3 agosto 2025

C'è "maestro" e "maestro": Leonardo Sciascia, proprio, e Andrea Camilleri, figurato

Di Andrea Camilleri, nell'anno in corso, si celebra il centenario dalla nascita. È superfluo ricordarlo qui. Ispirate e sostenute da ragioni commerciali ed economiche (ci si intenda, comprensibili, se non etimologicamente plausibili e perfino lodevoli), la quantità di manifestazioni, di celebrazioni, di iniziative editoriali e giornalistiche che prendono spunto e amplificano la ricorrenza dice che, per la nazione di espressione italiana, il centenario camilleriano è il massimo avvenimento culturale del 2025. E qualcosa questo vorrà dire, per la nazione di espressione italiana. 
Non c'è d'altra parte da stupirsene. Da una prospettiva socioculturale, Andrea Camilleri - tanto lo scrittore, quanto la "pirsona" - è stato e (a quanto pare) continua a essere uno sfaccettato fenomeno nazionale. 
In proposito, Apollonio rinvia alle sortite del suo alter ego, ordinate da una modesta prospettiva linguistica. Ha ormai un quarto di secolo la prima, spontanea; tutte le successive sono state invece sollecitate - e pare, fino a un certo momento, per suggerimento di Camilleri medesimo: ammirevole consapevolezza o semplice equivoco? Poco importa.
A dare un pretesto al presente frustolo è, in effetti e come al solito, un marginale dettaglio. Nel grande clamore del centenario, spesseggiano infatti le occasioni in cui la menzione di Camilleri è accompagnata da un nome comune, con funzione di apposizione: maestro. Nello scritto, quasi regolarmente, con iniziale maiuscola; nell'orale, con l'enfasi opportuna e in ogni caso, come figurato titolo onorifico. Andrea Camilleri non è più insomma Andrea Camilleri, ma spesso e volentieri il Maestro o il maestro Andrea Camilleri
Perfino il maggiore quotidiano nazionale, con sede milanese, lo menziona così in una campagna pubblicitaria corrente. Ha infatti acquistato dal fortunato editore siciliano i diritti per la ripubblicazione settimanale della parte dell'opera camilleriana che ha il commissario Montalbano come protagonista. Certo condotte prima del lancio dell'iniziativa, le indagini di mercato hanno evidentemente decretato che il relativo bacino ideale di lettori e di lettrici non è ancora integralmente saturo e, in modo complementare, che di Camilleri non ce ne sarà mai a sufficienza. O ritualmente, che vale la pena che se ne faccia un'iterata menzione, come fosse un'orazione: ...ora pro nobis.
Anche qui, ci si intenda. Nulla che confligga con l'ethos nazionale: l'enfasi e la ridondanza (dei titoli) ne sono un tratto tradizionale. L'Italia del ventunesimo secolo è appropriata continuazione di quella degli ultimi secoli (c'è bisogno di prove?). Caso mai differente solo perché adesso è demograficamente estenuata. E in Italia maestro (con eventuale maiuscola) è titolo d'onore consueto. A chi cercasse conferme, Apollonio può subito fornire un opportuno indirizzo bibliografico.
Si appresta infatti a compiere venti anni Venerati maestri di Edmondo Berselli. "Il compianto Edmondo Berselli" avrebbe potuto scrivere Apollonio, se avesse voluto alludere, per gustosa mise en abîme, all'eventualità di fare anche di Berselli "un venerato maestro", al pari di quel che, per il libro, sono ironicamente i suoi personaggi: da Battiato a Eco, da Bobbio a Scalfari, da Asor Rosa a Calasso e molti altri, ancora attivi e che non vale quindi la pena di menzionare. Sono infatti "tra noi" e la loro maestria, in tutte le relative arti e i relativi mestieri, è riconoscibile e in pieno esercizio.
Tra Porto Empedocle e Racalmuto non sono però nemmeno cinquanta chilometri e, come nuovo cliché del discorso pubblico, sentire dare del maestro a Camilleri, che maestro per mestiere non era, ma che lo è divenuto per titolo d'onore, suscita in Apollonio un'associazione contrastiva. Essa gli pare rivelatrice e come tale è qui proposta ai suoi benevoli lettori. 
