29 settembre 2024

Linguistica candida (70): Storia e diacronia

Benevolmente, lascino i due lettori di Apollonio che di tanto in tanto egli se ne esca, tra altre futilità forse poco meno impopolari, anche con quelle, impopolarissime, prese di mira da questo frustolo e da altri simili.
Con candore, porge così un contentino al suo alter ego, come una sorta di risarcimento a una severa osservanza disciplinare, quasi sempre qui tenuta tra le quinte, come se se ne avesse onta.
Né credano perciò che tra specialisti e specialiste i temi presi così in considerazione abbiano appunto grande corso. Lo si ribadisce, caso mai non lo si fosse inteso: in questo diario, tutto è gratuito e personale o, per dirla con espressione che sarà universalmente trasparente, ci se la canta e ci se la suona per passatempo.
Ebbene, c'è chi dice di occuparsi di linguistica storica solo perché prende di mira lingue del tempo che fu. Lingue antiche. Talvolta tanto antiche da finire fuori della storia, visto che ci si figura che abbiano appunto preceduto la storia. Lingue "ricostruite", dove il prefisso perturba in molti la giusta percezione di quanto lo segue, con cui si dichiara appunto che si tratta di costruzioni, non di osservazioni. 
Lingue ipotetiche, insomma, non documentate né documentabili: con buona pace della storia, che senza documenti (o monumenti) va notoriamente a ramengo. Eppure, la disciplina che se ne occupa, come si diceva, passa (quasi) universalmente per storica.
Sono i paradossi prodotti dalla leggerezza, se non dall'inconsapevolezza con cui capita usino le parole coloro che pretendono appunto di occuparsi scientificamente di parole (e di altro dell'espressione). Lo sospettò, ai suoi tempi, Ferdinand de Saussure.
Forse per un momento e per istinto di solidarietà, come un Amleto, egli pensò d'essere stato chiamato dal destino a porre rimedio a tale inconsapevolezza e a mettere così la disciplina sul suo indispensabile cardine. "...montrer au linguiste ce qu'il fait" avrebbe significato svegliare un drappello di sonnambolici e attivissimi dormienti (oggi diventato un reggimento).
Ma il suo successivo silenzio lo testimonia: concluse che era impossibile o che non ne valeva la pena. Chi sonnamboleggia si infastidisce di essere svegliato. Meglio, per lui, per tutti, che resti a operare dormendo. E a dire che Saussure ebbe torto a tacere non sarà certo chi verga queste righe. Consapevole com'è d'essere un "povero untorello" quando il fantasioso uzzolo di "spiantare Milano" (a dirla per figura con Alessandro Manzoni) gli si presenta allo spirito e ne viene immediatamente rimosso
Fu prudente Saussure a non cadere insomma nella trappola che, a contatto con il mondo com'è in permanenza, un'indole ingenua, se non sciocca tende a ogni Amleto (lo decretò definitivamente l'arte del Bardo). E bisognerà che con ironia (quindi, finalmente con verità) un giorno o l'altro lo si riconosca. Bally e Sechehaye fecero un gran torto al loro maestro, evocandolo in quella estenuante seduta spiritica che fu il suo o il loro Cours de linguistique générale.
Eppure, solo per tornare oziosamente sopra una vecchia questione che lì sorge, senza esservi a dire il vero risolta, la differenza tra prospettiva storica e prospettiva diacronica, quando si tratta di lingua, ad Apollonio e al suo alter ego pare semplicissima e cristallina. E nelle loro mute conversazioni si stupiscono che ci sia confusione in proposito, nello stagno della disciplina.
Orbene: quando è questione di lingua, la prospettiva storica prende in considerazione e descrive, su base documentaria, quanto è accaduto: idealmente, a tappeto. Idealmente, perché pensare che tutto l'accaduto sia documentato sarebbe gigantesca illusione.
La linguistica diacronica considera anch'essa con attenzione l'accaduto mediato dal documentato, ma prova a distinguervi il pertinente dal non pertinente. E, trattandosi di pertinenza, lo fa alla luce di un'ipotesi di sistema.
Accade di tutto, è la divisa della linguistica diacronica, ma di tutto ciò che accade, anche quando capita sia documentato, non tutto ha un valore: c'è da chiedersi se è pertinente. Per la prospettiva diacronica, il valore di ciò che accade non dipende dal semplice fatto che sia accaduto (e sia documentato), insomma.
La prospettiva storica è invece giustamente refrattaria all'idea di sistema. Tutto vi è accidente, nel senso proprio: se accade ed è documentato è quanto basta perché se ne debba dare conto. Anche la determinazione di cause o effetti dell'accaduto, nella prospettiva storica, ha un senso sotto il segno di tale fondamentale accidentalità: una volta accertato, l'accidente è, come dato, la costante ed è insopprimibile; la sua (eventuale) spiegazione, causale o finale, la variabile.
Al contrario, per la prospettiva diacronica,
