problema del fondamento eventualmente non simbolico del livello allegorico implicito.

19 gennaio 2006

Eva fa peccare Adamo

Le etichette grammaticali sono utili strumenti classificatori. Se incautamente adoperate, però, esse possono produrre lamentevoli abbagli: soprattutto per chi dimentica la lezione saussuriana dell’arbitrarietà del segno. Si tratta di lezione che chi si occupa di linguaggio dovrebbe sempre tenere presente e considerare vera anzitutto per la terminologia della propria disciplina, prima ancora di parlarne a proposito delle parole d’uso comune.
L’etichetta di causativo è proprio una tra le tante pericolose, una fra quelle, cioè, che vanno rese asettiche e sterilizzate prima dell’uso, perché nel caso contrario rischiano di rendere infetto ogni sviluppo analitico che se ne serve.
Se si osserva la proposizione Eva fa peccare Adamo e la si mette in rapporto con Adamo pecca, si ha la giusta impressione che tutto quel che dice la seconda sia contenuto nella prima e che la prima contenga inoltre qualcosa in più. Se si vuol dire che cosa sia questo qualcosa in più, immediata si presenta allo spirito l’idea che l’una, rispetto all’altra, ci presenta la ‘causa’ del peccare di Adamo e che tale causa è Eva. Quest’idea è tanto chiara e repentina, da non lasciare il tempo per rendersi conto che essa è un’interpretazione. Certamente, un’interpretazione corretta, ma pur sempre solo un’interpretazione. Osservare che Eva fa peccare Adamo ci presenta la ‘causa’ del peccare di Adamo non ci dice nulla di preciso sul come è fatta la proposizione: ci dice quel che essa significa o, meglio ancora, quel che a noi pare pertinente di quel che noi pensiamo che essa significhi.
Anche
(1) Adamo pecca per via di Eva
(2) Eva è la causa / la ragione / il motivo del peccare di Adamo
(3) Eva provoca / determina il peccare di Adamo
ecc.
rientrano nella classe delle proposizioni alla quale si può attribuire un’interpretazione simile, se non addirittura identica, a quella attribuita a Eva fa peccare Adamo. Eppure nessuna le è sperimentalmente eguale. Ciò è irrilevante? No di certo. Come non è irrilevante l’osservazione che ne consegue. Un’ampia indeterminatezza caratterizza la relazione tra un’interpretazione e una forma. Avere identificato quel che una proposizione significa (pur ammettendo che non si tratti di pura illusione) ci dice pochissimo, se non addirittura nulla sul come quella proposizione è fatta. E sarebbe un singolare paradosso pensare che, determinatane l’eventuale interpretazione, quella proposizione sia trascurabile quanto alla sua forma: infatti, chi può negare che è proprio in funzione di quella forma, e non di un’altra qualsiasi, che gli si presenta allo spirito quell’interpretazione?Dire quindi che l’uso di fare in Eva fa peccare Adamo è causativo, nel senso che esso qualifica un’interpretazione correlata con la ‘causa’ di qualcosa (un evento, uno stato ecc.), ci fa avanzare modicamente sulla via della descrizione di tale uso. E la situazione può solo peggiorare se, fissata come punto di partenza quest’interpretazione e intesa come necessaria la relazione tra l’etichetta e il fenomeno, si comincia a speculare sui modi della causatività (come se questa esistesse in quanto categoria semantica indipendente), delle sue gradazioni e dei fantasiosi riflessi di tali gradazioni nella sintassi delle lingue: un’attitudine per niente inattuale nel panorama contemporaneo degli studi.

14 gennaio 2006

Nomen, non me! (2)

Dalle cronache della linguistica in Italia e dintorni (un maestro longobardo e il suo più illustre scolaro, nella foto. Elle, certamente, la disciplina):

Villano scario:
contr'elle-même.




[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

7 gennaio 2006

Nomen, non me! (1)

Dalle cronache della letteratura in Italia (sic transit... ovvero: due nomi di un'ombra):

Ora, mortali bave,
che pallor t'iberna?






[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]