A Racalmuto (o a Regalpetra, recita il titolo di un libro, sul fondamento di una toponomastica fantastica ma trasparente), la letteratura nazionale contò in effetti un maestro, propriamente e con iniziale minuscola: Leonardo Sciascia. 
Attenzione: non c'è testimone né evento della vita di Sciascia che non dica che egli cercò, riuscendovi, di sottrarsi agli aspetti materiali connessi con tale qualificazione professionale. Aspirando a quelli morali che si correlano al passaggio da proprio a figurato e da minuscola a maiuscola? Forse. 
Ammesso l'aspirazione ci fosse, lo sforzo fu tuttavia vano. Morì, il (propriamente) maestro Leonardo Sciascia, senza maiuscola e senza passare appunto da maestro proprio a maestro figurato. Probabilmente morì anche non ignaro che, per conseguire tale passaggio, è socialmente necessario non si spiaccia a nessuno. Un'attitudine che non era proprio tra le sue. 
"Maestro", per figura (e con maiuscola), non è infatti titolo che si acquisisce dedicandosi, a torto o a ragione, al contropelo. E, quanto all'opera cui ci si consacra, non è la sua qualità a essere pertinente in proposito, quanto il suo conformismo rispetto allo spirito del tempo e del luogo che conferiscono l'onore (scrivere "la sua conformità" sarebbe stato un eufemismo).
Sciascia era un maestro elementare. E cosa avrebbe potuto e dovuto fare, un maestro scrittore, se non scrivere in italiano, nella lingua della nazione? Lo faceva però da vero e proprio anti-italiano, almeno nelle sue aperte intenzioni e, va detto, con qualche felice esito (felice, si intende, per il lettore e per la letteratura). 
Camilleri, maestro non era. Lo è diventato per figura. Come? Facendo sembiante di scrivere in una lingua tutta sua e, programmaticamente, non in quella della nazione. Una trovata ben riuscita, da abile "tragediaturi", che, con i sali e le spezie di una prosa apparentemente personale, ha dato non solo sostanza, ma anche e forse principalmente forma a un'opera arci-italiana. 
Essa ha in effetti incontrato in tal modo un pubblico bramoso di conferme e di ovvietà, tanto meglio se sapide e aromatizzate, che l'ha immediatamente riconosciuta come sua. Giustamente dubbioso, sulle prime, della efficacia dell'operazione, Camilleri vide via via crescere intorno a sé e alla sua opera plauso e consenso. Con stupore, da uomo intelligente, comprese che l'Italia stava trovando in lui ciò che le mancava da qualche tempo: un interprete ideale o, come si diceva un tempo, un vate. 
Presentarsi a quel punto "in pirsona" come arci-italiano, per Andrea Camilleri fu quasi obbligatorio, oltre che naturalissimo, perché probabilmente conforme alla sua indole. Creò così, di se stesso, un personaggio forse meglio riuscito del celebrato e arci-italiano Salvo Montalbano e, a dire il vero, come oggi si ha modo di verificare, persino più celebrato. 
E come arci-italiano, nei riti in memoria, egli oggi viene appunto offerto: un maestro santo o, se si preferisce, un santo maestro. Soprattutto nell'animo di coloro che leggono (e, si direbbe, pour cause), l'Italia clericale e bisognosa di culti non è sparita solo perché le chiese sono via via sempre più deserte e sono sparite sezioni e cellule di partito.
E così, la nazione celebra "il maestro Andrea Camilleri", specchiandosi, divertita, soddisfatta e per intero nella sua Vigata paradialettale. Quanto le sarebbe costato invece e ancora le costerebbe farlo, si osservi, in italiano, nelle crude "B.", "C.", "S." in cui si svolge Il giorno della civetta o nella cittadina senza nome che fa da truce sfondo ad A ciascuno il suo? E non è senza valore questo stridente contrasto onomastico, ma se ne ragionerà eventualmente altrove.
L'Italia è in effetti (una) Vigata e tale, con il suo Camilleri in primo piano, preferisce restare. 
Un'ovvietà, si dirà. Un topos e un esito scontato. E cosa si voleva ci fosse sotto l'osservata, banale differenza linguistica tra una figura, "il maestro Andrea Camilleri", e un uso proprio, "il maestro Leonardo Sciascia"? Non c'è partita: stravince la figura. E, dal Gottardo a Lampedusa, farci è sempre più efficace e redditizio di esserci.