il dato è un costrutto e si correla sempre a un sistema: senza tale correlazione, esso letteralmente svanisce. Il dato è in altre parole un rapporto, una dipendenza, una funzione e anche le sue cause e i suoi fini (se determinabili) sono parziali epifanie di un valore funzionale. 
Una linguistica priva di un'idea di sistema tuttavia non si dà. Attenzione! Una linguistica. Non una considerazione della lingua anche disciplinarmente orientata. L'espressione, in uno dei suoi innumerevoli aspetti, costituisce infatti l'oggetto di una panoplia di discipline: non c'è fare umano che essa non incroci (talvolta determinandolo).
Ma se si tratta di una considerazione propriamente linguistica, un'idea di sistema le è connaturata. Se si volesse asistematica, la linguistica urterebbe infatti natura e funzionamento, non tanto del suo oggetto, quanto del suo medesimo fondamento. Come disciplina (e sta qui la sua vera specificità), la linguistica non è una dottrina esterna alla lingua e che le si impone, a mo' di spiegazione e di chiarimento.
La linguistica è solo lingua fattasi cosciente di sé, quindi capace di esprimere se stessa come metalingua: lingua che parla di lingua. Ed è un brutto segno, anzi il segno che non si è sopra una buona strada, quando si fanno in proposito troppo ingombranti terminologia o formalismo, che sotto spoglie diverse sono in realtà la medesima cosa. Scorciatoie che, se non ben controllate, portano appunto fuori da un corretto cammino verso la comprensione.
Ne segue, per riprendere il filo del tema di questo frustolo, che parlare sul serio di linguistica storica è, a essere rigorosi, come parlare di una sfera cubica: una contradictio in adiectoLinguistica implica sistema, storica lo esclude. A meno che storica non sia solo un attributo retoricamente esornativo, che ricorre perché suona bene, o si presti, in prospettiva micro-sociologica, a definire l'hortus conclusus di una confraternita accademica che, nell'esercitarvi il suo (modesto) potere, trova la sua (modestissima) identità (sa insomma ciò che fa in tale campo e poco le importa di sapere cosa fa, disciplinarmente).
Ciò che passa sotto il nome di linguistica storica è in effetti e a ben vedere filologia. Per dire meglio, una specializzazione della filologia, cioè un ramo di una disciplina nobile e antica che, modernamente, si può dire poggi sopra il postulato che Vico pose con l'esatta convergenza di verum e factum. Anche questo è un paradosso, a dire il vero, ma è molto bello e non si ha il cuore di obiettargli alcunché: solo di aggiungere, con un filo di irriverenza, l'osservazione che ci sono fatti che sono fatte di specie poco degne di una caccia. 
In altri termini, la cosiddetta linguistica storica è una filologia settorialmente orientata verso i fenomeni linguistici (e, ben fatta, ha un suo corso vigoroso e rispettabile). I filologi a tutto campo, come dovrebbero essere (ma talvolta non sono) gli storici, hanno però tenuto sempre in sospetto di incompletezza questa filologia specialistica,
con qualche iattanza: un'ancella, infine, troppo formale ed esteriore per essere capace di cogliere la carnosa sostanza delle vicende umane. Insomma, una disciplina minore.
E anche se gonfia pomposamente il petto, quando va a spasso, la linguistica che si qualifica come storica o, in altri e più corretti termini, la filologia specializzata nella lingua abita in realtà i locali di servizio del labirintico edificio delle discipline storiche. E sta lì in attesa che dai piani nobili chi fa storia con tutti i crismi, se pensa di averne bisogno, la chiami a procurare quanto può, per poi congedarla, eventualmente con lode contegnosa: "Brava, ma basta così. Torna pure in cucina". 
La linguistica, la vera, il cui oggetto è un sistema processuale, cioè in continuo divenire, e un processo sistematico, cioè che non eccede mai il sistema, non è invece una disciplina ancillare o minore. Come si disse un tempo presuntuosamente e con scarso frutto di consapevolezza, evidentemente, è una scienza dell'uomo (oggi: dell'essere umano) e solo perciò anche di quanto accade all'uomo (oggi: all'essere umano). E nella correlazione funzionale tra tempo e lingua, come sistema, consiste appunto lo specifico della prospettiva diacronica, in linguistica. 
Un'oltre-filologia, insomma, capace di ponderare fatti e dati iuxta propria principia. Negli ultimi due secoli, di tanto in tanto, la si è vista baluginare, qui e là
. E già questo consola.
Come sconforta, d'altra parte, o fa perlomeno pensare che persino Roman Jakobson, colui che, in vita, tenne a presentarsi come il linguista per eccellenza e come tale fu ed è ancora considerato, volle che il suo avello in terra americana di lui dicesse a conti fatti e conclusivamente "Filologo russo":




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