Il tema è trito. I cinque lettori di Apollonio, benevoli, gli perdoneranno se, con facile luogo comune espressivo, evocherà qui in esordio gli impetuosi fiumi d'inchiostro che hanno trascinato per ogni dove quelle quattro parole di un adolescente di genio. O del genio di un adolescente? Non come egli o il suo genio le scrissero, però; piuttosto come "...je est un autre". Donde un fortunato e ormai irrimediabile malinteso.
Nello sterminato impero dello spirito e nella vasta metropoli delle scienze morali, non c'è infatti contrada, oggi, in cui non si trovi segno del passaggio del surrogato. Con "...je est un autre", ci si sono costruiti grattacieli e demolite piramidi, puntellati edifici pericolanti e erose secolari fondamenta, asfaltate autostrade e fatti saltare ponti, disinnescate bombe e approntati detonatori, crepate dighe e rafforzati argini.
Quattro parole e una proposizione: in apparenza, il pronome di prima persona a far da soggetto, la terza persona singolare del presente indicativo della copula e, come predicato nominale, il nome fatto a partire da un aggettivo indefinito, preceduto da un articolo indeterminativo. Una proposizione irragionevole, a prenderla così; scandalosa. Eppure, si deve essere ritenuto, ragionevolissima. Pronta a prospettare, a riassumere un intero, prolungato, estenuato spirito del tempo che, non trovando immagine migliore, ha preso a guardarsi (talvolta con disgusto, più spesso con compiacimento) in questo prisma, molato, in apparenza, da un colpo di lingua sbardellato e magistrale.
Il linguista da strapazzo sorride. Di filologia francese moderna s'intende tanto quanto di cricket: da lui non possono venire di conseguenza che ovvietà e sciocchezze. Bazzicando dalle parti di Zellig Harris, ha imparato però che la metalingua, tutt'intera, sta nella lingua e che le cose che paiono grammaticalmente bizzarre capita lo sembrino solo perché son forme ridotte, trasformazioni di discorsi più lunghi che, intelligenti pauca (così pare atteggiarsi, generosa, la lingua con gli esseri umani), non val la pena di mettere in piazza. Per decenza. Per rispetto. Per magnanima concessione di fiducia. Quella che il genio dell'adolescente (o il converso) accordò, ma senza saperlo, ai posteri: atto imprudente e fortunato. I posteri l'hanno infatti preso alla lettera.
Invece, in quella copula alla terza persona e nella dipendenza che la vuole accordata col soggetto si apre il varco, neppure troppo nascosto, per penetrare dentro quel JE. Malgrado le apparenze, esso non è je, l'omografo pronome di prima persona. È invece quanto resta d'una elementare trasformazione, per riduzione della ridondanza metalinguistica: '[Ciò che io chiamo (o tu chiami, si chiama)] IO è un altro".
Espressione che fa riflettere, allora, ma non per la sua devianza, solo presunta. Piuttosto per la piana, vera, inesorabile regolarità del suo accordo e per la perentorietà con cui la sua stessa enunciazione ribadisce la servile ma incoercibile istituzione linguistica di un io.
... e forse anche ribadisce che la lingua è ineludibilmente conforme, così rimane quando non appaia ed è esigibile che s'aguzzi lo sguardo.
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