La facoltà umana che è uso chiamare lingua (e che, sempre per metonimia, sarebbe più allusivo della sua realtà chiamare orecchio) è un sistema incessantemente processuale e un processo costantemente sistematico, in ogni momento e in ogni suo aspetto.
Si illude o millanta chi proclama di avere, già adesso o in prospettiva, il modo di farne l'oggetto di una descrizione compiuta, ancor peggio, di una comprensione integrale.
Al contrario, è realistico e adeguato mettersi nella disposizione d'animo e nella condizione, se ci si riesce, di cogliere, per via di pertinenza, ciò che non varia nella varietà e ciò che varia nell'invarianza del quasi nulla della lingua di cui si ha la ventura di fare esperienza diretta o per via di studio.
Ecco perché, senza una filologia, non questa o quella filologia, ma inderogabilmente una filologia, l'attenzione rivolta alla lingua diventa un'attività ben che vada spassosa, pur nelle sue complicazioni, ma vana, in termini di conoscenza. Parimenti vana, fuori di un gioco di erudizione, è tuttavia la medesima attenzione quando, invocando specularmente la storia come principio, essa finisce per fare da servile complemento a una filologia, riducendosi a una filologia d'accatto.
Esperienza di un quasi nulla, s'è detto. Di qualsiasi strumento di raccolta si disponga, i cosiddetti dati non saranno infatti mai più di un quasi nulla, se, anche al di là della loro qualità, il loro numero è messo a confronto con la quantità indefinita non solo di ciò che della lingua è patente, ma anche di ciò che non lo è e che è la stragrande maggioranza delle sue evenienze, convenzionalmente dette pensiero.
Non è curioso in effetti ed è indiscutibile che la facoltà espressiva umana destini alla latenza la quasi totalità delle sue realizzazioni. A ben vedere, sarebbe infatti una troppo atroce condanna, per gli esseri umani, vivere nel rumore perenne che deriverebbe dalla manifestazione dell'indefinito numero dei loro pensieri.
È d'altra parte ovvio che si parli di quantità indefinita, quando è in gioco la lingua. Si tratta, come s'è detto in esordio, di una facoltà umana e del relativo comportamento. Evitando in proposito di montarsi la testa, è dunque opportuno, oltre che sobrio ed elegante, lasciare la qualificazione di infinito eventualmente a chi o a quanto ne fosse adeguatamente descritto. Di una cosa si può essere sufficientemente certi: infinito non è niente di ciò che è al tempo stesso umano, lingua inclusa, in ogni suo aspetto.
In funzione di un'indefinita finitezza e del correlato quasi nulla dell'esperienza che se ne può fare, cogliere quanto non varia nella varietà e quanto varia nell'invarianza è in effetti ciò che, per naturale disposizione e sensibilità, fa con la lingua ogni essere umano. Lo fa con accanita dedizione nei primi anni della sua vita e, via via con più scarsa capacità e minore interesse, nel prosieguo, ma caso mai avendone qui e là barlumi di consapevolezza.
Scienza o, forse meglio, sapienza della facoltà espressiva umana convenzionalmente detta lingua è provare a conservare, nei suoi confronti, disposizione, sensibilità e dedizione infantili, con l'obiettivo di rendere meno effimera e precaria la luce che sopra essa getta, come può, una consapevole maturità.
Bello che in figura ci sia tuttavia un libro.
RispondiEliminaNon so nella riflessione del frustolo siano compresi anche i vagiti. Avranno anch'essi uno spazio nell'"indefinita finitezza" della lingua?
RispondiEliminaSA
La forza del vagito è tutta fática
fatica di chi cerca una grammatica
per ascoltare la tua voce estatica.
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Il pianto appena nato di un infante
porta in sé il torvo gracchio di rapace
di micio il gnaulio che non ha pace,
come fionda si tende e in un istante
allenta la sua corda seducente.
Il pianto di un infante nato appena
mescola in sé il singhiozzo di un gabbiano
all’usignolo melodioso e piano
riverbera un muggito la sua pena
sull’altalena di un ricordo ardente.
Appena infante il pianto di un neonato
bela in vagiti insolenti quel rebus
indecifrabile scritto in diebus
illis e solo un seno fa beato:
boato di silenzio incandescente.
Nato di un infante il pianto appena
nasce di verbi una sintassi antica
che in gridolini intermittenti intrica
fini retoriche che sulla scena
piangono un copione irriverente.