La Relatio de Legatione Constantinopolitana di Liutprando fu scritta in latino (come diversamente avrebbe potuto, all'epoca?) e, ragionevolmente, in latino si svolse la conversazione tra un imperatore greco e l'ambasciatore longobardo di un imperatore tedesco, cui era venuto l'uzzolo di fare una l'Italia (proprio così!) e voleva venirne a capo con le armi o con un matrimonio: la storia è sempre incontenibilmente ironica.
Tra i moderni che hanno riferito del gustoso aneddoto, forse qualcuno avrà già fatto osservare tali circostanze, tanto ovvie quanto (a ben riflettere) rivelatrici. Ad Apollonio però non risulta. Egli sa direttamente di Carlo Cattaneo e, più di recente, di Giulio Bollati; indirettamente, di Benedetto Croce. Se uno dei suoi due lettori sa di più, lo aiuti e lo corregga.
Liutprando potè dunque dire a Niceforo Foca "Nos, Langobardi", spregiando i "Romani", ma lo disse (e ne riferì ad Ottone) in latino: nella lingua messa in giro per il mondo (e con che imponenza) dagli eredi di quel Romolo di cui il vescovo di Cremona ricorda, tanto per essere chiari, che fu fratricida oltre che (e nelle sue parole pare colpa più grave) frutto di relazione adulterina: "Romulum fratricidam, ex quo et Romani dicti sunt, porniogenitum, hoc est ex adulterio natum". A buon intenditor...
Né meno comica (e certo più inconsapevole e grottesca) è l'enfasi politica sui dialetti che, in odio ai "Romani", oggi furoreggia (come si diceva nel post precedente) dalle parti di Liutprando. Contrapposti pretestuosamente all'italiano, non 'romano' ma fiorentino e, da tempo, sempre più settentrionale e padano, essi sono diversi e locali solo in funzione di quell'identità latina (e quindi, politicamente, 'romana') da cui originano. La loro variazione e la loro comparabilità confermano insomma in ogni momento l'unità storica profonda cui, nei fatti, si riferiscono: come ogni variazione, come ogni comparabilità tra simili. Altro che distacco da Roma e da quei figli di buona donna dei 'Romani' (certo, antichi).
Ciò detto e venendo a ciò che è veramente transeunte, caso mai l'attuale e sperabilmente passeggera enfasi politica sui dialetti si sedimentasse in provvedimenti, lungi dal nuocere all'unità italiana, questi sarebbero forieri di disastri proprio per le parlate locali, strapazzate da un uso strumentale e destinate a passare definitivamente per stupide nel momento in cui entrassero in un'aula scolastica col finto folklore di favolette e canzonette: cadaverini linguistici, odiosi per il dolciastro sentore del marcio. I dialetti italiani (ohibò!) sono infatti delicati, in questa fase della loro vicenda linguistica. Come tutte le cose delicate, andrebbero lasciati in pace e non trascinati nel curtigghiu, se non se ne vuole decretare veramente la morte.
Una morte miserabile, peraltro. Non quella cui è andato incontro l'idioma in cui scriveva Liutprando e che era stato di Fedro, al quale il fantasioso Giorgio Manganelli imprestò un sarcastico giudizio sui "Romani" non troppo diverso da quello polemico del vescovo di Cremona: "Che la mia [lingua] sia morta, non mi stupisce: anzi mi par giusto; tali e tante erano le canaglie che la parlavano".
I dialetti stanno invece in bocca alle persone per bene: che vivano, che muoiano, vanno lasciati tranquilli, al loro piccolo destino. Solo quando è parlato da figli di buona donna ed è rotto perciò a tutte le avventure, un idioma diventa una lingua. E se a parlarla e a scriverla sono veramente gran figli di buona donna, una lingua vive grandiosamente e grandiosamente muore: come il latino. E morta, lasciando numerosa prole, sovente di dubbia legittimità, profuma per sempre di rose.
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