In un abito démodé, seduto a un tavolino del dehors (dehor, nello scritto, ormai per molti e senza scandalo), "Mi porta una birra?" lancia da lontano l'antiquato avventore al cameriere. E questi, di rimando e senza avvicinarsi, sciorina "Vuole una ***, una ***, una ***, una *** o una ***?". Invece di rispondere, dando effetto alla "comanda", ecco l'anziano già perso nel ricordo contrastivo di espressioni del tempo della sua gioventù.
Ora è più di mezzo secolo: la bevanda in questione era oggetto di un consumo alimentare probabilmente ancora minoritario, nel Bel paese. Né a chi la consumava passava allora per la testa di designarla, quando era il caso, se non con un nome comune o, forse meglio, non-proprio: birra. Anche con articolo indeterminativo (che, mai scordarlo, è un numerale): quindi una birra, per via del banale tropo implicitamente metonimico che rende combinabile con la categoria grammaticale del numero un cosiddetto mass noun.
Rientrando nel locale, privo del dato che avrebbe reso perfetta e pertinente la richiesta, "Tre caffé e tre acque frizzanti" grida di conseguenza il cameriere al ragazzo dietro il banco. Quel tipo sarà servito quando saprà e dirà cosa precisamente vuole, proferendo il nome di una marca.
Altri tempi, sotto molteplici aspetti, quelli in cui "Mi porta una birra?" era una bastevole ovvietà. A farle guerra e a sommuovere un'area commerciale e comunicativa che, fin lì, era stata dormiente fu una campagna pubblicitaria fortunatissima.
Il suo pay off divenne un tormentone: "Chiamami Peroni, sarò la tua birra". La campagna contava sul contributo di un'appariscente testimonial, non a caso esageratamente bionda e, per stereotipo, dai palesi tratti germanici (le rosse, le brune erano ancora lontane dall'orizzonte comune).
Ammiccando, dalle labbra della ragazzona sortiva, con l'imperativa richiesta di appello per nome proprio, la dichiarazione di correlata, futura disponibilità: insomma, se non l'attesa di una proposta di matrimonio, almeno quella di una relazione tanto stabile da comportare conoscenza e uso di un nome proprio. Anche se sempre venale, si badi bene, come relazione. Ma c'è commercio che non lo sia? Allusivamente, come poteva esserlo quello che viene detto, per luogo comune, il più antico del mondo. Altri tempi. Poco politicamente corretti e, ciò che è più grave, senza saperlo: lo si era annunciato.
Dare però un nome proprio a qualcosa che un nome ce l'ha già, ma non-proprio (o comune, come si dice tradizionalmente), è impulso umano incoercibile, a determinate condizioni. Altrimenti perché, appena alla luce, anzi, ancor prima di nascere, un bimbo diventerebbe Pietro o Leonardo e una bimba Giulia o Sofia?
Il commercio amplifica a dismisura tale impulso, in tutte le sue faccette e per i suoi trasparenti scopi. Ingigantisce così a dismisura anche il saprofitico numero di esperti, di saggi, di scuole sul branding: non la minore delle sue comiche conseguenze.
Nella sfera dell'alimentazione, per esempio (ma sulla scorta di molte altre), ormai non c'è prodotto la cui menzione non sia investita da un processo di valorizzazione metalinguistica: funzionalmente, questo è quanto la tradizione grammaticale pone sotto l'etichetta di nome proprio (né si può dire che l'etichetta, presa come sempre alla lettera, non abbia provocato e non provochi tra i dotti interminabili discussioni, com'è tipico delle questioni di lana caprina, per dirla con Galilei).
Insomma, mela? Arancia? Patata? Cipolla? Banana? Giammai. Integri ciascuno i nomi propri correlati: Apollonio non vuole che questo suo frustolo sia sospettato di fare pubblicità occulta, fuori dell'esempio stagionato che, come pretesto, gli ha procurato l'avvio.
E Corbezzolo di Roccacannuccia, pardon... Pistacchio di Bronte è un campione del moltiplicarsi o piuttosto della vera e propria inflazione delle denominazioni che si vogliono protette: protette come nomi. Tutti, nelle loro molteplici forme, rappresentano ormai caricaturalmente il fall out dell'esplosione di una (interessata) libido nominandi.
Per ciò che vale (spesso, fuori della metalingua, nulla), un nome proprio costa e si paga. Sono le pratiche del commercio, non c'è bisogno di ribardirlo. Ma come non vedere, antropologicamente, in una libido siffatta la reazione morbosa e parossistica alla ferita che, in una temperie in cui non c'è cosa e non c'è prassi che non sia di massa, procura il sentimento morale di un crudo e universale anonimato?
"E la mia birra?" "Se non mi dice quale..." "Una birra, le ho detto, che mi disseti. Del nome poco mi cale."
Però, almeno in alcuni esercizi, anche l'"acqua frizzante" non basterebbe. Si verrebbe invitati a consultare la carta delle acque. Ignoro se esista il sommelier apposito.
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